Man, I'm sick, man, I'm schizo

Isak&Henrik | Casa | Cena

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    I’m falling apart, I’m barely breathing. With a broken heart.

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    Il taglio sul labbro inferiore bruciava come se ci fosse la miccia accesa proprio lì, vicino l’angolo, ed ogni volta che Isak apriva la bocca per parlare o per stirarla in un sorriso, il fuoco si espandeva lungo tutta la mandibola, il mento, la punta del naso ne avrebbe potuto annusare l’odore acro di bruciato, se solo fosse andata a fuoco per davvero. Ma, come tante altre cose, la fiamma aveva vita solo nel suo immaginario o esclusivamente sotto al suo tatto, avrebbe giurato di sentirgli i polpastrelli andare a fuoco ogni volta che li posava sul taglio anche solo per sbaglio: ritirava la mano di fretta e stringeva le dita in un pugno stretto, nascondeva la smorfia di dolore e riapriva gli occhi, le mani. Non c'era nulla che facesse male, non c'erano micce dalle quali stare alla larga e il taglio sul labbro non era altro che un taglio, ci si poteva sopravvivere. «Che diavolo hai fatto? Oh, Signore, ci risiamo...» la voce di Christine aveva la cadenza di cui si faceva carico quando - Isak ancora lo ricordava bene - qualche anno prima, dopo una telefonata o una dormita pomeridiana, rinsaviva dal suo catartico immaginare o pensare o parlare con chissà quale povera conoscenza, per ritrovarsi inerme di fronte alle facce dei gemelli, ancora piccoli e alla ricerca delle sue attenzioni materne, quando al contrario avrebbe preferito cancellare quella piccola parte della propria vita per tornare a sentirsi giovane e priva di alcuna responsabilità, che essa fosse materna o di semplice figura di genitore. Li guardava, Christine, e si ricordava dell'enorme sbaglio che avesse compiuto, cercando poi di tappare quel risentimento che gigantesco sentiva crescerle dentro i polmoni per impedirle di respirare concentrando la propria attenzione sul fatto che, magari, c'era pure chi stava peggio. I piedi avvolti in un paio di Jimmy Choo, un vestito di seta nero e un mantello della stessa stoffa che usava spesso per girovagare in casa, uno scialle che le copriva le spalle e la schiena fino all'altezza dei polpacci: se ne stava col fianco posato contro il marmo bianco perla dell'isolotto mentre, con una frenesia leggera ma ben ponderata, si limava le unghie della mano sinistra con la destra e viceversa. I capelli biondi ricadevano in piccoli rotoli di grano lungo la schiena, il trucco, un po' accennato, era lo stesso che le aveva visto addosso quella mattina quando era uscita per un aperitivo al Delaunay. «Vedessi l'altro, mà.» la pizzicò Isak mentre, fatto il giro dell'isolotto in cucina, andava ad aprire il frigo per tirar fuori una birra. Marisol, in piedi di fianco al frigorifero e con le mani sotto il getto dell'acqua del lavandino, lo guardò di sottecchi voltandosi appena nella sua direzione, lo sguardo preoccupato. Isak l'avvertì tirare un sospiro, forse un po' rassegnata, forse un po' dispiaciuta al pensiero che, se solo ne avesse avuto la possibilità, forse avrebbe potuto fare molto di più per i gemelli. Ma non era possibile, non lo sarebbe stato, e questo lo sapevano tutti gli individui che abitavano quella casa, troppo pulita per le abitudini di chi l'abitava. «Tu aspetta che ti veda tuo padre, Isak.» pronunciò aspra Christine mentre terminava con le unghie e si sbarazzava della limetta gettandola nel cestino, poi tornava ad afferrare il bicchiere di Merlot che aveva posato poco prima sull'isolotto e lasciò la cucina. Avvertì l'aria della stanza farsi leggera non appena l'altra fu sparita oltre la porta, quindi si voltò nuovamente verso Marisol ancora di fianco a lui. «E' solo un taglio. Non ti devi preoccupare, tu sussurrò Isak in direzione della donna dai colori così diversi dai propri mentre, posatale brevemente una mano calda sulla spalla, fece per passarle oltre chiudendo il frigo e dirigendosi in direzione della sala da pranzo, pronto per sedersi e non fare altro finché non sarebbe stata servita la cena, a breve.
    Fuori dalla cucina, Isak attraversò lo spazio enorme che fungeva da ingresso, salone e sala da pranzo, un open space di grandi dimensioni. Passò di fianco al pianoforte di Henrik e premette un paio di dita sui tasti lasciando che il suono si spargesse in tutta la casa. Sollevò appena il mento in direzione della scalinata che portava al piano di sopra e, fermatosi ai piedi d'essa, tirò fuori l'accendino dai pantaloni della tuta Nike grigi che indossava e stappò la bottiglia di birra, avvicinandola alle labbra per berne il primo lungo sorso. «Henrik?» chiamò al fratello indirizzando la voce al piano di sopra. Nessuna risposta. «HENRIIIIICK?» gridò, stavolta, ma in risposta non rotolarono giù altro che urla da parte di sua madre. Si morse le labbra per non risponderle di nuovo, ma i denti andarono a riaprire la ferita sul labbro inferiore ed Isak si ritrovò a pulire il sangue dal mento e, ovviamente, anche dal collo della bottiglia dalla quale continuava a bere sorsi. S'incamminò verso la parte del salone in cui vi era il tavolo da pranzo, ora già apparecchiato per la cena, e si sedette al proprio posto, lateralmente a dove sedeva suo padre ad un capo della tavola e frontale ad Henrik. All'altro capotavola c'era sempre Christine. Dei quattro, solo lui era già presente. Uscì l'iPhone dalla tasca dei pantaloni e lo posò sulla superficie del tavolo apparecchiato, di fianco alle posate, e ne sbloccò lo schermo. Un paio di messaggi di Gus e Sam, un paio di Kos, e poi, ovviamente, una sfilza di messaggi da parte di Gree che, dopo tre giorni di silenzio si era già arresa, soprattutto dopo esser venuta a conoscenza della litigata di Isak col tizio, neanche si ricordava come si chiamasse. Il tizio che alla sua festa di compleanno aveva approfittato della situazione per avvicinarsi a lei e conoscerla meglio, più intimamente. Restava calmo, quando necessario. Poi però esplodeva, se le creava da solo le situazioni, tirava via risposte, rimetteva in gioco le pedine, si vendicava senza remore di chi non lo lasciava fare a modo suo, di chi anche solo sfiorava quello che Isak riteneva fosse proprio. Ricordò per un momento anche a quanto si fosse sentito sollevato quando aveva saputo che la tizia - di cui non era mai riuscito a memorizzare il nome - per cui il fratello aveva preso una sbandata ora sembrava essersi dileguata nel nulla. Non l'aveva vista di buon occhio perché, ne era consapevole a labbra strette e quindi muto, che nel momento in cui una donna, una qualsiasi, avesse attirato troppo l'attenzione di Henrik, i riflettori sarebbero scivolati altrove e dell'unica parte di famiglia che per Isak contava qualcosa allora non sarebbe rimasto nulla. Se Henrik lo avesse abbandonato, tradito, ferito, allora per Isak non c'era più niente da cercare all'interno di quelle mura. Forse, alla fine, era proprio il gemello la sua condanna. Forse era per il legame che lo legava ad Henrik che Isak si sentiva intrappolato e non sapeva come andare via, come liberarsi dagli occhi indignati di suo padre e la voce cantilenosa di sua madre. Perché, finché c'era Henrik, quell'uno in realtà si tramutava in due, la metà di quattro, la metà degli Havbølger, la metà della forza, alzarsi e sollevare il mento sarebbe venuto più facile, magari.
    Sospirò, seduto sul tavolo con la schiena curva e il viso chino sul display del telefono il polpastrello del dito indice sfogliava su Instagram foto di amici, di ragazze, tre cerchietti rossi in alto a destra segnavano un paio di messaggi non letti, qualcuno sicuramente di Gree, ancora, qualche altro di una tipa che aveva conosciuto la sera prima in un bar vicino l'università mentre ascoltava Kos straparlare di come fosse su di giri con la cognata del professore. Ridacchiò al pensiero dell'amico, gli sembrava quasi fosse alle prime armi e già sapeva che, se si fosse innamorato, lo avrebbero dovuto raccogliere col cucchiaino. Solo il pensiero lo divertiva da matti. Stava infatti ridendo quando la porta di casa si aprì e la figura di suo padre fece capolino dall'uscio, giacca e cravatta ancora interamente intatte e lisce, come se fosse uscito di casa solo cinque minuti prima. «Che hai fatto al labbro?» chiese subito. Nessun saluto, nessun come stai. Solo quelle parole, lo sguardo accusatorio, l'insoddisfazione nella piega stretta e dritta delle labbra. Lo vide arricciare il naso e lo seppe: quella non sarebbe stata una cena semplice. «Sono caduto dalle scale, chiedi a Henrik». si difese, non avrebbe voluto discuterci un'ennesima volta. Non sarebbero mai andati d'accordo, non avrebbe mai capito. «E certo, se non fai altro che stare attaccato alle bottiglie. Dopotutto, la mela non cade lontana dall'albero.» aggiunse muovendosi in avanti per chiudersi la porta alle spalle. Lasciò la sua ventiquattrore per terra di fianco all'appendiabiti e, finalmente, la sua attenzione venne attirata da altro: Henrik.
     
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