Quest V : Sykdom Apocalypse

Quest nr. 5 | Besaid

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  1. alunissage98
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    Era facile affondare con gli scarponi incrostati nella fanghiglia, in quella notte fredda e lunga in cui il fragile figuro si faceva strada fra le fronde di un bosco a lui ormai nuovamente familiare, mani a loro volta affondate nelle tasche dello scuro cappotto, una silhouette che facilmente si confondeva con i tronchi degli alberi – a differenza di qualsiasi cosa Jonah avesse precedentemente scorto tra quelle ombre che calmavano il battito accelerato nel suo petto. Il suo cuore raramente si era lasciato cullare da quando era giunto a Besaid, tant’è che le ossa che lo proteggevano a malapena conoscevano la forma del materasso dell’ostello, ma i suoi piedi avevano ormai memorizzato ogni centimetro di quella foresta, la sensazione delle foglie sulla pelle, seppur preferita, momentaneamente abbandonata a favore di una scelta più igienica e, soprattutto, salutare considerato l’orario e quanto si sarebbe svolto quella sera in particolare. Se anche Jonah avesse voluto dormire, far esperienza almeno per poco della sensazione di pace che solo il sonno può portare (seppur a lui fosse alquanto sconosciuta), quel giorno sicuramente sarebbe stato impossibile: c’era una sensazione, una profonda consapevolezza di cui non riusciva a liberarsi con la ragione, che quella serata fosse diversa dalle altre, come se inconsciamente sapesse molto più sulla città di quanto potesse pensare. Come se avesse vissuto quel giorno molte più volte di quante si sarebbe mai potuto ricordare – e sicuramente era così, aveva già visto quei festeggiamenti, sentito quella musica, osservato le fiamme languire il cielo notturno. Se ne accorse quando raggiunse finalmente la spiaggia, meta memorizzata dalle sue passeggiate quotidiane ma, in quel caso particolare, fonte di curiosità da quando aveva accidentalmente origliato alcuni dei suoi studenti parlarne qualche giorno prima, silenziosamente diffondendo quella preziosa informazione che avrebbe preferito non conoscere. Di certo era contento di poter celebrare un evento così importante con i suoi concittadini, soprattutto perché quei residui di memoria sembravano stampati nella sua mente in una lingua a lui incomprensibile (eppure così insistente, come se gli bastasse solamente trovare il giusto dizionario per poterli decifrare) – ma, ammettiamolo, era una pessima idea. Ed era anche questo che aveva spinto il preoccupato professore ad uscire di casa, la consapevolezza che i suoi studenti si stavano esponendo al pericolo solo per poter bere qualcosa, per potersi divertire sotto al cielo stellato; e per quanto comprendesse bene l’elettrizzante sensazione, dopo l’incontro al quale era stato invitato per discutere dei recenti avvenimenti era certo fosse una pessima idea. Insomma, un pazzo a piede libero disposto a tutto pur di rubare le particolarità era un buon motivo per rimanere in casa, non solo quella sera, ma tutte le altre possibilmente – il problema è che solo lui e qualche altro figuro, conosciuto o meno che fosse, che di tanto in tanto aveva visto sia in giro per la città, sia quella sera sulla spiaggia, erano consapevoli di quella verità, e sorprendentemente (per così dire) neppure la possibilità che il virus menzionato dai giornali potesse diffondersi era riuscita a fermare le celebrazioni. Jonah sbuffò leggermente infastidito alla visione dell’affluenza, considerato il veto imposto dalle autorità, ma fu anche costretto ad ammettere la sua ipocrisia data la sua presenza lì e la sua ormai incontenibile curiosità; essa lo spinse a proseguire nella sua passeggiata, tracciando nella sabbia orme leggere quasi a non voler farsi notare dalla folla mentre costeggiava le onde schiarite dalla luce lunare, ormai sua compagna in quel suo infiltrarsi giusto ed al contempo errato. E questo non tanto per le imposizioni dall’alto, quanto per una sua conscia difficoltà nell’ammettere la sua appartenenza a quella cultura che, però, lo prendeva per le viscere e lo attirava a sé come se invece fosse sempre stata sua – queste altalenanti emozioni stridevano con lo scoppiettio del fuoco e la rilassante ninna nanna del mare, ed erano anche più insopportabili al vociare delle persone fasciate di abiti d’altra epoca, quasi fosse scivolato indietro nel tempo, molto più indietro di quanto avrebbe mai potuto ricordare.

    Quella sensazione si cementificò quando vide un gruppo di figuri dal volto illuminato in quella notte ancora scura avvicinarsi ad uno dei falò, la sua breve curiosità presto sostituita da una pesante ancora nelle viscere alla realizzazione di chi fossero – anzi, di chi fosse il loro capo. Quando abbassò il cappuccio e lasciò che la luce delle fiamme gli languisse il volto, mostrando caratteristiche che aveva studiato e memorizzato dai documenti che erano stati forniti loro nella speranza di poterlo forse trovare nei boschi (missione purtroppo fallita), Jonah riuscì solo a pensare una cosa: cazzo. Si disse che stava sbagliando, che sicuramente era solo un intrattenitore, parte dell’evento – doveva essere parte dell’evento, ma la barriera che avevano innalzato tutt’attorno a loro diceva il contrario e prima ancora che potesse realizzare cosa stesse urlando il suo istinto animale… se lo sentì strappare dalle ossa. Gli mancò il fiato, come gli era mancato per anni, e per un attimo non gli sembrò neanche possibile le gambe potessero reggere il suo peso a quella consapevolezza: non c’era più. L’uomo aveva preso la sua particolarità. Gli si inumidirono gli occhi appena se ne rese conto, anzi, forse prima ancora che i suoi pensieri riuscissero a mettere a fuoco quella sensazione – perché non serviva lucidità per ammettere fosse tornato quel buco nello stomaco che per anni aveva confuso per se stesso e che, invece, era metafora di quanto di sé avesse perso. Si coprì la bocca con la mano alla sensazione di nausea – non voleva, l’ultima cosa che avrebbe mai potuto desiderare sarebbe stata quella, di tornare a com’era prima, perso, assolutamente sconosciuto a se stesso, una fossa nel suo animo che niente e nessuno avrebbe mai potuto colmare, e come se non bastasse, mentre lui stava nuovamente perdendo il senno, l’uomo illuminato dalle fiamme continuava a dilungarsi e diffondere il suo messaggio come se potesse effettivamente avere un senso. Essere un tutt’uno? Un superorganismo, ma scherziamo? Chi tra quelle persone avrebbe accettato di cedere la propria individualità per le fandonie di un pazzo? Per una libertà che era loro già concessa dal fatto stesso di essere unici? Jonah sapeva che non avrebbe mai voluto perdersi, e si strinse a sé quasi per paura che quel figuro avrebbe potuto portargli via altro – finché non si rese conto del prezzo da pagare. Finché un ragazzo non bruciò nella notte, così velocemente che, se non si fosse trovato poco dietro di lui, forse non lo avrebbe neanche notato.

    Scappa.

    La sua testa non ripeteva altro, il suo istinto così vitale per lui – una traccia indelebile della sua particolarità – non faceva altro che ripetersi a macchinetta nella sua testa, e dio quanto avrebbe voluto effettivamente farlo, le sue gambe già pronte a procedere come se sapessero farlo a memoria; e cazzo se lo sapevano, quante volte avevano messo in atto quella risposta, sempre gazzella e mai leone. Nel meccanismo fight or flight, Jonah aveva sempre scelto la seconda, perché quando sceglieva la prima era sempre lui a perdere – o almeno, questo era quanto aveva imparato dalla sua seconda vita. Scappa, e se le sue viscere avessero trattenuto almeno un briciolo di quanto vissuto prima, allora avrebbero dovuto avere ragione. Doveva farlo, scappare, trovare un modo per sgusciare oltre quella barriera – era sicuro che, se avesse voluto, una soluzione l’avrebbe trovata, perché era sempre così con lui, se solo fosse scappato avrebbe potuto salvarsi. Ma senza la sua particolarità. Scappa comunque, si ripeteva, ma i suoi piedi non si muovevano – sentiva la gente in agonia che cercava disperatamente di fare la stessa cosa, se si fosse unita a loro forse insieme avrebbero potuto organizzare qualcosa, ma c’erano due pesanti consapevolezze che gravavano sulle sue spalle e gli impedivano di fare qualsiasi cosa se non osservare con occhi sgranati chi si faceva avanti ed offriva il proprio destino ad un’ignobile causa. Scappa, ti prego – la prima era la realizzazione che, se si fosse allontanato da quel posto, sarebbe dovuto uscire da Besaid, questa volta per sempre, perché l’uomo non avrebbe mai potuto giustiziarlo se fosse stato molto lontano dall’unico posto in cui poteva effettivamente utilizzare tutto quel potere. È vero, forse lo avrebbe lasciato andare, forse si sarebbe dimenticato di lui una volta sparito dalla sua visuale, ma nulla avrebbe potuto assicurarglielo e, soprattutto, avrebbe significato continuare a vivere metà uomo, metà vuoto. Non era così sicuro di potervi riuscire. Scappa – la seconda era, in realtà, la prima cosa che gli era venuta in mente, troppo spaventosa per poterla anche solo pensare: se lui si fosse ribellato ed il suo corpo fosse diventato cenere, sabbia nera dispersa nel vento, cosa ne sarebbe stato di Anniken? Se quell’uomo fosse riuscito in qualche modo a portare quel potere fuori da Besaid – perché dubitava fortemente si sarebbe fermato al solo raccolto, senza poi approfittare della forza guadagnata – chi avrebbe protetto sua figlia? E se anche non fosse andata così, chi l’avrebbe cresciuta, chi l’avrebbe accudita? Scappa diceva la sua testa, ma Jonah aveva il sorriso di sua figlia stampato in testa dalla videochiamata di quel pomeriggio e non poteva, sapeva che non poteva. Andava contro tutti i suoi principi, era l’idea peggiore che potesse mai avere ed i sensi di colpa già avevano cominciato a dilaniarlo come se la scelta in sé non fosse abbastanza, no, doveva anche essere consapevole in tutto e per tutto del suo egoismo, di star anteponendo la propria salvezza a ciò che era giusto – ma cosa avrebbe dovuto fare? SCAPPA ed i suoi piedi si mossero, ma nella direzione opposta: ogni passo affondava più che nel fango, come se non fosse su una spiaggia, ma nelle sabbie mobili ed ogni volta che sceglieva di proseguire, piuttosto che tornare indietro, fosse come farsi carico di un altro macigno sulle sue spalle, che in realtà erano pensieri su pensieri e battiti su battiti.

    Lo sapeva, lo aveva sempre saputo che quella serata sarebbe stata diversa, da quando era silenziosamente sgusciato fuori dall’ostello, a quando si era ritrovato ad inseguire con occhi curiosi una figura oltre alla sua muoversi tra gli alberi, a quando l’odore della salsedine aveva insistentemente impregnato le sue narici – fino a quel punto, in cui si ritrovava con gli scarponi piantati nella sabbia. Il battito del suo cuore aveva solo continuato ad accelerare quasi si stesse preparando alle parole che stava per pronunciare, e le disse, proprio davanti all’uomo che per giorni si era preparato a scovare – che stupido, che stupido che era stato anche solo a crederlo. La verità è che Jonah era solo un fragile figuro avvolto in avventatezza e delusioni, svuotato di ricordi, incapace di essere molto se non padre e professore; un accademico, insomma, ed anche uno sfortunato, cosa avrebbe mai potuto fare contro un individuo del genere? Se lo disse forse solo per consolarsi, almeno un minimo, per la scelta sbagliata che sapeva di star compiendo, e non poté che ripudiare se stesso quando, alzando lo sguardo tremolante, con il battito così forte nelle orecchie da non riuscire neppur a sentire la sua stessa voce, disse «Mi unirò alla causa».
     
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