Quest V : Sykdom Apocalypse

Quest nr. 5 | Besaid

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  1. ƒiordaliso
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    I’m falling apart, I’m barely breathing. With a broken heart.

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    «Dovete permettere che accada.» disse la voce alle sue spalle, s’infiltrò fra un rombo e l’altro, le mani di Sibylla strette intorno al calcio di una pistola. Non aveva paura. Non aveva paura da molto, da quando il volto di Rem era sparito dal riflesso nello specchio, una statura due volte più grande della propria, la spalla destra che nascondeva un terzo del corpo di suo marito. All’inizio si erano sorrisi l’un l’altra guardandosi attraverso un mondo parallelo che forse l’imitava solamente. Lo avevano saputo, quei due riflessi, che avrebbero provato a strozzarsi? «Lasciare che le prede diventino vittime?» chiese Sibylla, più che altro in maniera retorica, mentre premeva il grilletto per l’ennesima volta. Il proiettile sfrecciava via dalla canna nera pesante che stringeva fra le dita e si andava ad abbattere nella figura di cartone a forma di uomo: un buco nel centro del cranio, un buco nel centro del petto, direzione cuore, organi.
    I passi dietro di lei si fecero più vicini, poi cessarono e la voce le sembrò venire da dentro, tanto era vicina. «Dottoressa Greseth… è tutto parte di un piano molto più grande e più profondo di quello che prevede chi siano le prede o le vittime. Un sovraccarico dell’uso della sua… delle sue particolarità potrebbe giocare a nostro favore. Giocherà a nostro favore. Capisce che intendo? Voglio quell'uomo e lo voglio morto, ma questo non sarà possibile finché non perde ciò che lo rende vivo.» fu quasi un sussurro, la mano dell’uomo si posò sulla spalla di Sibylla per un momento e tutto divenne scuro, prese il colore della notte per poi trasformarsi in arancio, vedeva il rosso per terra e i granelli di sabbia spostarsi come sabbie mobili ad ogni singolo passo, il silenzio e il boato di un’esplosione, forse.
    Si sfilò dalla presa dell’altro voltandosi verso di lui mentre riapriva gli occhi e fissava le iridi cervoni dentro quelle chiare di lui. A labbra schiuse, Sibylla respirava profondamente ma a fatica, come se fosse appena rinsavita da un incubo, il cuore un battito unico, continuo, come se sapesse di non avere così tanto tempo ancora.
    Annuì, drizzando la schiena, mentre tornava ad abbassare lo sguardo sull’arma da fuoco che teneva in una delle mani, stretto contro il palmo il calcio era ormai diventato tiepido, la pelle bruciava. Era sempre riuscita a distinguere il bene dal male, la vittoria dal fallimento, eppure in quel momento c'era una debolezza insidiosa che grattava la superficie dello stomaco. Fu un solo, brevissimo, attimo di umanità che a volte dimenticava facesse parte di lei. La mente, la psicologia che la costruiva e la caratterizzava, però, la spinsero a sollevare quasi immediatamente di nuovo lo sguardo sull'altro, le sopracciglia corrucciate, fiamme argentee dentro il nero pece delle pupille corniciate di verde e marrone. «E’ per questo che sono qui.» sussurrò decisa, annuendo, per poi tornare a voltarsi. Doveva concentrarsi. Non c'era più tempo e non c'erano molte altre scelte da compiere, non quella sera.

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    Dall'altro lato, oltre i festeggiamenti, oltre il buio dei vicoli, oltre il visibile, le bottiglie di vetro intatte o in frantumi per terra; oltre i gridolini di chi non riusciva a spiegarsi l'adrenalina di una serata all'apparenza come le altre, oltre la sensazione di trasporto e la brezza marina che giungeva da sud; oltre la quotidianità di una professoressa o criminologa, Sibylla si rivelava in maniera meccanica, addestrata, la parte di un nucleo militare che svolgeva i propri interessi nascondendosi dietro la facciata di chi, invece, voleva l'interesse del popolo.
    «La città sembra essersi svegliata malvagia. Non hai la stessa sensazione?» constatò mentre, camminando al fianco di Theo, avanzavano lungo un vicolo semi illuminato dalla luce naturale di un cassonetto in fiamme. Vedeva la sporcizia, la infastidiva sapere che il suo ordine sembrava essere svanito come se avesse ceduto nel silenzio il proprio spazio al caos. Eppure, l'ordine di Sibylla era quello che si adagiava sulla linea retta della propria morale, un telo sotto al quale si nascondevano le cose che non le piacevano, una polvere sottilissima che non aveva alcun posto al di sopra della stoffa, illuminata dalla luce. Dietro quelle parole, nascosto tra i pensieri, si celava però un altro tipo di idea: un caos che, dopo esser svanito, avrebbe potuto lasciare spazio ad un altro tipo di assestamento e, questo, Sibylla lo sapeva alla perfezione: per creare ordine, ci voleva la tempesta.
    Dopo qualche ore di pattuglia in cui avevano fermato un paio di gruppetti, più che altro per ingannare il tempo, tutte le pattuglie del governo posizionate in città erano state sollecitate a dirigersi verso la spiaggia per raggiungere le altre quattro che, dal pomeriggio prima, erano state posizionate sui confini. Il divieto dei festeggiamenti era stata solo una mossa di figura, lo sapevano bene un po' tutti fra quelle fila, dirlo a voce alta però avrebbe fatto di qualcuno di loro solo un ipocrita.
    Giunti sul confine nord della spiaggia e raggiunta una delle pattuglie, Sibylla si espose per osservare le immagini che le si presentare dinanzi senza però riuscire a vedere ciò che realmente aveva davanti. Agli occhi di coloro i quali se ne stavano nel pieno dei festeggiamenti senza pensare a cosa realmente stesse accadendo, quello era il modo di sgusciare via alle costrizioni di una vita che li voleva tutti uguali, tutti meccanici, robot mossi dai poteri alti, gli stessi che dicevano cosa fare e cosa non. Loro, lì con i piedi danzanti nella sabbia morbida, non vedevano ciò che dai confini della spiaggia giungeva col vento, con le onde del mare ora nero pece, con il movimento delle foglie che si tramutava in voce dal bosco: un pericolo.
    «E' ora.» la voce di Theo, dietro di lei, diede l'allerta al loro gruppo. Sibylla si voltò a guardarlo per seguirne lo sguardo attento dall'altro lato della spiaggia: un gruppo di uomini incappucciati si faceva spazio verso il centro della spiaggia per fermarsi di fronte al grande falò che illuminava tutto il circondario. «Se ne usciamo vivi, domani ti offro una birra.» sussurrò Sibylla in direzione di Theo senza però voltarsi a guardarlo, ipnotizzata dai movimenti statici e coordinati degli incappucciati. Immaginò fossero un tutt'uno, ebbe come l'impressione che si trattasse di un ragno gigante fatto di carne umana, un'unica mente in grado di pensare per dieci, venti, trenta. Compì un passo in avanti, poi due, si ritrovò dietro le figure di alcuni uomini e donne il cui interesse, proprio come quello di Sibylla, sembrava esser stato catturato dal centro della spiaggia e da quel volto - ora scoperto - ricoperto di vernice verde fosforescente. Dello stesso colore fu la barriera che, da un momento all'altro, apparve intorno alla spiaggia e la separò dal resto del gruppo di agenti. In qualche modo, però, sembrò importare poco in quel momento. Venne investita, per pochissimo tempo, da una strana consapevolezza: si trovava nel momento giusto al momento giusto, comprendeva la ricerca del potere, aveva quasi l'onore di esser parte di un momento storico che, non capiva come esattamente, si protraesse dal passato al presente al futuro. Come poteva un uomo, tanto umano come lei, spargere un'idea di quella maestosità? Non era davvero uomo. E quella consapevolezza, giuntale come uno schiaffo in faccia, le scivolò via dalla mente nello stesso momento in cui la mano del ricercato si fu sollevata nella direzione di coloro che gli stavano intorno, entro la barriera. Schiuse le labbra, la sensazione di sconfitta le fece chinare le spalle mentre si portava una mano alla fronte per massaggiare le tempie ora in fiamme. «Sibylla!» la chiamò Theo ma, quando lei si voltò, il verde della barriera l'accecò e costrinse a darle nuovamente le spalle. Con una mano sugli occhi, sollevò l'altra in direzione del collega, dita ben stirate e palmo visibile. «E' tutto ok, non perdete la concentrazione!» disse rivolta agli altri. Poi, abbassando le braccia lungo i propri fianchi, andò a posare una delle mani sul calcio della pistola ferma nella cinta dei pantaloni neri che indossava, il distintivo del governo ancora nascosto sotto la maglietta scura e a collo alto che indossava. Avanzò tra la folla, restando in disparte ma senza perdere di vista ciò che stava accadendo. Sentiva il sangue ribollirle nelle vene, il sangue si miscelava ad un ideale che non sapeva quale direzione prendere, conosceva solo il punto d'arrivo. Lo voleva morto, così come aveva voluto morto Rem per i suoi ideali o per l'aver esercitato la propria forza su di lei per farla tacere, per cancellare quello che con la sua idea di vita non avrebbe potuto sposarsi. Sibylla voleva quell'essere morto e non perché il governo pensava fosse giusto. Sibylla lo voleva freddo, muto, debole perché il suo ideale cozzava con il proprio, e questo bastava.
    Vide alcuni degli esponenti della città farsi avanti, reagire assecondandolo o distaccandosi da lui, l'odore di carne bruciata aveva raggiunto anche le sue narici e comprendeva la paura, il terrore di non vedere il sole un'altra volta, non sapere più che sapore avrebbe avuto bere un bicchiere di vino, annusare un indumento pulito e piegarlo per riporlo al proprio posto in un cassetto. Ma no, Sibylla non comprendeva la codardia, la stessa che, immaginava, aveva spinto uno come Naavke Evjen o Nikolaj Mordersoon ad unirsi. C'erano atteggiamenti che andavano corretti e, qui, la dottoressa e la professoressa non avevano quasi mai fallito.
    Si fece avanti, consapevole del pericolo, consapevole dei possibili scenari, anche quelli che, al contrario di ciò che lei avrebbe desiderato, vedevano lei morta. Ma non importava. Alla fine, lo sapeva, vinceva la violenza più tempestosa, più spericolata, più crudele, bisognava solo combattere, il migliore avrebbe vinto. Il governo lo voleva morto, lo voleva in sovraccarico, lo voleva debole. E se per un momento dovette considerare l'opzione che avrebbe facilitato quella condizione, il secondo seguente le fu chiaro che, sì, l'ideale del governo era anche una linea guida, ma non era fatto della sostanza di cui era fatta lei, non aveva la morale di Sibylla, non aveva il credo in un Dio che, un tempo, sua madre le aveva insegnato a rispettare. Avrebbe dovuto unirsi, lo sapeva. Avrebbe dovuto cedere la propria forza a lui, sapeva anche questo. Eppure, quella forza, quella macchina d'ingranaggi che le permetteva di comprendere gli altri l'aveva persa poco prima, cosa le restava? Una. Sola. Cosa.

    «Mi piegherò quando la tua violenza vincerà la mia
     
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