Almost (sweet music)

Jonah Losnedahl & Adam Kane (ft. Anniken Losnedahl)

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    ~ Clara ~

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    Rinfrescanti risate risuonarono piacevoli nella quiete del primo pomeriggio in cui s’immergevano una voce calda e gentile, una acuta e sonora e tante altre ovattate, suoni naturali sottofondo d’un padre ed una figlia estremamente presi dalla più divertente delle attività… per loro, perlomeno: delle due figure riflesse sulle tranquille acque del ruscello Besaidiano, scrutate dai torvi sguardi delle creature appartenenti alla foresta circostante, la più grande era ormai all’altezza dell’altra e completamente bagnata. Impacciato provetto, neppur l’accurato ripiegamento dei consumati jeans attorno alle ginocchia e la previa rimozione della camicia a favore d’una semplice canottiera era servito ad evitare a Jonah di bagnarsi, e l’ora inzuppato fondoschiena non poteva che essere l’argomento più esilarante del mondo per la bimba di 7 anni al suo fianco, piccole mani troppo prese dal tenersi la pancia per accorgersi del precario equilibrio che quasi la condusse al medesimo destino della sua persona preferita. Quasi, perché fu proprio questa a salvarla giusto in tempo, grandi mani rapidamente avvolte attorno a gracili polsi – ed un solo secondo di silenziosa pace fu concesso agli abitanti dei boschi prima che l’atmosfera si rifocillasse nuovamente di grasse risate, sollievo da entrambe le parti conclusosi in un dolce abbraccio, forse non completamente asciutto. «Oh, oh, poi voglio provare a catturare dei tonni!» l’entusiasmo di Anniken accompagnò i due anche quando i piedi furono asciutti e restituiti alle rispettive scarpe, in modo da farsi strada verso la piccola radura in cui avevano abbandonato il resto del loro equipaggiamento, modesto e forse un po’ rovinato da anni d’avventure, però sufficientemente funzionante da richiedere a malapena due bestemmie mascherate perché il fornello da campeggio potesse accendersi; non era il primo “devo proprio comprarne uno nuovo” ad uscire dalle labbra del volto magro, eppure anche quella volta fu dimenticato a favore della scelta del menù del giorno. «E dovremmo cercare le rane, voglio una rana…» riprese a blaterare la piccola ondeggiando accanto a suo padre, intento a preparare il miglior manicaretto di sempre – o così lo definiva ogni volta e, seppur mancasse sempre un po’ di sale, per lei lo era comunque, anche perché la cucina di sua madre era sorprendentemente peggiore. «Oh e se invece prendessimo un cane? Potremmo cercare tartufi in autunno!! …Ci sono tartufi qui?» Paziente, il genitore lasciava la dolce voce scorresse incontaminata come il fiume in piena che era la personalità sua sorgente, rispondendo tranquillo di tanto in tanto con una calma ritrovata solamente al suo fianco e nella natura: anche quella mattinata, come tutti i recenti fine settimana, era stata così divertente da far scivolare via qualsiasi preoccupazione dalla mente al momento adombrata solo dalla chioma degli alberi attorno, la sensazione di libertà respirata ad ogni sorriso condiviso, ogni meraviglia riconosciuta, ogni vita apprezzata. Quando Liss si era chiesta perché mai suo marito avesse preso la licenza di pesca, lui in risposta s’era quasi domandato perché mai l’avesse sposata – era ovvio, palese, e lo era prima ancora di realizzare quel mondo fluisse nel biologo in maniera più intima rispetto agli altri: un’attività che richiedeva il contatto con il biotico e l'abiotico, sentire l’acqua tra le dita, incontrare animali interessanti, godersi la meravigliosa vegetazione, cos’altro si potrebbe mai desiderare nella vita? E poi poteva vantarsi di un’ottima compagnia, una piccola peste che lo assecondava ad ogni sua strampalata idea, ridendo e confortandolo al contempo per ogni pesce mancato, gioendo e saltando a quelli catturati – e poi rilasciati, perché “non bisogna disturbare l’ecosistema, pappa hauk, dobbiamo far tornare tutti a casa”, così come lei, finalmente, così come loro quando potevano rincorrersi tra le foglie e lasciarsi guidare solo dal vento. La madre non aveva mai capito veramente nessuno dei due, e nelle loro scampagnate era solita sedersi in disparte per evitare di sporcarsi, un paio di sorrisi inteneriti nascosti in un libro di legge o qualche altro argomento di scarsa rilevanza per chi, invece, pensava alla risalita dei salmoni lungo il fiume, ai massi sotto i quali si sarebbero potuti nascondere, all’arringa meticolosamente appesa all’amo onde assicurarsi non potesse sfuggire. “Ma è morta, mica può scappare!” lamentava divertito il piccolo capo biondo cercando di recuperare l’oggetto appuntito dalle mani dell’altro, però il più grande negava, allontanando un sorriso così come l’esca fingendo fosse di vitale importanza stringerla di più, tenerla un altro secondo in più sulle spine, inventando di sana pianta una lunga storia su come si stesse preparando a svolgere il proprio onorevole compito dopo anni di duro allenamento. “L'arringa ha imparato a fingere di essere morta?” chiedeva lei – in risposta, lui le mostrava per filo e per segno come si facesse e giù d’altre risate che, con lo scorrere inesorabile del tempo, avevano purtroppo stancato entrambi, forse una più del dovuto.

    Jonah era così contento di vederla sorridere, ridere, anche il solo apparire contenta di Anniken gli riempiva il cuore di sentimenti e colori che non avrebbe mai potuto veramente esprimere a parole – era come se avesse atteso la sua intera vita per essere padre e non se ne fosse mai accorto, come il vestito migliore che avesse mai indossato, l’unico per cui avrebbe mai accettato di pagare l’alto prezzo di gestire anche una donna difficile, soprattutto con terribile famiglia al seguito. S’era detto di non pensarvi, e non lo fece, si soffermò invece sullo squisito (per così dire) piatto caldo tra le sue mani, sul profumo disperso tra gli altri della natura e sulla calma finalmente calata fra le fronde all’arrivo della minestra, piccola foglia intenta a rimpinzarsi ancora ondeggiante quasi il corso del fiume e gli uccelli lì attorno suonassero la più dolce delle melodie; eppure, il suo cuore stanco inciampò nuovamente nella preoccupazione all’ennesima tosse della piccola, le occhiaie scure d’improvviso più evidenti quasi la realtà si fosse fatta prorompente, incapace di prolungare ulteriormente quel piccolo paradiso. «Kenna, tutto bene?» domandò di rito al concludersi dell’attacco, e seppur il cenno del capo fosse positivo, bastò a convincerlo del contrario: memore del cinguettio costante, trovava nefasta l’attuale espressione incerta della bambina, quasi riuscisse a leggere nelle mani tentennanti la consapevolezza d’un male indesiderato. Non gli avrebbe permesso di rovinar loro la giornata, quella maledetta malattia non avrebbe intaccato il loro spazio sicuro; «Che ne dici se ora pappa hauk e lille fugl si riposano un po’?» perciò propose al termine del pasto, riponendo solo quanto possibilmente pericoloso se lasciato all’esterno, preso da tutt’altro. «Ma lille fugl vuole continuare ad esplorare…» ribatté mogia lei, vincitrice del premio “miglior-broncio-conquista-tutti” al quale lui fu costretto a coprirsi lo sguardo, suscitando altre risatine; «Non potrei mai dire no alla più bella del reame» ammise con fare teatrale, per poi porgerle le mani, invitandola a raggiungerlo accanto al tronco, «però il povero papà ha ormai una certa età-». «Pappa haauuk!» si lamentò ancora lei, volendogli probabilmente ricordare che 30 non è poi chissà quale tragico traguardo, e questa volta furono le labbra del grande a sbocciare in un sorriso, tornando a sedersi sull’erba; avrebbe tanto voluto accontentarla, partire alla ricerca di tonni e rane e qualsiasi altra creatura avesse desiderato incontrare, ma gli sarebbe stato impossibile per ora. «Pappa hauk si è trasformato tanto» trovò la soluzione, così che l’azzurro sguardo, dolce solo per quello in cui si specchiava, potesse domandare e ricevere comprensione, anche se accompagnata da uno sbuffo, «e sai che ha bisogno di meditare prima di poterlo rifare. Dai, ci riposiamo un po’ entrambi e poi facciamo a gara a chi trova la rana più grande, che ne dici?» Era vero, in realtà, anche lui aveva bisogno di un meritato momento di meditazione: avendo trascorso diverse ore a far sbocciare ricordi di piume e squame nelle loro memorie, seppur l’allenamento stesse dando i suoi frutti in termini di resistenza, la strada da percorrere si prospettava ancora lunga. La risata facile nasceva anche da un principio di leggerezza del capo simile alla sensazione anticipante uno svenimento, erroneamente accantonato per porre tutte le proprie attenzioni nei riguardi d’una persona speciale; fortunatamente, proprio questa accolse la richiesta e, riluttante, prese posto al fianco del suo babbo, ultimo rimasuglio di guance gonfie scoppiate da fini dita desiderose a tutti i costi di strappar loro un ultimo sorriso prima di tornare al loro padrone, accompagnandone la chiusura.

    Vi fu un lungo sguardo, intenso ma silenzioso, ad accompagnare la rapida discesa di Jonah nella propria mente, un’attenzione a lui lontana – ma piacevole presenza – piena di curiosità nei confronti del volto rilassato, del petto lentamente alzato, delle mani abbandonate sulle gambe piegate; v’era tanta voglia di scoprire negli occhi di Anniken, ereditata dall’uomo stesso che le aveva insegnato ad osservare, a tracciare dettagli nel mondo circostante e farli propri, tenerli stretti nella memoria, intrecciarli ad altri e rivelare come le meraviglie del mondo fossero un puzzle dagli infiniti pezzi che lei aveva l’eternità per comporre. Riposarsi non era mai stata un’opzione: sì, era vero, lei stessa s’era accorta della facilità con cui anche le azioni più semplici le risultassero ormai complesse, come anche una risata le portasse via il fiato e la tosse rovinasse i sogni più belli, ormai non più così belli, tanto da costringerla a cercar rifugio sotto le coperte – profumate di terreno – nelle quali suo padre l’aveva più volte abbracciata nel corso degli anni. Sapeva di star cambiando, ma non voleva, e se la persona più importante per lei era testarda, come spesso diceva sua madre, allora lo era anche lei e si rifiutava d’accettare la sua scoperta del mondo fosse limitata da uno stupido batterio antipatico, l’avrebbe affrontato con le sue stesse mani se avesse potuto – però pappa hauk le aveva detto di comportarsi bene, e lei lo avrebbe fatto. Non voleva farlo preoccupare ulteriormente. D’altronde, leggeva tra le sue rughe d’espressione quella preoccupazione, la sapeva disegnare (nella propria mente, sul foglio i pastelli non collaboravano) quasi fosse la propria, ed un po’ lo era: per quanto sentisse il cuore colmarsi di gioia ad ogni momento trascorso con la propria famiglia, la scomparsa di sua madre le aveva lasciato un amaro nodo in gola, sembrava pesare il doppio ad ogni sorriso spento di suo padre, ad ogni lamentela di nonni e parenti vari, ad ogni pensiero rivolto ai suoi amici ora lontani. Quasi si assopì veramente, persa com’era nei propri pensieri (proprio come qualcuno a lei vicino), quando un movimento erratico attirò la sua attenzione, ravvivò la curiosità e, in men che non si dica, la riportò con i piedi sul cimitero di foglie, ultimo sguardo all’uomo al suo fianco prima di avventurarsi in direzione d’una quercia lì vicino, convincendosi alla fine non fosse poi così lontana da esser fuori portata dello sguardo d’un adulto; aveva più volte promesso di non vagare in assenza di supervisione, ma quello era indagare, giusto? Come man mano le scarpe impiastricciate di fango della giovane esploratrice s’apprestavano alla piccola figura arrancante, più essa si trascinava lungo il ruvido tronco, cercando di raggiungere una cavità nello stesso, forse un nascondiglio improvvisato da chissà quale predatore nei paraggi: uno scoiattolo si era, purtroppo, ferito ad una zampa e richiedeva supporto immediato, ma lei non aveva niente a disposizione per curarlo! Non era di certo un veterinario ed il grande falco non era lì per consigliarla, perciò, dopo un attento studio del caso durato una manciata di secondi, congegnò un semplice piano con quanto a sua disposizione; cresciuta coraggiosa dai propri genitori, s’affrettò ad afferrare quante più ghiande le sue mani potessero contenere per infilarle nelle tasche della salopette in jeans, dimenticandosi persino dei souvenir di roccia raccolti dal fiume, e prepararsi a quella che sarebbe stata una scalata vera e propria. Il nascondiglio, infatti, era purtroppo più in alto di quanto riuscisse a raggiungere alzando le braccia, quindi, petto gonfio e prima scarpa contro la corteccia, s’era convinta – con un incontenibile sorriso sul volto – a sfruttare i rami più bassi come appiglio per avvicinarsi il più possibile al proprio paziente, abbastanza da poterlo curare con la miglior medicina al mondo: il cibo. Arrampicatrice provetta da ben 2 anni, sapeva bene dove sistemarsi e quanta forza metterci, tant’è che, una volta raggiunto un punto stabile ed aver preso posto su un ramo più grande, si voltò anche a goder del panorama arduamente conquistato (a circa la sua altezza di un metro e qualcosa, una vera vittoria) con le gambe penzolanti nel vuoto da ciascun lato; scavò poi nei jeans decorati alla ricerca del dono prezioso e, constate le distanze, si sporse nel tentativo di raggiungere la propria meta. Fu un attimo: tradita dalle proprie capacità, falciate dalla stanchezza, non si rese conto d’essersi sbilanciata troppo in avanti ed il supporto venne a mancare sotto di sé; vuoto allo stomaco, accompagnato da un istintivo urletto, a malapena poté avvisarla in tempo prima della sua inesorabile rovina verso il terreno.

    Non è necessario, ma volevo dare i crediti a Quora e visitnorway.com per le informazioni sulla pesca dei salmoni, mi sono divertita tantissimo a cercarle <3
     
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