What was I made for?

Lev x Elizabeth / piscina / 9pm

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    Ogni bracciata era respiro in più, ossigeno in dei polmoni saturi che, pur svuotandosi, a lui sembrava continuassero a riempirsi d'aria. Era sempre stato questo per lui il nuoto più che una disciplina da coltivare per raggiungere chissà quali obbiettivi. Era respiro, lento e regolare, mancante fino al limite, fino alla prossima boccata. Nuotare era ordine, disciplina, portava la calma in una mente che invece non voleva mai starsene tranquilla, libera, senza ossessioni o pensieri estenuanti. Anche per questo portava avanti quello sport. Per mantenere le apparenze, certo, per omaggiare la vita del fratello, il vero campione, sicuramente, mentre in segreto cercava solo un po' di pace. Aveva sempre funzionato, quel trucco meschino, almeno fino a quella sera in cui neanche l'acqua riusciva a silenziare il mondo che, poteva percepirlo come una leggera vibrazione, a pochi centimetri dal pelo dell'acqua urlava a squarciagola. -Ti importava così poco che non ti è sembrato opportuno neppure dedicarmi un pensiero.- Attutita dall'acqua clorata, la voce ferita di Anna riusciva comunque a raggiungerlo e, ad ogni boccata, ad afferrarlo. -Invece erano tutte bugie. - Ingoiò aria, Lev, rituffando subito la testa giù, al riparo. Uno, due, tre, quattro. Contò i secondi che mancavano alla prossima accusa; quattro, sei, forse gli sarebbero riuscite otto bracciate senza respirare ma la risalita fu obbligatoria. Altrimenti sarebbe morto. Il freddo che gli frustava la faccia, le goccioline che dal suo braccio alzato scivolavano sulle labbra schiuse nell'ennesimo respiro, l'orecchio sinistro fuori dall'acqua che veniva preso d'assalto, un attacco lampo di pochi secondi in grado di farlo tremare. -Tu non mi hai mai amata, non è così? - Non era riuscito a rispondere. Anna lo guardava e lui non aveva detto niente. Sapeva che a quel punto neanche lei si aspettava davvero qualcosa, era abbastanza intelligente da capire che l'aveva attesa per un anno e non sarebbe arrivata gli ultimi due minuti della loro relazione. Lui, poi, ci aveva pensato a lungo. Non tanto se l'avesse mai amata, sapeva che probabilmente non era mai arrivato a quel punto e andava bene così, non tutti stavano insieme solo per amore. A tenerlo sveglio la notte era lo sguardo risoluto della sua ragazza, della sua ex che, come se avesse capito tutto di lui, gli dava del bugiardo in piena faccia. Era stato uno schiaffo brutale per lui, che credeva d'essere ormai talmente abituato a mentire da trasformarsi lui stesso nella più grande delle menzogne. Ma lei l'aveva scoperto. Solo in una minima parte e quella che interessava a lei, certo, ma aveva colto qualcosa e ora Lev si sentiva scoperto. -Sarebbe stato quasi meglio, sai? Sapere che eri con un’altra, sapere che avevi un motivo, uno qualunque, che ti tenesse la mente lontano da me- Non glie l'avrebbe mai detto, ma forse Anna non aveva tutti i torti, aveva effettivamente l'aveva passato con qualcun altro, quel lasso di tempo maledetto che aveva rovinato tutto tra loro. Non era stato come aveva alluso Ann, no, forse Lev aveva addirittura fatto qualcosa di molto peggiore. Gli era successo di sentirsi vulnerabile come quella sera, ne aveva odiato ogni minuto. Non gli era mai successo di sentirsi al sicuro, però, mentre un attacco di panico come quello lo scuoteva da capo a piedi e lui cercava invano di trattenerlo. Ovviamente non avrebbe voluto che accadesse ma ne era sicuro, se fosse stato qualcun altro non sarebbe mai riuscito ad aiutarlo. Una sconosciuta si era seduta davanti a lui, aveva scorto una parte reale che di solito nascondeva e l'aveva portato indietro, nell'ossigeno. Questo sì che avrebbe ferito Anna più di qualsiasi altra cosa. Faceva incazzare anche lui, in una certa misura. Che cosa gli prendeva? Questa volta riuscì a trattenere il fiato talmente a lungo da sentire i polmoni scoppiare. Due, quattro, sei, otto, dieci. Strizzò gli occhi per scacciarlo, ma l'autunno persisteva nel suo campo visivo, al sicuro fra la plastica degli occhialetti e le sue palpebre chiuse. Risalì in superficie solo quando l'acqua iniziò ad invadergli la bocca. Una volta all'aria aperta, Lev impiegò qualche secondo a percepire la presenza di Elizabeth nella piscina, individuandola poco dopo a qualche metro dal bordo, nella zona delle panchine. Si sfilò in fretta gli occhialini che gli lasciarono un ridicolo segno rosso intorno agli occhi. ≪Che ci fai qui?≫ Chiese senza fiato e la domanda echeggiò tra gli spalti vuoti, distorcendogli la voce in modo brutto. Neanche un ciao. Preso alla sprovvista, l'aveva scordato da qualche parte nel galateo che gli era stato insegnato. Nel vederla, il cuore gli era salito in gola al ricordo di come fosse stato lì lì per baciarla, e un secondo dopo sprofondò giù al ricordo di come le era dovuto sembrare, uno stupido, un pazzo; di come aveva perso il controllo e fosse a tanto così dallo scatenare le falene. Probabilmente aveva riso di quello strano incontro con le sue amiche e non la biasimava. Con poche bracciate raggiunse il bordo piscina, dove poggiò occhialetti e avambracci restando a guardare nella sua direzione, evitando a più riprese il contatto visivo diretto. Non credeva di averla mai vista nuotare, se ne sarebbe accorto sicuramente, e non sembrava in tenuta da piscina ma forse si sbagliava. Sicuramente non era mai venuta a quell'ora. Dopo le nove non c'era mai nessuno e Lev aveva tutto quel luogo enorme per sé. L'acqua si muoveva leggermente formando piccole onde che si scontravano contro la sua schiena, come a cullarlo mentre ritrovava un po' di fiato. ≪Nuoti?≫ Era una domanda stupida anche quella, stava cercando di collocare Elizabeth in un contento di cui non faceva parte e in cui invece sembrava voler imprimere i propri colori caldi. Anche nel mondo inverno di Lev non c'era posto per lei, oltre che nella piscina dell'università. Esserle abbastanza lontano da non vederne tutti i dettagli gli permetteva una tregua dal doverle sistemare numeri addosso, e fu grato di quello. ≪Ti lascio il posto, se vuoi.≫ L'ennesima stupidaggine, viste le altre tre corsie completamente libere. Si issò sul bordo facendo leva sulle braccia, e nel sedersi le diede le spalle chiudendo per un attimo gli occhi. Niente: proprio come sott'acqua, l'autunno era ancora dietro le palpebre e non accennava a dare spazio al solito inverno.
     
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    Sentirsi adulti a vent'anni è una cosa che poteva andare per tutti, per tutti gli adolescenti che almeno Elizabeth aveva sempre conosciuto, fino a quel momento della sua vita. A vent'anni ci si sapeva vedere e sentire onnipotenti, in grado di distruggere qualsiasi ostacolo, nessun limite imposto da chiunque altro che non fosse se stesso era accettabile. L'aveva visto succedere per tutte le sue sorelle, Jamie, Taylor, e poi Izzie, soprattutto, quando era diventata grande abbastanza per essere indipendente, dimenticando le brutture del suo passato da bambina, l'incidente che aveva cambiato tutto per i Vikander.
    Alla sua età Elizabeth non sentiva niente di tutto ciò, e fosse stato per lei, sarebbe rimasta bambina per sempre.
    Il messaggio di Izzie l'aveva trovata stesa sul proprio letto, indosso una tuta di cotone rosso che utilizzava solo quando era a casa, mentre ripassava i quesiti sulla pressione arteriosa e le riconducibilità delle malattie cardiovascolari dell'esame che avrebbe affrontato qualche mese a venire. Come succedeva talvolta, Izzie aveva scordato la borsa con i vestiti di ricambio dopo l'allenamento in palestra, perciò le chiedeva di passare da lei in suo aiuto, tanto che faceva spesso avanti e dietro dall'università.
    Si vestì velocemente, mentre guardava la propria scrivania e faceva di tutto per non pensare a niente. Il libro di Anatomia del secondo anno la guardava come se potesse avere una propria vita, occhi e bocca corrucciati nel tentativo di sbeffeggiarla, mentre cercava di prepararsi e di darsi tempo per comprendere cosa fare, o meglio, da dove ricominciare a studiare. Elizabeth aveva sempre avuto una pagella perfetta, non tanto perché fosse la ragazza a cui piacesse particolarmente studiare, neanche tanto si poteva dire fosse merito della propria intelligenza, no, era che nella sua famiglia tutto doveva essere perfetto, e quando le cose non lo erano venivano raddrizzate, semplicemente, in un modo o nell'altro. Ognuna delle ragazze Vikander aveva dovuto imparare a ballare a ritmo della musica imposta da Alfred e Sophia, niente poteva essere trascurato per loro quando al loro tempo loro erano riusciti ad ottenere tutto - voti perfetti prima, e carriera straordinaria dopo.
    In qualche modo erano andate tutte loro al passo necessario per rimanere in gioco, e il clima di competizione che si era creato in casa propria era riuscito a tenerle unite, una per tutte e tutte per una, invece che dividerle indissolubilmente. Pure la sensazione di smarrimento che provava Elizabeth in casa propria era trascurabile, in confronto all'amore che sentiva per le sue sorelle. Eppure certe volte odiava il fatto di essersi ridotta a pensare limitatamente a qualcosa che andasse bene perché dovesse incastrarcisi lei con prepotenza piuttosto che seguire mille altre direzioni possibili della propria esistenza. Forse la vita a Besaid non avrebbe potuto darle altro se non accontentarsi di un ruolo di spicco in quella piccola grande società, e limitata ad essa, perché era impossibile allontanarsi troppo per prendere direzioni non contemplate in essa.
    Indossato il jeans di un colore sorprendentemente blu e una t-shirt nera semplice portata infilata dentro la chiusura sui fianchi dei pantaloni, si mosse in direzione della camera di Izzie per cercare una giacca da indossare direttamente dal suo armadio. Senso per l'abbigliamento lei ce lo aveva poco, era la sorella a saper curare la sua immagine, non la piccola di casa, tuttavia per quel periodo sapeva di non avere giacche abbastanza buone da indossare con praticità, non trovandosi nel cuore dell'inverno norvegese con i maglioni e i cappotti che indossava più comodamente, sprofondandoci dentro.
    Trovò una giacca nera in pelle lunga fino alle ginocchia, che sembrava fatta per la sua stessa corporatura e non sembrava morirle addosso, e armeggiò sopra la toletta della sorella posta accanto al letto dalle coperte blu per cercare qualcosa per sistemare il suo viso, anche se sapeva anche poco o gradiva poco impiastricciarsi la faccia con il trucco. Si specchiò alla toletta per picchiettare un rossetto rosa sulle labbra, rendendosi conto che sembrasse strano su di lei nel momento in cui lo aveva già posato, e cercò un fazzoletto per pulirsi. Alla fine rinunciata l'impresa, si spostò nella propria camera e tirò fuori dal proprio cassetto del comodino l'unica cosa che potesse servirle, una crema uniformante del colorito che le coprì i rossori, e in parte anche le lentiggini, donandole un aspetto più ordinato. Non ebbe il coraggio di fare null'altro.
    Corse al piano inferiore gridando un semplice «CI VEDIAMO DOPO, ESCO» per accompagnare le sue azioni alle parole, ed avvisare Taylor che stesse uscendo, prese le sneakers dalla scarpiera infilandole sull'uscio per andare via come richiesto da Izzie, la propria borsa in cuoio al braccio e il borsone della sorella sulle spalle.
    Non ci mise che un quarto d'ora ad arrivare all'università, e qualche minuto per arrivare fino all'edificio della palestra. Lì entrò spingendo la grande porta con il maniglione antipanico e si ritrovò di fronte alla piscina, lungo le file di gradinate degli spalti, e in avanti tutt'attorno alla grande piscina le panchine adibite allo spazio per i coach o agli atleti in attesa tra un tuffo e l'altro.
    Avrebbe dovuto dirigersi direttamente agli spogliatoi, nel tentativo di cercare la sorella che si preparava e aspettava probabilmente di riscaldarsi prima di entrare nella grande vasca, ma fu impossibile per lei che la sua attenzione non venisse catturata dall'unica figura solitaria che faceva su e giù lungo la vasca una bracciata dopo l'altra, con la sinistra sensazione di conoscere il ragazzo che attraversava lo spazio nuotando.
    E difatti Elizabeth, che non aveva mai avuto che occhi per osservare in un mondo di spettatori superficiali, si accorse subito della presenza di Oberon, come l'aveva chiamato lei, il ragazzo dell'ascensore - ovvero il ragazzo conosciuto come Lev, e che si presentava come tale.
    Qualcosa mentre il ragazzo continuava a nuotare a testa bassa, le fece chiedere se non valesse la pena correre dritta verso gli spogliatoi, oppure andare in una direzione più lontana possibile, per la vergogna di incontrarlo in circostanze qualunque, dall'ultima conversazione avvenuta tra loro. E fu spinta da una ridicola sensazione di sfida che pensò, in effetti, che sarebbe stato perfettamente normale per lei essere lì, tra gli spalti, una studentessa qualunque, che aveva tutto il diritto di avventurarsi in quel luogo senza doversi sentire una perfetta ridicola idiota per il modo in cui alla fine, era lui ad averla trattata, e non il contrario.
    La serata della festa era stata un disastro, e Lilibet era perfettamente conscia di aver fatto la figura della sciocca, ma tutto quello che era successo era successo tra loro e basta, e nessuno aveva assistito alla sua umiliazione.
    Si sedette, con quel monito a far da capolino nella mente, si accomodò sulla panchina vicino al bordo vasca, e quando infine si accorse anche Lev della sua presenza lì, alzò lo sguardo e la testa, emerse dall'acqua con gli occhialini poggiati sugli occhi, e vide attraverso le lenti il suo sguardo di fuoco. Li tolse, prima di parlarle, e alla sua domanda corse la risposta di Lilibet, immediata e velocissima.
    «Beh, la frequento anche io questa università, no?» Disse, con il moto di stizza che le era venuto così spontaneamente su alla propria voce, e poi se ne pentì subito. Si schiarì la voce, incrociò le braccia e accavallò le gambe nell'accomodarsi meglio, spostò lo sguardo da Lev mentre sistemava il borsone accanto a sé sul posto della seduta. Tornò a guardarlo solo quando le pose la successiva domanda, rendendosi conto che avrebbe trovato comunque anche lei modo di rispondergli ancora, prima ancora che le chiedesse altro, tanto si era sentita sciocca ad avergli risposto frettolosamente, e in maniera brusca. Ritrovò fiato e compostezza per rispondergli con un tono di voce gentile, nettamente diverso da quello che aveva usato prima. «No, in realtà no. So nuotare ovviamente, ma non competo.» Disse, abbozzando uno sguardo meno perplesso mentre incontrava il suo. Sia mai che pensasse che non sapesse neanche nuotare. Era una supposizione lecita, qualcosa che chiunque avrebbe potuto pensare a quell'affermazione? Non lo sapeva dire con certezza. In ogni caso, dette lui una spiegazione migliore, dandogli incoscientemente un piccolo pezzo di sé a disposizione. «È mia sorella nel team, Isobel, Isobel Vikander.» Izzie, disse, mentalmente, pensando che tutti la conoscessero per tale, però non volle dirlo ad alta voce, timorosa di correggersi ancora. Non era ovviamente in dubbio che la conoscesse anche lui, visto che era la stella di punta del team donne. «Ha scordato la borsa dei vestiti di ricambio, e allora sono venuta a portargliela io.» Continuò, stavolta un tono divertito si affacciò al suo, sovrapponendo lo sguardo di Lev mentre pensava alla sbadataggine di Izzie, e al suo modo di fare così eccentrico e imperfetto, che pure non scalfiva la sua immagine meravigliosa di perfezione agli occhi degli altri. La fece sorridere, poi, l'ultima frase rivolta a lei, come se quel ti lascio il posto fosse stato detto per cortesia, in un contesto che era innaturalmente sbagliato, eppure la aiutò a pensare che forse anche lui si sentiva in imbarazzo per la scenata dell'ultimo incontro. Un piccolo passetto in avanti per mostrarsi cortese, volle interpretarlo così, e forse neanche così fuori contesto. Dovevano essere entrambi in difficoltà a rievocare un incontro così strano. «No, ma chissà, per quando entra lei in vasca magari ti toccherà farle posto, tende a prendersi tutti gli spazi che vuole.» E rise, screditando la sorella con fare bonario e un guizzo degli occhi amorevole che sembrava proprio voler comunicare facilmente quanto ci tenesse a lei. La sua roccia, il suo pilastro, la sorella che più amava e che più odiava, in qualche modo.
    Aveva sciolto le braccia e le aveva posate sulla panchina. Respirò un lungo respiro prima di buttarsi e fare una conversazione, guardando la sua schiena mentre si sollevava dall'acqua e si posava sul bordo vasca, di spalle a lei, non aveva più modo di guardare i suoi occhi e il segno dell'elastico degli occhialini che aveva impresso sulle tempie. «Tu.. competi da tanto?» Un modo come un altro di fare conversazione, dato che sapeva chiaramente che era nel team universitario e nuotava assiduamente, ma poi, non poteva neanche dire lei con esattezza, nonostante sapesse la sua popolarità, da quanto nuotasse.
     
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