A sister is both your mirror and your opposite

Elise x Mathilde

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    ..un luogo al di là del tempo e dello spazio..

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    Tuo padre è vivo ed è in città.
    Quelle parole le martellavano nella testa da giorni, come gocce di pioggia incessante che piano piano avevano iniziato a scavare una buca dove un tempo c'erano state soltanto certezze. Karen le aveva sempre detto che suo padre era morto, in carcere o chissà dove e che era stata solo una fortuna per lei non conoscere quel farabutto. Da bambina ci aveva sofferto, le sarebbe piaciuto essere portata via da suo padre, lontana dagli uomini che sua madre aveva scelto, uno dopo l’altro, per sostituirlo. Poi, lentamente, quel pensiero si era fatto da parte. Aveva accettato che quell’uomo non esistesse più, che non avrebbe mai fatto parte della sua vita e aveva riempito il suo spazio con altre persone. Perché quindi decidere ora di rivelarle la verità? Di confidarle che suo padre era vivo e che era sempre stato a Besaid, a pochi passi da lei? Il pensiero della vita che avrebbe potuto avere se soltanto lui avesse provato a cercarla, almeno una volta, si era fatto strada con forza dentro di lei. Aveva riportato alla mente ricordi dolorosi, le cose che aveva dovuto subire in tutti quegli anni, le cose che aveva accettato, convinta che non potesse esistere niente di diverso nel suo mondo. E invece, ecco spuntare una nuova finestra all’interno di quella casa sgangherata, una finestra che portava verso un lato della vita di sua madre che non aveva mai conosciuto. Aveva amato Farid, glielo aveva letto sul volto, nonostante l’espressione arrabbiata. Forse era stato tutto quell’amore a farla allontanare dal mondo, delusa dal fatto che lui non avesse scelto lei, che avesse preferito restare con sua moglie e con la sua famiglia. Aveva soffiato via quell’ultima verità prima di chiudere gli occhi per qualche momento, stremata dalla malattia contro cui stava cercando di combattere, invano. Karen si faceva ogni giorno più piccole e pallida, non era che l’ombra della donna affascinante che era stata un tempo. Aveva sputato quel nome con veleno, rivelandole che, oltre alla famiglia che si era lasciata alle spalle, quelle sorelle e fratelli che non le aveva mai presentato, c’era anche quel padre, ancora più distante e inavvicinabile. Forse messa davanti all’idea della sua morte, ormai sempre più vicina, aveva avuto paura di sapere sua figlia da sola, come sola era sempre stata lei.
    Era rimasta a fissare sua madre addormentata per chissà quanto tempo. Il primo istinto era stato quello di prendere il telefono, fuggire via e chiamare Eyr e Eld, costringerli a raggiungerla a casa sua per chiedere loro consiglio. Eyr sicuramente le avrebbe consigliato di mandare tutto al diavolo, di soffocare Karen con un cuscino e fingere di non aver sentito niente. Eld sarebbe stato più politico, ma probabilmente anche lui alla fine avrebbe optato per il lasciare chiusa quella parte della sua vita e non aprire una porta che chissà dove l’avrebbe condotta. Aveva stretto il telefono tra le mani con forza, fino a che le nocche non erano diventate bianche, poi lo aveva scaraventato sul fondo della sua borsetta. Era da qualche mese che non li sentiva. Né l’uno, né l’altro. Eyr l’aveva piantata in asso al lago, rifiutandosi di condividere qualche piccolo pezzetto in più della sua vita con lei e Eld, dopo l’evento al Perception, si era fatto più distante. Avevano colto entrambi l’occhiata di fuoco con cui il biondo li aveva guardati e all’amico sembrava aver fatto molto più male che a lei. Come se il pensiero che Eyr potesse odiarlo perché trascorreva del tempo con lei senza di lui potesse essere insopportabile. Si era quindi tenuta distante, chiudendosi dentro un mondo che si faceva ogni giorno sempre più stretto. Iniziava a comprendere la solitudine di sua madre e a vedere un destino molto simile farsi largo lungo la sua strada. Forse per quello, quando si era alzata dalla piccola sedia che stava vicino al letto d’ospedale, si era diretta dritta verso casa con il pensiero di raccogliere qualcosa di utile da mostrare all’unica persona che ancora si ergeva alta e impeccabile su di lei, come una fonte di ispirazione. Aveva cercato tra le cose di Karen, nella casetta diroccatain cui ancora viveva e, nascosta sotto il materasso, aveva trovato una foto stropicciata di una lei molto più giovane con accanto un uomo sorridere. Una data e due nomi dietro a darle la certezza che si trattasse proprio della persona che stava cercando.
    Si era diretta quindi alla ricerca di Anastasija e l’aveva pregata di aiutarla con quel nuovo problema. Se in un qualunque altro momento avrebbe fatto a pezzi il nome di Farid e tutto quello che rappresentava, in quel preciso periodo della sua esistenza voleva invece cercare un nuovo appiglio per andare avanti, qualcosa che facesse scattare una nuova molla. Che fosse gioia o rabbia non le importava, voleva solo che il fuoco riprendesse ad ardere, come aveva sempre fatto. Era stato complicato trovare qualche informazione, ma dopo aver trovato la giusta leva aveva scoperto non soltanto il suo indirizzo, ma anche il fatto che avesse degli altri figli. Scoprire che esistevano delle altre persone in giro per la città che potevano assomigliarle, almeno un po’, l’aveva prima spaventata e poi irritata. Com’era possibile che non se ne fosse mai accorta? Che non li avesse mai incontrati? Aveva osservato la foto di Mathilde Jordahl-Moses, se la era rigirata tra le mani per ore, alla ricerca di una somiglianza che non aveva trovato. E così, alla fine, aveva deciso che sarebbe andata a controllare con i suoi occhi, che avrebbe indagato di persona. Il Luna Park, un luogo che aveva frequentato così tante volte, si mostrava ora come l’elemento di svolta. Avrebbe cercato il suo carretto e, guardandola negli occhi, era sicura che avrebbe capito se lei sapeva oppure no della sua esistenza e tanto sarebbe bastato a darle almeno una delle risposte che cercava.
    Con un paio di jeans strappati, una maglietta rosa e un corto giacchino in pelle, si era diretta a piedi fino al Luna Park. I capelli di nuovo rossi, a esprimere il tumulto di emozioni sempre più accese che le animavano la testa. Aveva camminato per quasi un’ora fumando una dietro l’altra almeno metà delle sigarette del pacchetto che aveva appena comprato. Era nervosa, quell’incontro inaspettato la agitava. Conosceva il suo volto grazie alle fotografie, ma non aveva idea di cosa aspettarsi da lei. Aveva sentito dire che era una medium, una fattucchiera che leggeva i tarocchi. Se i suoi contatti con gli spiriti fossero stati veri sarebbe stata in grado di contattare scheletri nel suo armadio che non avrebbe mai e poi mai voluto incontrare di nuovo, faccia a faccia. Il solo pensiero di sentire di nuovo la voce di Harald le faceva venire da vomitare, ma non credeva che fosse la verità. Erano tutte stronzate, per quanto la riguardava, ma era curiosa al pensiero di vederla all’opera, di capire se, nonostante tutti quegli anni trascorsi lontane, ci fosse un barlume di lei dentro la sua sorellastra. Buttando fuori l’ultima boccata di fumo aveva spento la sigaretta a pochi metri dalla grossa carrozza dalle pareti rosse, sorvegliata da due brutti ceffi che le si pararono davanti non appena mostrò l’intenzione di avvicinarsi. -Riceviamo solo per appuntamento. - mormorò uno dei due, incrociando le braccia davanti al petto, ergendosi alto sopra di lei. Lei sorrise appena, non sarebbe certo bastato così poco a farla desistere. -Sono molto preoccupata. Ho urgente bisogno di parlare con lei. Mi hanno detto che è molto brava. - mormorò, indossando la maschera e i grossi occhioni che metteva in scena nel suo lavoro. Il ruolo della giovane indifesa e spaventata le era sempre venuto molto bene. -Pagherò il doppio se serve, anzi, il triplo. - aggiunse, e per suonare più convincente, tirò fuori dalla borsa un pacchetto con diverse banconote, mostrandole ai due ragazzi. Quello parve convincerli, perché uno di loro annuì in direzione dell’altro, per poi entrare nella carrozza a chiedere conferma al boss.
    Impiegò pochi istanti a convincerla, poi uscì di nuovo, lasciandosi la porta della carrozza aperta alle spalle. -Ora puoi entrare. Lei annuì appena, con un leggero sorriso. Prese un profondo respiro prima di percorrere i pochi scalini che la separavano dall’ambiente interno, agghindato con tendine e tappeti e svariati vasi di fiori dai toni scuri. C’era un odore strano, come di incenso o qualche altra erba. O forse era solo la sua suggestione a sentirlo, unita al cuore che le batteva all’impazzata nel petto. Ancora pochi passi e poi la vide, seduta a un tavolo con indosso un lungo vestito scuro, sui toni del verde, con uno stretto corpetto aderente. La fissò per un momento, aspettando che sollevasse lo sguardo su di lei, così da poter incontrare i suoi occhi scuri che, ora lo vedeva, erano lo specchio esatto dei suoi. Lo sguardo che anche l’altra le rivolse le diede un brivido lungo la schiena. Abbozzò un leggero sorriso, arcuando appena le labbra laccate di rosso. -E così siete voi? - mormorò, aspettando che l’altra con un cenno le facesse cenno di sedersi accanto a lei. -Mi hanno detto che siete molto brava. - continuò, senza in realtà sapere bene dove andare a parare. Non aveva mai creduto a quelle cose, quindi non sapeva proprio da dove si cominciasse. -E’ un periodo un po’ strano della mia vita, forse tu puoi indicarmi la strada giusta. - terminò, sollevando appena le spalle con un evidente disagio. Neanche si accorse di essere passata da un tono formale a uno un po’ più informale, tanta era la suggestione che quel luogo che le dava. Quello spazio angusto non le piaceva per niente, non vedeva l’ora di uscire.
     
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