Valley of the shadows

Fae&Nikolaj | Bolgen | 2 am

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    L'oscurità che regnava all'interno del Bolgen era interrotta da riflessi fluorescenti, fasce di luce che si estendevano sulle pareti e in alcune parti della discoteca. Un'atmosfera diversa regnava all'interno del locale quella sera, all'interno del quale musica drum and bass accompagnava i passi di danza che si scatenavano fra quelle pareti a specchio o ricoperte di vernice nera, mentre calde tonalità di rosso animavano la pista e alcune delle foto appese qua e la in giro per il locale. Erano forse le più intime che avesse mai scattato e che raramente aveva avuto il coraggio di mostrare a qualcuno: rappresentavano la vita che i suoi occhi vedevano laddove per gli altri non vi era altro che un paesaggio, uno sguardo sconosciuto, un'onda scura che si scontrava contro la scogliera. Delle tende di un soffice e trasparente tessuto rosso scendevano in alcuni punti dal soffitto, rendendo la sala quasi intima, permettendo ad ogni presente di sentirsi parte importante in quel piccolo ritaglio di spazio nel quale liberava la propria voglia di libertà ballando al ritmo di una musica che in serate come quelle molti sembravano amare. Sugli specchi che costellavano le colonne e alcune parti delle mura interne, c'erano le solite scritte apportate con pennarelli fluo, messi a disposizione di chi vi entrava per far serata, di modo tale che chiunque avrebbe potuto avere libero accesso alla propria creatività, dandone sfogo sotto palese effetto d'alcool: era da quel tipo di liberazione che venivano fuori i più complessi capolavori; peni, corpi di donne senza alcun velo, parolacce scribacchiate con affetto, frasi che non avrebbe neanche mai compreso: vi si poteva trovare la vera vita su quelle pareti lucide. Era stato il suo ritorno in pista, il suo dare vita a qualcosa di nuovo dopo il periodo che l'aveva riportata con il viso al pavimento, incapace di guardare altrove e avanti. Aveva sentito il bisogno di creare qualcosa di intimo per se stessa e lasciare che venisse goduto anche da altri: era il Bolgen, la sua casa, sebbene per diverso tempo avesse sentito una certa distanza a separarla da essa. E infine era tornata, mettendo le proprie idee nero su bianco e tirando su una serata con i controcoglioni di cui si era sentita fiera ancor prima aver udito le prime note venire fuori dalle casse.
    La musica continuava a risuonare in quell'edificio poco distante dalla periferia, mentre al suo interno si scatenava la parte peggiore di Besaid e al contempo anche la più grintosa: erano quasi le due di notte all'incirca, il clou della serata aveva preso la sua miglior piega e per Fae non c'era altro da fare che sguazzare a destra e sinistra, un po' per aiutare al bancone e un po' per godersi un chiasso che da tempo aveva messo da parte. «Fae? Ho qualcosa per te.» disse una voce, avvicinandosi di fretta alle sue spalle e sussurrandole all'orecchio. Si voltò ritrovando gli occhi di Basti a due centimetri dai suoi, mentre le mani di lui andavano ad afferrare solidamente quelle di Fae, schiudendole appena e lasciando che sul palmo della ragazza scivolasse una piccola pillolina bianca. Per un momento, sotto le luci fluorescenti della discoteca, quella piccola pasticca sembrò vivere e illuminare la mano della ragazza, accendendosi di rosa chiaro, tanto da sembrare quasi un minuscolo confetto di zucchero. «Cosa è?» domandò all'amico, poi chiuse le dita, stringendole appena contro il palmo e lasciando che le unghie premessero contro la carne. «Tu prendila e basta. È ottima!» urlò lui di risposta, ormai su di giri, per poi sollevare le braccia oltre la propria testa e muoversi a ritmo di musica, senza distogliere lo sguardo da lei ma allontanandosi nuovamente verso la pista. Fae tenne stretta quella pasticca, indecisa sul da farsi, per poi lasciarla scivolare lentamente nella tasca dei pantaloncini a vita alta che indossava. Afferrò i lembi della t-shirt bianca su cui aveva disegnato con i pennarelli fluo la caricatura del proprio seno, appena accennato, e ne fece un nodo per tenerla ferma all'altezza dello stomaco. I capelli sciolti e spettinati le ricadevano sulle spalle, animandosi sotto il gioco di luci che si diramava all'interno del locale e che sembrava andare perfettamente d'accordo con l'arcobaleno che da sempre aveva in testa. Si fece largo nella calca, sgomitando per passare e giungendo dinanzi alla fila di foto appese ad una catenina di luci rossastre, della stessa grandezza di una coccinella. Le osservò appena, ricordando di ogni istante, di ogni scatto, come se lo dovesse viverlo in quello stesso momento, parallelamente a ciò che i suoi occhi stavano vedendo. In una vi era fotografato lo spiazzo nel mezzo del nulla al centro del quale qualcuno aveva scaricato vecchi mobili: un divano vuoto e consumato si ergeva stanco in quella foto, ed accanto ad esso un piccolo gatto guardava in direzione della fotocamera. Era il posto in cui si andava a nascondere insieme ai suoi vecchi amici -alcuni ormai andati chissà dove, finiti chissà con chi- per dare sfogo a quel sentimento di ribellione che ognuno di loro aveva covato per pura passione durante l'adolescenza, per affrontare quel brivido e poter affermare di aver infranto le regole, fumando canne e bevendo alcolici lontano dagli occhi insistenti o inesistenti dei genitori; la seconda foto ritraeva, invece, il polso e il palmo di una mano dalla pelle chiarissima, la sua, al centro della quale vi era una piccola macchia di sangue; la terza, appena prima del corridoio stretto e scuro che portava all'uscita secondaria del locale, ritraeva delle labbra: carnose e rosee, contornate da un lievissimo strato di barba; l'osso della mandibola ben delineato sotto lo strato di pelle marmorea si curvava poi in direzione di un collo magro e scoperto. Una foto che Fae aveva scattato all'insaputa del suo soggetto e che mai aveva riferito di aver conservato. Ricordava Nikolaj come una delle parti più oscure -e allo stesso tempo lucenti- di quel passato che neanche sapeva come aveva fatto a lasciarsi alle spalle. D'un tratto, il peso di quella pasticca nella tasca degli shorts iniziò a farsi sentire, quasi vibrando e ricordandole di ciò che avrebbe potuto perdere ancora, se solo avesse ceduto a quel desiderio. Nikolaj era stato, per Fae, una sorta di punto fermo nella marea danzante di quella tempesta che, impetuosa, aveva deciso di farla sua. Ricordava la spavalderia che aveva mostrato a quello che un tempo era stato un ragazzino, lo sguardo di sfida che aveva voluto compensare la perdita di una bussola: nessuno di loro avrebbe mai immaginato, tempo addietro, che qualcosa al mondo potesse finire per legarli, e invece era accaduto. Una vorace si era aperta fra i due, risucchiando entrambi in una caduta senza fine, senza paracadute, verso un luogo sconosciuto.
    Guardò la foto per qualche secondo ancora, soffermandosi dinanzi ad essa più a lungo di quanto forse avrebbe dovuto: le luci rosse danzavano sulla superficie cartacea appesa a quella cordicella, animandone l'impronta grafica e regalando una sorta di vitalità all'immagine. Vide quelle labbra smuoversi, schiudersi in un ghigno che mai aveva dimenticato, ricercando nei cassetti della memoria gli avvenimenti che si erano susseguiti prima che tutto finisse in mille pezzi. Una notte troppo intensa, più delle altre, talmente vivida da svegliarla e riportarla alla realtà, mettendole sotto il naso tutto ciò che stava lasciando accadere nella propria vita. Eppure, in un certo senso, lui l'aveva salvata: l'aveva tirata nel fondo del baratro dove aveva creduto di lacerarsi l'anima, per poi rendersi conto di quanto stesse facendo del male a se stessa, ed era fuggita, lasciando al ricordo di lui la parte più profonda di sé. Aveva scavato dentro il suo petto, Nikolaj, disegnando nei polmoni di Fae la forma di quel sorriso sicuro che lui le rivolgeva quando, con una mano aperta nella sua direzione, le offriva una via d'uscita.
    Distolse lo sguardo per incamminarsi oltre quelle foto e raggiungere il corridoio che portava al retro del Bolgen e ai bagni, notando amaramente il treno di ragazze in fila per il bagno delle donne. Si voltò in fretta, nel buio, per accertarsi che dinanzi a quello degli uomini non ci fosse lo stesso caos, per questo si diresse direttamente contro la porta, aprendola con l'ausilio di una lieve spallata, attenta a non posare la mano in luoghi poco raccomandabili come le maniglie. Al suo interno, un ragazzo se ne stava in piedi con la testa posata alla parete e gli occhi serrati, mentre con la mano destra si manteneva ciò che avrebbe dovuto starsene tranquillo nei pantaloni. Rise, Fae, come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Amico, ti serve un aiutino?» domandò, restando ferma per un attimo alle spalle del ragazzo, il quale di risposta emise un semplice gorgoglio con la bocca. Scosse il capo, la ragazza dai capelli arcobaleno, prima di avviarsi verso uno dei due unici bagni dotati di una porta e chiudendocisi dentro giusto il tempo di un bisogno primario come il fare la pipì. Terminato, fece nuovamente attenzione nell'aprire la porta, tirandola verso di se con l'ausilio del piede posto sull'estremità sottostante. Si avvicinò al lavandino, l'unico luogo forse ancora pulito, all'interno del quale fece scorrere dell'acqua per lavarsi le mani. Il tipo se ne stava nel frattempo ancora in piedi, di fronte all'orinatoio prescelto. Lo guardò ancora una volta, constatando lo stato in cui sembrava sguazzasse. Aveva sicuramente tirato su qualcosa, tanto da aver avuto la botta finale e non esser neanche riuscito a far retro front per tornare in sala. «Sei ancora dei nostri?» chiese Fae, trattenendo una risata divertita. Ma quello rispose ancora emettendo un nuovo gorgoglio, così decise semplicemente di lasciarlo affondare nei propri trip mentali. Afferrò una delle sigarette che conservava negli shorts, estraendo quindi anche l'accendino verde e andando ad infiammare l'estremità di quella stecchetta di tabacco, lasciando che bruciasse e concedendosi due tiri frettolosi, uno dopo l'altro. Si sollevò appena per salire sul piccolo mobiletto grigio posato contro il muro di mattonelle bianche, all'interno del quale avrebbero dovuto esserci rotoli di carta e scorte di sapone, mantenendo quindi la sigaretta stretta fra le labbra ed allungando le mani in direzione della maniglia di quell'unica finestra posta nella parte superiore della parete. L'aprì, lasciando che vi scorresse un poco d'aria fresca e pulita all'interno delle toilette, per poi riaccovacciarsi sullo stesso mobile, sedendosi a gambe incrociate e riprendendo la sigaretta fra dito indice e medio, per mantenerla. Lo sguardo fisso sul corpo del ragazzo, il quale lentamente stava perdendo le forze, poggiandosi piano piano con il resto del corpo al muro e scivolando lentamente verso il pavimento, la mano destra ancora ferma all'altezza dell'arnese. Quanto spesso le era accaduto di ritrovarsi in quello stato? Neanche se lo ricordava più, ormai. Sapeva solamente che, malgrado fosse qualcosa di decisamente sbagliato, alcune volte sentiva davvero il bisogno di lasciarsi andare, di liberarsi da qualsiasi tipo di catene che la vita le imponeva di indossare, per dimenticare, non pensare, non ragionare, non sentire più nulla. Un po', forse, lo invidiava.
     
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    Il mondo gli girava intorno in un turbinio di luci colorate. Erano troppe per seguirle, ognuna intenta a sfrecciare nel suo folle percorso. E Nikolaj allora lasciò perdere. In fondo era un maestro nel voltare la testa a tutto ciò che richiedeva uno impegno troppo grande da parte sua. I piedi fasciati in costose scarpe nere battevano il suolo con capriccio militare, si sarebbero detti sicuri della direzione da prendere. Senza dubbio sapevano esattamente dove non volevano tornare. Indietro, davanti la porta di quella casa che aveva fissato per quasi un'ora senza fare alcunché. Una parte di lui voleva essere certo della voce che era giunta alle sue orecchie, nonostante non avesse mai perso tempo a dubitare della veridicità delle informazioni che riceveva. Perché iniziare a farlo ora, era un mistero persino per lui. Suddette informazioni di rado si rivelavano false o erronee, ma per una volta desiderava essersi sbagliato. Ecco perché si era ritrovato di fronte alla casa in cui, stando ai fascicoli che aveva sparsi sulla scrivania, risiedeva Lucille Johansen. Nascosto dalla notte e dalle fronde di un boschetto, come il più poetico degli innamorati o il più patetico dei maniaci, aveva atteso che accadesse qualcosa che gli fornisse la risposta alla domanda che lo tormentava da otto giorni.
    Era esattamente dal loro ultimo incontro inaspettato tanto quanto piacevole che l'uomo aveva l'irritante sensazione che la donna lo stesse evitando. Pur supponendo che le cose stessero così, non avrebbe dovuto sentirsi turbato. Di certo non così tanto da appostarsi sotto casa della donna. Nei rari momenti di lucidità, Nikolaj ci aveva riso sopra scuotendo la testa come si fa quando si pensa ad una sciocchezza del passato. Ma il pensiero non lo lasciava libero più di qualche ora che subito tornava ad assillare le sue giornate. Non si era mai ritrovato in una situazione in cui era lui l'oggetto evitato, la notte che non era mai accaduta. Era lui quello che solitamente ricopriva quel ruolo e ne rivangava il diritto, come un re spodestato dal trono su cui le sue chiappe avevano riposato per decadi.
    Era forse un illusione,o sembrava essere lui a rincorrerla? La sola idea che Lucille potesse non aver gradito la loro scappatella era semplicemente troppo assurda per essere presa anche solo in considerazione. Dubbi. Insicurezze. Non gli appartenevano.
    Era durato poco, lo sapeva. Non era neanche la prima volta che accadeva. Quando beveva troppo - a tal punto da non riuscire a tenersi in piedi- le prestazioni sessuali ne risentivano. La cocaina era tutta un'altra storia: nemmeno trenta pasticche di Viagra avrebbero avuto lo stesso effetto alzabandiera, anche per questo non poteva farne a meno.
    In ogni caso, quella domenica mattina non aveva usufruito di droghe, troppo presto persino per lui, e non aveva fatto in tempo a bere due bicchieri di champagne appena che lo tsunami Lucille lo aveva investito insieme alla sua scorta di bollicine.
    Nonostante la sobrietà, era venuto come uno scolaretto alla prima cotta adolescenziale e al pensiero sentì le orecchie avvampare. Accelerò automaticamente il passo, infuriato. E ora gli venivano anche a riferire che Lucy era stata vista invitare a casa un certo Jorgen qualsiasi - Niko aveva svolto i compiti a casa, ovviamente - e il suddetto non aveva lasciato l'abitazione se non alle prime luci dell'alba. E quando il pensiero che una donna che era stata con lui poi si divertiva con un'altro non l'aveva mai infastidito, nel caso di Lucy lo mandava in bestia.
    Cinquantaquattro erano stati i minuti che aveva passato lì prima di salire sulla Porsche che lo avrebbe portato lontano da quell'assurdità. L'aveva parcheggiata a qualche isolato di distanza. Non voleva essere riconosciuto. Quella notte voleva provare sulla sua pelle come ci si sentiva ad essere del tutto anonimi. Si era cambiato, nonostante non aveva idea di cosa si indossasse in quel posto ai giorni d'oggi. D'altronde erano passati almeno nove anni dall'ultima volta che ci aveva messo piede. Si era cambiato. Maglietta e jeans neri erano la cosa più semplice che avesse nell'armadio, nonostante la cifra a doppio zero che aveva speso per acquistarli.
    Non sapeva perché avesse scelto proprio il Bolgen, tra i tanti locali in cui sarebbe potuto andare. Forse perché lì ci si capitava per acquistare roba facilmente e per non pensare a niente. Azzittire i pensieri, di questo credeva di aver bisogno.
    Attraversò la strada, l'aria arrogante e tormentata di chi ha sempre certi demoni al seguito, sentinelle d'oscurità tra le luci abbaglianti della città. Sostò fermo sulla soglia del locale, qualcosa nell'insegna al neon aveva attratto la sua attenzione. Colori. Nonostante gli anni passati, non era poi cambiato molto dall'ultima volta che aveva messo piede in quel posto. A parte un paio di zeri in più sul prezzo di ogni cosa posseduta, Nikolaj era sempre lo stesso. Non cercava mai di migliorarsi o di imparare qualcosa, rimaneva esattamente come era. Non era uno che impara, era uno che evita. Si riscosse ed entrò senza più voltarsi indietro. Rimase sull'asfalto, quel che restava di quell'esitazione durata non di più di una manciata di secondi. Era rimasta lì, proprio dove i piedi di Niko avevano sostato. Pareva ancora di scorgervi il pallore della loro ombra impressa nel cemento come a voler dire "per ciò che sarebbe potuto essere se solo non fossi entrato."
    Dentro era l'inferno. O il paradiso, dipende dai punti d vista. Per l'uomo, entrambi. La musica l'aveva avvolto subito come un guanto di lattice, una robaccia tutta bassi e frequenze ripetute che di norma avrebbe disprezzato ma non quella sera. Quella notte quel fracasso avrebbe dirottato ciò che lo turbava e nascosto con il suo volume il Nikolaj amante della musica classica e a capo di un impero finanziario. Per quella sera era uno qualunque di quei ragazzi che bevevano e ballano fino all'alba senza preoccuparsi dell'opinione pubblica o dei tabloid (lui non l'aveva mai fatto, il suo braccio destro però sì). «Doppio rum, liscio. Due cubetti di ghiaccio.» Si era fatto strada tra i corpi sudati e in movimento troppo inebriati per prestare attenzione all'uomo che pur si distingueva per la peculiare altezza che lo contraddistingueva, fino a giungere al bancone guadagnandone presto la prima fila. La ragazza rise, o almeno così gli sembrò a giudicare dall'eco lontano che giunse alle sue orecchie prima di venire anch'esso portato via dal rumore che sembrava far vibrare persino le sue interiora. «Quanti anni hai, ottanta?! Perché non prendi un cocktail, tipo il Sex on the beach.» La voce si fece più civettuola pronunciando l'ambiguo nome del cocktail, come a voler mal celare il vero senso della frase. Suonava più o meno così: tu.io.sesso.ora. La spiaggia era un dettaglio trascurabile.
    In un'altra occasione e con un'altro umore, Nikolaj non avrebbe esitato a stare al gioco di quella ragazza che poteva avere si e no vent'anni. Non era una di quelle bellezze sconvolgenti, ma sarebbe bastata allo scopo. Tuttavia era alla ricerca, di cosa non lo sapeva con precisione. Di certo non della barista. «La spiaggia è lontana e onestamente...» uno sguardo da capo a piedi. Fece persino finta di doversi puntellare sui gomiti per sbirciarle la parte inferiore del corpo oltre il bancone. «Non ne vale la pena. Doppio rum, liscio, due cubetti di ghiaccio.» La ragazza avvampò prima di voltargli le spalle, offesa. Quando tornò con il bicchiere prese i soldi senza guardarlo in faccia e senza chiedere se voleva il resto.
    Al terzo bicchiere si fece impellente l'urgenza di dover liberare la vescica da tutto quell'alcool. Si alzò con il bicchiere ancora stretto in mano e urtò un paio di persone mentre si lasciava guidare dai ricordi che aveva di quel posto, confidando in loro per raggiungere il bagno. Non guardava nessuno in particolare. Nessuno di quei volti suscitava un interesse particolare in lui. Qualcosa però attirò quegli occhi grigi. Una serie di fotografie che oscillavano leggermente nell'aria grazie alle onde d'urto che le catenine di luci rosse a cui erano appese ricevevano.
    Si avvicinò lentamente, incuriosito, la testa che già sapeva a cosa andava incontro. Quando vi fu perfettamente davanti scansionò con sguardo attento quelle piccole opere d'arte. Aveva sempre riservato all'arte un posto tutto speciale della sua anima. Forse era l'una capace di muovere ancora qualcosa dento di lui. Le prime due erano immagini toccanti che gli fecero venire in mente il vuoto.. La terza possedeva qualcos'altro. Inclinò la testa leggermente a destra, come fanno i cani incuriositi da qualcosa in movimento, riducendo gli occhi a due fessure. Come capitava ogni mattina allo specchio, Nikolaj faticò a riconoscersi in quelle labbra e nella curva di quel pallido collo. Il grande potere dell'arte è quello di attribuire al soggetto rappresentato connotati che non avrebbe se non fosse stato influenzato dall'occhio dell'artista. Contaminazione, idealizzazione, l'abilità di trasformare qualcosa in ciò che si vorrebbe che fosse. Arte come finzione. Finì l'ultima goccia di liquido ambrato prima di posare il bicchiere su un tavolino ingombro. Voltò poi le spalle a quella foto, incapace di guardarsi un secondo di più. L'aveva turbato, non tanto perché non era stato messo al corrente di quello scatto prima di allora. C'era qualcosa di sbagliato in lui, una bruttura impossibile da amare che non doveva essere esposta di fianco ad altre opere d'arte. Ne dissacrava in qualche modo la bellezza, e questo Nikolaj non poteva sopportarlo. E poi c'erano i ricordi che quella foto aveva smosso. Momenti tanto bui quanto luminosi da doversi coprire gli occhi per far fronte a quel contrasto. L'idea che qualcuno - sapeva benissimo chi - potesse aver trovato qualcosa da mostrare in lui, lo ripugnava.
    Spinse la porta del bagno. Qualcuno aveva finalmente provvisto di un pene l'omino che la sorvegliava, una forma allungata che stonava con la geometria pulita delle sue altre parti.
    E subito i suoi occhi incontrarono quelli della ragazza; e lui comprese che era lei quello che cercava.
    Colori. Il bagno ne era forse l'unico luogo sprovvisto dell'intero disco club. Nessuna luce psichedelica, nessuna sfera stroboscopica che riduceva chiunque a pixel scomposti. Eppure prima della puzza di piscio, prima del dolce profumo di tabacco, persino prima dell'uomo accasciato contro la parete con il cazzo ancora nella mano destra, la cosa che Nikolaj notò furono i colori. Li aveva seguiti per tutta la sera senza neanche rendersene conto, inconsciamente come si percorre la strada che porta a casa. E lì l'avevano condotto, quei dannati colori. Nello squallido bagno del Bolgen, nelle braccia della persona più colorata che avesse mai conosciuto. Non erano solo per via dei vestiti dai colori sgargianti e fluorescenti o per il trucco brillante che spesso indossava. Lei era colore personificato. E non parliamo di un'unico tono, no, sarebbe stato impossibile scegliere. E perché farlo? Perché accontentarsi di make-up, arredo e vestiti quando si potevano avere letteralmente in testa i colori dell'arcobaleno? Quella cascata di capelli sembrava davvero dar sfoggio di ogni sfumatura dello spettro visibile, che cambiava ad ogni movimento della nuca e ad ogni rifrazione della luce. Seppur banale come può apparire, erano stati quei capelli che avevano spinto Nikolaj ad attaccare bottone a quella festa di beneficenza di tanti anni prima.
    Erano i primi tempi senza la famiglia al fianco e il nonno aveva appena iniziano a concedergli un po' di quella libertà che Nikolaj tanto agognava. Essendo la primissima festa che organizzava da solo, il ventenne Mordersonn aveva voluto strafare e non si era preoccupato minimamente di assumere buttafuori o guardie del corpo per l'occasione. Senza sicurezza alcuna, Eventyr House si era ritrovata ad ospitare più invitati del previsto e Nikolaj aveva finito per non riconoscere molti dei volti che ballavano e distruggevano il decoro di quella casa. Dal canto suo, con appena vent'anni sulle spalle, un lutto del quale si sentiva colpevole e fin troppi Martini nello stomaco, Nikolaj era troppo impegnato ad esistere per interessarsi del tappeto persiano dal valore inestimabile sul quale un ragazzo stava vomitando per la terza volta. E tra gli innumerevoli volti che sfuocati gli si erano susseguiti davanti agli occhi quella sera, c'era stato quello della ragazza multicolore.
    Ricordava di aver pensato che era davvero strana. « Sono sicuro di non averti invitata.» Aveva biascicato ondeggiando pericolosamente sui piedi, una torre sbilenca alla deriva. Non possedeva nessuna informazione su di lei. Perché avrebbe dovuto? Del resto tra i loro mondi correvano gli stessi paralleli terresti che dividono il Polo Nord da quello Sud. Non ricordava quello che aveva risposto e se l'avesse persino fatto. Sta di fatto che non l'aveva cacciata. In uno sprazzo di delirio un pensiero strano, che non gli apparteneva, si era materializzato nella sua mente. Forse la ragazza sfumature avrebbe portato un po' di colore in quella sua vita costituita per lo più dal bianco sterile dell'impero finanziario di cui a vent'anni non aveva visto altro che la punta dell'iceberg.
    Non era certo che quella fase della sua vita si fosse potuta definire felice; in fondo c'era già il seme di quella tristezza lieve ma perenne che l'avrebbe accompagnato per tutta la vita. Però ricordava quell'anno come uno degli ultimi in cui non si era sentito del tutto solo.
    In quei trecentosessantacinque giorni di parentesi, si era perso nella droga come mai prima di allora. Tutto era iniziato da lì e non avrebbe mai più smesso, almeno per lui. Ma si era anche stranamente ritrovato. Condividere quell'esperienze con qualcuno gli aveva permesso di riconnettersi con il mondo - che era allora formato principalmente da Fae. In un modo indubbiamente distruttivo e malato, ma pur sempre una via. La maggior parte dei ricordi legati a quei giorni erano confusi e alterati, come se qualcuno vi avesse scarabocchiato sopra con un evidenziatore. All'epoca aveva ancora la voglia di scrollarsi di dosso ogni etichetta e farsi vedere per ciò che era, un ragazzino corroso dai sensi di colpa e oppresso da un'eredità troppo grande per lui. Impossibilitato a fare altrimenti, l'unico modo che conosceva era ricorrere alle sostanze stupefacenti. Nikolaj aveva continuato ad usufruire di cocaina e farmaci illegalmente acquisiti fino a quel momento, ma aveva perso qualsiasi desiderio di mostrare una persona diversa di quella che appariva. L'altra differenza sostanziale era che lo faceva da solo. Anche quando era in compagnia di una, due, tre ragazze che sniffavano insieme a lui, nel cuore e nella testa Nikolaj era in una stanza completamente vuota.
    Incolpando l'alcool, gli servì qualche attimo di recupero di troppo prima di rimettere in moto i muscoli delle gambe. La porta si chiuse con un tonfo alle sue spalle, tagliando stranamente fuori quella musica dal volume spacca timpani. O forse era tutto nella sua mente.
    «Hey. Belle tette.» Accennò alla maglietta. Come fingere che non fossero passati nove anni. Avanzò dritto verso i gabinetti fissati al muro. Il rumore della zip che veniva abbassata tagliò l'aria anticipando quello dell'urina. Non si preoccupò di poter infastidire la ragazza. Era il bagno dei maschi, dopotutto.
    Nonostante il luogo non proprio convenzionale e la presenza di una terza persona, che sebbene fosse più di là che di qua respirava comunque la loro stessa aria, l'atmosfera era stranamente intima. Era colpa di quella sensazione di dejavù che stava vivendo a rendere l'aria così densa, quasi scomoda. Quante volte si erano ritrovati in un bagno qualsiasi, di una discoteca qualsiasi, di un giorno qualsiasi ridotti nelle stesse condizioni del ragazzo dalla pisciata a metà? Non si erano mai sentiti obbligati a definirsi. La gente rivendica i propri diritti sulle persone a cui vuole bene dandogli un nome, etichettandole come fossero roba loro. La cosa bella del loro rapporto era stata proprio la totale assenza di quella necessità che sembra affliggere il mondo.. Nessuna urgenza di dichiarare, sbandierare ciò che erano, come se ci fosse bisogno di approvazione.
    Dall'esterno poteva apparire il contrario, ma non non si erano distrutti a vicenda. Ci aveva già pensato la vita, le decisioni sbagliate, la famiglia a ridurli in macerie. Non avevano cercato di arrestare la valanga, questo no. Avevano però guardato andare tutto a rotoli insieme, tenendosi per mano.
    Era per quello che i colori l'avevano condotto li proprio in quel momento in cui ogni sicurezza sembrava dissolversi. La ricomparsa improvvisa di Sofi e quelle emozioni a cui non sapeva dare un nome provate con Lucille avevano dato un duro colpo alla stabilità della sua vita, se stabile si può definire l'esistenza di un tossico a capo di un organizzazione che conduce esperimenti su cavie umane. Nonostante tutto però, seguiva certi pattern che, per quanto fossero mirati all'auto-distruggimento, lui stesso aveva scelto. Quelle improvvise emozioni a cui era stato messo di fronte invece, gli erano state imposte. Non aveva scelto di far tornare Fì né tantomeno di essere così coinvolto dalla sua sottoposta. Ci si era trovato tra capo e collo e aveva la spiacevole sensazione che la sua vita stava per cambiare di nuovo.
    Fae era lì quando tutto si era capovolto per la prima volta. Quando aveva perso il suo bilanciere, Jakob, e tutto ciò che aveva sempre conosciuto. Non c'erano più Fì, Frida e neanche i suoi genitori. Era solo e, per quanto non gli piacesse ammetterlo, la solitudine lo spaventava tanto quanto avvicinarsi troppo agli altri. Per questo ogni cosa nella quale si buttava aveva la parola fine già prescritta. E così era successo con Fae, nessuna eccezione. L'aveva chiusa tra parentesi senza più voltarsi indietro.
    Pur di non attribuirsi nessuna colpa, aveva buttato addosso a lei qualsiasi rancore. Era finita perché si era tirata indietro, troppo spaventata per andare fino in fondo. Non gli era mai passato per la testa che forse gli altri erano dotati di un istinto di sopravvivenza che li avvertiva quando era ora di smettere, prima che fosse troppo tardi. Quello che in lui non sembrava funzionare.
    Ma era di nuovo lì, di fronte all'unica persona con cui avrebbe voluto guardare la vita disfacersi.
    Nove anni non passano senza lasciare traccia, senza cambiamenti. Era consapevole che tutto, lei, potesse essere completamente un'altra persona dalla Fae che ricordava. Il seno disegnato sulla maglietta gli fece sperare il contrario. Era rimasto in silenzio per tutto il tempo necessario a soddisfare quel bisogno primario, lavaggio delle mani annesso.
    «Non hai abbandonato la passione per la fotografia. Sono contento di sapere che qualcosa sia rimasto lo stesso.» cominciò soppesando le parole, cauto come non lo era forse mai stato. Parlava davvero come se fossero due vecchi amici che non si vedevano da poche ore, incapace di affrontare la conversazione altrimenti. Mentre parlava aveva tirato fuori una bustina di plastica trasparente dalla tasca dei jeans traboccante di polvere bianca. Si era voltato a fronteggiare di nuovo i lavandini, agitando la bustina tenendola sospesa tra l'indice e il pollice. «Ho visto le tue foto appesa in sala, niente male davvero. Per il mezzo portrait concedo un po' di credito al soggetto.» Il leggero guizzo di un muscolo facciale risultò nell'ombra di un sorriso che forse Fae avrebbe potuto comunque scorgere nonostante le spalle che le dava, visto il modo in cui era appollaiata sullo scaffale rialzato. Il grande smartphone giaceva ora capovolto sul ripiano del lavandino e Nikolaj vi stava sistemando in strisce ordinate la cocaina sopra, con l'ausilio di una delle sue carte di credito. «Questo è il momento in cui dovremmo iniziare a parlare di quanto le cose siano cambiate, di come noi siamo delle persone diverse; di cosa abbiamo rispettivamente fatto in questi nove anni, se ci siamo innamorati, se i nostri cuori si sono infranti e se si sono mai ricomposti del tutto; dovremmo sorride nel ricordare il passato, dirci se abbiamo comprato la casa dei nostri sogni, se abbiamo dei figli, dei cani o dei gatti finché qualcuno chiederà se siamo felici. E avremmo tempo per chiederci tutte queste stronzate.» Si era chinato, l'alta figura accartocciata su sé stessa alla mercé della sua sovrana. L'indice andò a premere sulla narice sinistra proprio mentre aspirava forte con la destra. E una striscia bianca sparì all'interno del suo naso. Dritto al cervello. Raddrizzò la schiena reclinando il capo leggermente indietro e tirando un paio di volte su con il naso. Voleva assicurarsi che neanche un grammo andasse perduto. « Ora ho bisogno di sapere, cos'è rimasto lo stesso? Il tuo aspetto è lo stesso e tuoi capelli sono uguali. Sei ancora la persona più colorata che conosca. » Fece una pausa e con lo smartphone a mo' di vassoio di nuovo in mano, si voltò finalmente a guardarla. «Cos'altro ha resistito al passaggio del tempo? » Non era venuto al Bolgen per comprare, di droga ne aveva a sufficienza. Era lì per lei. «Ai vecchi tempi.» Disse, come se ci fosse un'occasione felice per cui brindare. Il braccio teso verso di lei, la polvere che riluceva bianca sotto la luce al neon. Era un esplosione ferma. Un vuoto che si riempie di detriti.




    Edited by technicolor - 16/8/2018, 20:49
     
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    Aveva indossato un abito lungo e nero, scoperto sulla schiena e con uno scollo a V sul davanti che a malapena aveva riempito per via della sua magrezza, persino la dove avrebbero dovuto esserci delle forme. Ma lei no, non ne aveva mai avute, così come sua madre. In molti le avevano detto di quanto si somigliassero, madre e figlia, e di quanto fosse simile il loro andare, il loro comminare con passo deciso e sicuro. Le spalle dritte, gli occhi chiari come il mare inondato dalla luce del sole mattutino. E quanto le avevano fatto male quelle parole, così vere e distanti da ciò che invece avrebbe voluto udire lei. Se solo tutto non fosse andato in quel verso, se solo a prepararle lo zainetto per la scuola la mattina ci fosse stata sua madre, allora ogni cosa sarebbe stata diversa e lei sì, avrebbe accettato di somigliare così visibilmente alla donna che l'aveva messa al mondo. Eppure avrebbe dovuto farci i conti per il resto della sua vita, sapendo di camminare come lei, di guardare come lei, di profumare come lei. E quel lungo abito nero che aveva cercato di vendere ad un mercatino dell'usato qualche anno prima, era in qualche modo divenuto intaccabile da chiunque non avesse quella chioma fluorescente. Lo aveva trovato fra le cianfrusaglie tirate fuori dai cartoni con su la scritta in pennarello nero: “Cynthia”. Non appena aveva aperto quello scatolone, appostato da anni ed impolverato ormai nella soffitta di casa Olsen, le narici della ragazza avevano colto quell'odore familiare, lo stesso che ricordava di aver riconosciuto ogni volta che il suo viso si era appoggiato al petto della donna, quando era stata solo una bambina. Era strano per lei sapere di aver vissuto fra le braccia della donna sin dal suo primo respiro, eppure ricordare solo pochi avvenimenti di quell'infanzia. Si era chiesta come mai i bambini non conservano le immagini, il ricordo dei suoni uditi quando si è ancora in fasce, eppure gli odori, quelli più scontati e comuni, quelli restano impressi. Era un po' come fare qualche passo indietro per voltarsi senza avere la paura di non tornare avanti; un po' come incarnarsi in qualcos'altro: era stato così, per lei, indossando quell'abito nero appartenuto a sua mamma. Non aveva idea del perché Cynthia lo avesse mai comprato o dove lo avesse indossato. Nel momento in cui si era guardata allo specchio con quel lungo abito addosso, aveva semplicemente saputo di essere parte di lei, ovunque ella fosse. Poi, con quel pizzico di coraggio in più, era uscita e si era recata in direzione di una delle dimore più misteriose e ricche di Besaid. Nessun invito, solo una matta voglia di essere qualcun altro. Eventyr House le aveva aperto le porte ad una serata fuori dal comune, della quale mai avrebbe dimenticato gli avvenimenti. Non aveva idea di come sarebbe entrata, ma ci era riuscita trascinando con se il gruppo di sempre, quelli pronti a sostenere le idee folli di Fae. E con quell'abito nero che le avvolgeva morbidamente il corpo senza stringerlo, ma scendendo dritto verso le caviglie, quella chioma arcobaleno aveva posato i propri gomiti magri sulla superficie marmorea del piano bar allestito per l'occasione, senza neanche rendersi conto di essere, sotto ogni punto di vista, la più inadatta a prendere parte ad una festa di quel tipo, dopo il suo amico con i dred che scendevano lungo la schiena fasciata in una camicia bianca, decisamente diversa dal solito stile che li trasportava in giro. Aveva ordinato un drink soffocando qualche risatina, prima di iniziare ad avvertire l'effetto dei cicchetti bevuti durante il pre-serata che, frettolosamente, andavano a corroderle il fegato e ad annullare quel poco livello di sobrietà che aveva nella testa. Eppure, dopo soli pochi attimi -così ricordava lei- quella festa sembrava essere degenerata completamente: la musica ad alto volume, invitati che si davano alla pazza gioia nel distruggere il decoro della dimora, beerpong improvvisato con bicchieri forse di cristallo e wodka liscia. E poi, nel mezzo del caos, una voce sottile. «Sono sicuro di non averti invitata.» gli aveva detto Nikolaj, guardandola con interesse e cercando di dedurre da dove sbucassero fuori quei colori. Lo ricordava ancora con certezza, come se il tutto fosse accaduto solo qualche ora prima. Ricordava di aver riso con gusto, Fae, dinanzi alla figura di qualcuno che, pensava, non le sarebbe mai piaciuto. Aveva continuato a sorseggiare il suo drink, noncurante di ciò che quegli occhi cercavano di scovare nei suoi, per poi essersi allungata verso di lui ed avergli afferrato il bicchiere ormai vuoto dalle mani. Lo aveva posato sul tavolino accanto al quale si erano incontrati, voltandosi ancora verso Nikolaj e tirandolo per una mano verso il bancone. L'aveva seguita barcollando, curvando appena le sopracciglia e cercando di seguire con lo sguardo quella chioma arcobaleno che sembrava volerlo far affondare ancor di più nel baratro dell'alcool. Era ciò che lei, poi, aveva effettivamente fatto, ordinando per entrambi 4 cl di Whisky con ghiaccio ed offrendone il primo bicchiere al proprietario di casa. «Io? Sono solo nella tua testa.» gli aveva detto lei, semplicemente, prima di lasciare che il proprio tumblr di vetro di scontrasse appena con quello di lui, per brindare. Non aveva idea del come, del perché, ma quei momenti erano rimasti indelebili dentro di lei, al sicuro sotto la coperta di ciò che il buon senso aveva provato ad evitare successivamente. Ma non sempre ciò che si abbandona resta a lungo dietro. Alcune volte, senza che neanche ci si renda conto, il passato torna ad esser presente e forse futuro, e l'anima perde di vista ciò la strada che cercava di percorrere. In quel preciso istante, il passato di Fae sembrava volesse una rivincita, tornando a correre in sua direzione e facendo ingresso proprio dalla porta dei bagni maschili del Bolgen, dal quale mai la giovane avrebbe immaginato di vederlo entrare per piazzarsi lì, nel suo presente. La figura di Nikolaj s'interpose nell'immagine bianca che si distendeva davanti alle iridi blu di Fae, spezzando quella monotonia cromatica e piazzandoci nel mezzo una figura avvolta in abiti scuri e tonata da un viso pallido, i cui occhi grigi e ben evidenziati puntavano proprio nella sua direzione. Per qualche secondo, ogni cosa sembrò immobilizzarsi, tranne il fumo che, velato, danzava lentamente allontanandosi dalla sigaretta che la ragazza manteneva ferma tra il dito indice e medio. Le labbra appena tinte da un leggerissimo rossetto matte color nude erano appena schiuse, la lingua arricciata al suo interno; gli occhi aperti e lo sguardo puntato di fronte a sé, mentre la mano che teneva la sigaretta era ferma a mezz'aria, alla propria destra, il braccio sorretto comodamente dal gemello. Il viso rimase immobile nei movimenti, nelle espressioni, mentre la mente ripercorreva eventi passati che non aveva dimenticato neanche dopo così tanto tempo. La chioma colo cenere di Nikolaj sembrava essere la stessa di anni prima, quando spesso la sua mano si era intromessa nell'ordine della sua capigliatura solo per farne del caos, contro la certa volontà del ragazzo che, a quel tempo, le aveva concesso più di quanto lui stesso avrebbe mai immaginato di poter dare ad una perfetta sconosciuta piombata dal nulla nella sua vita. La sigaretta, stretta fra le dita magre della giovane, si consumò appena verso la fine, segno dei secondi che passarono prima che uno dei due potesse far qualcosa per rompere il silenzio, lo specchio che rifletteva le scene del passato su di loro. «Hey. Belle tette.» esclamò lui,voltandosi in direzione dei gabinetti fissati al muro ed abbassando la zip dei pantaloni senza farsi troppi problemi, lasciando quindi andare i liquidi corporei alla presenza di quella chioma arcobaleno e del respiro pensante di quel tipo ancora accasciato contro il muro con l'aggeggio di fuori. «Bella bacchetta.» disse lei, chinando appena il capo e seguendo con gli occhi i movimenti del nuovo arrivato. Solo in quel momento mosse la mano destra, avvicinandola nuovamente alle labbra e lasciando che queste si adagiassero con cautela intorno alla carta che conteneva il tabacco, aspirando attravero il filtro bianco e trattenendo il fumo nei polmoni per qualche secondo, prima di rigettarlo fuori. Sbatté appena le palpebre, lasciando che e ciglia superiori tinte di mascara nero si incontrassero con quelle inferiori, ancora al naturale. Non si truccava mai troppo, ma preferiva usare l'essenziale: eyeliner, mascara e rossetto matto dai colori sempre fin troppo chiari. Bastavano i capelli ad evidenziare il suo aspetto. Allungò appena il collo, spostando le iridi chiare sul tipo addormentato e posando lo sguardo all'altezza della vita di lui. «Hm. Forse la sua è più maneggevole.» aggiunse con tono pacato, prima di chinare il capo nell'altra direzione ed avvicinare nuovamente la sigaretta alla bocca per concedersi un altro tiro. Se qualche anno prima era stata Fae ad essersi fatta spazio nella vita di lui, per colmare quel vuoto che aveva lacerato il suo costato dall'interno, in quel momento, le cose sembravano esseri duplicate nel tempo con una sola differenza: i ruoli sembravano invertiti, e mentre Nikolaj si lavava le mani fra le mura di quei bagni da lui forse mai visti, la ragazza dai capelli arcobaleno ripensava, ancora e ancora, a quanto la vita potesse sorprendere chiunque e al contempo lasciare che ogni cosa prendesse le sembianze di ciò che, in ogni caso, avrebbe potuto essere. Allontanò il filtro dalle labbra, abbassando la mano e schiacciandolo contro le mattonelle fredde della parete contro cui era appoggiata, lasciando che si spegnesse. Dopodiché lo lanciò in direzione del cestino accanto al mobile, senza però riuscire a centrarlo. «Non hai abbandonato la passione per la fotografia. Sono contento di sapere che qualcosa sia rimasto lo stesso.» affermò Nikolaj, prima di voltarsi ed estrarre una bustina trasparente dalla tasca dei pantaloni. Ne osservò il contenuto, Fae, restando seduta sul mobile ed osservando quei movimenti che, tra tutto, non avrebbe mai pensato di trovarsi ad osservare ancora con estrema attenzione. Le labbra serrate, mentre gli occhi blu seguivano il contorno dei lineamenti del ragazzo, ormai cresciuto di qualche anno, proprio come lei. In cosa erano diversi, rispetto a tanti anni prima? Cosa era accaduto nella vita di Nikolaj da segnare quelle occhiaie che, tempo prima, ricordava fossero appena più lievi? Con chi aveva condiviso il baratro durante la sua assenza? A chi aveva lasciato quello spazio sotto la sua ombra, un tempo riservato alla luce che i suoi capelli emanavano? «Anche le tue passioni sembrano le stesse.» disse lei, inarcando appena le sopracciglia ed allungando il viso in sua direzione, puntando alla sua figura magra con il mento. Guardò Nikolaj agitare la bustina piena di polverina bianca, permettendo a questa di mischiarsi e distendersi all'interno del sacchetto, cosicché la fuoriuscita avrebbe potuto essere facilitata. «Ho visto le tue foto appesa in sala, niente male davvero. Per il mezzo portrait concedo un po' di credito al soggetto.» affermò ancora lui, mentre l'ombra di un sorriso divertito si stendeva nella parte inferiore del suo viso, lasciando l'espressione facciale complessivamente seria. Non era divertito, Fae lo sapeva. Conosceva il suo ego così come aveva avuto modo di presentarsi alle sue debolezze, rivedendole spesso nel suo sguardo che, un tempo ragazzino, sembrava essere cresciuto insieme alla larghezza delle spalle. «Era uno dei miei soggetti preferiti, un tempo. Ho tante altre foto, alcune più imbarazzanti che conservo per la prossima serata.» mentì lei, anche se non completamente. C'era un piccolo fondo di verità nelle parole appena pronunciate, ma lui sicuramente non avrebbe mai scoperto quale con preciso. Capovolse quindi lo smartphone, adagiandolo sul piano presumibilmente pulito accanto al rubinetto del lavandino. Un gesto frettoloso della mano che, esperto, andò a sistemare la polvere di cocaina sulla superficie scura del telefono. Tante piccole strisce presero vita su di esso, tentando la fame di Fae, la quale iniziò a pensare che, se Nikolaj decideva di apparire nei momenti più bui della sua vita, allora quello sarebbe divenuto il destino che a lei era riservato. «Questo è il momento in cui dovremmo iniziare a parlare di quanto le cose siano cambiate, di come noi siamo delle persone diverse; di cosa abbiamo rispettivamente fatto in questi nove anni, se ci siamo innamorati, se i nostri cuori si sono infranti e se si sono mai ricomposti del tutto; dovremmo sorridere nel ricordare il passato, dirci se abbiamo comprato la casa dei nostri sogni, se abbiamo dei figli, dei cani o dei gatti finché qualcuno chiederà se siamo felici. E avremmo tempo per chiederci tutte queste stronzate.» disse Niko, lasciando che quelle parole venissero fuori una dopo l'altra e pretendendo forse che avessero un significato. Se solo fossero stati altri, se solo non avessero visto la fine della botola nel quale erano precipitati insieme, tempo prima, allora ogni domanda posta da Nikolaj avrebbe avuto una risposta, e ogni risposta sarebbe stata una storia da raccontare. Allora forse, figli di un universo parallelo, Fae e Nikolaj avrebbero potuto dire di essere felici. Ma non erano in un universo parallelo e, sebbene il passato restasse passato, sembrava quasi che ogni cosa volesse ripetersi solo perché anche il tempo che era trascorso aveva capito quanto, contro ogni logica, potessero essere d'aiuto l'un l'altro nell'affondare per poi risalire. Si chinò quindi sullo smartphone, premendo il dito indice su una delle narici e lasciando che dall'altra la polverina scomparisse, risucchiata dal suo corpo e da quel profondo inspirare che anche Fae, ultimamente, aveva ripreso a far suo. Il cuore prese a batterle appena più veloce, affondato nel ricordo di quegli attimi lunghissimi durante i quali ogni forma sembrava mutare intorno a lei; i colori divenivano lucidi e danzanti davanti ai suoi occhi blu; il respiro si faceva pesante e veloce, così come quel battito cardiaco che canzonava i minuti rendendoli frenetici, mentre gli orologi sembravano immobilizzati nel calore di una casa che non era neanche sua e che restava per lei un mistero mentre con le sue alte pareti sovrastava il corpo esile della ragazza che, piano piano, scivolava in una trance da cui, sapeva, non ne sarebbe uscita sola. E il profumo della pelle di Niko al suo fianco era legato a quella sensazione, come se nel tessuto dei suoi indumenti fosse ancora aggrappata la voglia di adrenalina che Fae aveva pregato di ricevere ogni volta. Risollevò la testa subito dopo, Nikolaj, portandosi una mano all'altezza della fronte e premendo contro di essa per qualche altro istante ancora. Poi, con lentezza, andò a voltarsi in direzione di quella chioma arcobaleno, ancora immobile dietro di lui. «Ora ho bisogno di sapere, cos'è rimasto lo stesso? Il tuo aspetto è lo stesso e tuoi capelli sono uguali. Sei ancora la persona più colorata che conosca. Cos'altro ha resistito al passaggio del tempo?» chiese, guardando nuovamente negli occhi di lei e scavando per capire, come un tempo, quale fosse la storia di quella chioma arcobaleno. E con lentezza e forse titubanza, Fae distese le gambe, scendendo finalmente dal mobile ed avvertendo il pavimento molliccio sotto di lei, come se la vicinanza a Niko rendesse ogni cosa fluida, modellabile. Non aveva paura, sebbene inizialmente poteva averlo pensato. Sapeva solo che, se in quel momento avesse compiuto la scelta più sbagliata del mondo, Niko non avrebbe mai puntato il proprio dito accusatorio contro di lei. Sapeva che, se solo avesse accettato di arrendersi ancora, Niko si sarebbe arreso assieme a lei. E tutta la solitudine, tutta la fragilità che aveva cercato di allontanare con tutte le sue forze, sarebbe scomparsa forse per qualche ora. Come prima, lui avrebbe proteso una mano verso di lei con la soluzione che, tempo prima, sembrava avesse fatto staccare loro i piedi da terra. Compì qualche passo in sua direzione, sollevando la mano ed imitando quelli movimenti che gli aveva visto fare poco prima. Tappò la narice destra ed aspirò con la sinistra dopo essersi curvata sulla mano di lui che reggeva lo smartphone. Inspirò con forza, lasciando che ogni traccia di quella striscia rimanente si facesse strada nel suo naso, raggiungendo la testa. Ne sentì il cammino pungente, premendo con naturalezza all'altezza della fronte, laddove cominciava la discesa del naso. Una parte di sé odiò la figura di Nikolaj che se ne stava lì, dinanzi a lei, pretendendo di tirarla giù. L'altra parte, invece, non avrebbe voluto fare altro che mostrargli quei colori che, ne era sicura, lui era andato a ricercare lì dentro quella sera. «Ai vecchi tempi.» sussurrò lui, il viso illuminato dalla luce del neon di quei bagni spogli in cui Fae aveva dato il meglio di sé così tante volte. «Cosa hai fatto in questi nove anni, Nikolaj? Ti sei innamorato, forse. Magari hai comprato la casa dei tuoi sogni e ora hai anche due figli, di cui nemmeno ricordi il nome della madre.» gli domandò una volta abbassata nuovamente la mano lungo il proprio fianco ed averlo cinto con le dita magre. A pochi centimetri da un corpo che aveva visto anche senza alcuna veste, senza protezione, senza alcun limite, Fae indirizzava le proprie iridi chiare in quelle di lui, mentre la propria voce sembrava un sussurro messa a confronto con il chiasso della musica che, oltre quelle porte, cullava la danza di qualche ragazzo ormai altrove con lo spirito e la testa. «Però no, non ho bisogno di chiederti se sei felice. Se questo era un regalo e non devo pagarlo, sicuramente la felicità non è esattamente ciò che provi in questo periodo.» disse lei, chinando il capo da un lato e sorridendo divertita al ragazzo, riferendosi ovviamente alla dose di polverina bianca che lui le aveva permesso di far sua. «Io sono la pietra che ti teneva sott'acqua, e senza di me sei risalito. Perché vuoi ritornare giù?» gli domandò, questa volta il sorriso scemò appena mentre le sopracciglia di lei si curvavano in una piega più illogica, più triste e confusa. Guardò gli occhi di Nikolaj e vide i propri, ricordando di quanto avesse fatto male ogni cosa, di quanto tempo prima anche la luce del sole aveva bruciato la sua voglia di essere semplicemente, o di respirare. Era una domanda, quella, che forse lesse di rimando in quello specchio che credeva di avere dinanzi. Perché era lì, perché crollava facilmente ogni volta che Nikolaj allungava una mano in sua direzione?
    «Che ne dici di uscire di qui?» chiese lei, indicando la porta del bagno con il capo. Un tonfo ruppe poi la calma -o la tensione, a seconda delle varie parti- che aveva avvolto i tre presenti nel bagno degli uomini. Il ragazzo era definitivamente crollato per terra con i pantaloni ormai all'altezza delle ginocchia. Prese a russare come se fosse preda di un sonno profondissimo che, nessuno degli altri due, sembrava conoscere poi così bene. Lo guardò per qualche istante Fae, prima di allontanarsi da Niko ed afferrare un rotolo di carta messa lì per asciugarsi le mani. Lo srotolò appena, staccandone diversi pezzi ed adagiandoli sul bacino nudo del tipo, coprendone quindi le intimità. Sospirò appena, prima di abbandonare il rotolo sul pavimento accanto al ragazzo addormentato e voltandosi ancora in direzione di Nikolaj. Gli fece segno di seguirla mentre si dirigeva verso la porta e la tirava verso di sé per aprirla e lasciare che il caos esterno s'infrangesse ed implodesse all'interno di quelle pareti alte e bianche. «Vediamo quanti bicchieri di Rum reggi ancora.» lo sfidò, dando le spalle alla porta e tenendola ferma ed aperta con il proprio peso. Tutto sembrava prendere pieghe diverse dal solito; pieghe che tempo prima aveva conosciuto e saputo ricontornare con l'ausilio delle proprie dita, le quali piano si erano portate lungo la pelle del ragazzo lì davanti. Lo sentiva, Fae: ogni cosa avrebbe ripreso a sgretolarsi nel giro di qualche ora, forse di qualche minuto. Avrebbe fermato tutto o si sarebbe lasciata trasportare dalle macerie che lui sembrava evidenziare?
     
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    Osservava Fae guardingo, teneva d'occhio ogni suo movimento con quello sguardo fisso che spesso incuteva timore. Era strano trovarsela a distanza di qualche passo, un minimo gesto avrebbe potuto accorciare le distanze,avrebbero potuto congiungersi come avevano fatto tante volte prima, una fusione di mancanze e di necessità.
    Averlo unito al suo aveva in qualche modo fatto sì che il vuoto di Niko si riempisse di un'assenza diversa da quella che provava lui, ma in qualche modo famigliare. Stranamente, questo connubio di deserti non aveva allargato la desolazione di Nikolaj ma l'aveva colmata:spezziamoci, disfacciamoci, insieme. E' importante, credo, non essere soli quando si tocca il fondo, avere qualcun altro rende le cose sopportabili, vivibili, aiuta a respirare sott'acqua. «Bella bacchetta.» Aveva emesso un suono, Nikolaj, più simile a uno sbuffo d'aria che a una risata vera e propria. Non accennò a coprirsi, nascondere l'inguine per evitare altri giudizi, continuò indisturbato fino alla fine, senza fretta, con gusto. «Giusto la sua potresti maneggiare.» Accennò uno sguardo disinteressato verso il ragazzo che, mezzo morto, si teneva ancora il pene nella mano. «Per la mia, non ti basterebbero due mani e una bocca.» Il problema con Nikolaj era che, qualsiasi cosa dicesse, non si riusciva quasi mai a capirne l'intento. Voleva scherzare? O forse era ferire ciò a cui mirava. Colpa del cipiglio spesso rabbuiato, leggermente imbronciato, della volgarità posh intrinseca in ogni sua frase, e del cinico sarcasmo impregnante quelle labbra che di rado vedevano l'ombra di un sorriso. Nikolaj inspirò forte, chino, accartocciato sul telefono capovolto, quel concentrato chimico che saliva nella narice e faceva sprofondare l'uomo. Tic toc tic toc, il count down nel suo cervello era iniziato, la cocaina faceva il giro di ispezione. «Era uno dei miei soggetti preferiti, un tempo.» Aveva sentito bene? Aveva davvero dato quella specifica connotazione temporale? Non ce ne era bisogno, in quella frase, sarebbe stato facile ometterla se lo si fosse voluto. L'aveva lanciata come si spara un proiettile, dritta, senza alcuna inflessione nella voce. Perché connotare così minuziosamente, specificare,Voleva confinarlo un posto, ricondurre Nikolaj nel passato a cui aveva appartenuto fino a quel momento, dirgli non sei il benvenuto qui torna da dove sei venuto, fargli capire quale era il suo posto, ridurlo a una parentesi un tempo aperta e ormai chiusa. Forse, in cuor suo, sapeva di meritarlo. Era però una consapevolezza sopita, sepolta sotto anni di mancate responsabilità, e quella frase lo ferì molto più di essere stato accusato della possibilità di non ricordarsi il nome della madre dei suoi ipotetici figli. Nikolaj era così, di rado prestava attenzione a ciò che gli altri avevano da dire, poi capitava che una singola parola, un susseguirsi di sillabe senza senso ne acquistassero improvvisamente uno, colpendolo. Si fissava, ci si arrovellava, trovavano un passaggio segreto, il tunnel sotterraneo che credeva ormai ridotto a un accumulo di detriti, e lo scovavano lì, solo, senza difese. «Non dovresti prenderti la libertà di esporre un soggetto senza il suo consenso, sopratutto se egli non fa più parte del tuo presente. » Hai sbagliato, hai fatto un errore, sei stata tu ad andartene. Avrebbe voluto buttarle addosso ogni colpa, punirla, per cosa, non lo sapeva. Per essere andata avanti, per averlo lasciato ammuffire nel suo passato, poteva quasi sentirsi la polvere del tempo addosso. E' più semplice incolpare gli altri, non vedere, non attribuirsi nessuna responsabilità. Quei pensieri nascondevano una realtà che Nikolaj aveva fatto in modo di celare persino ai suoi stessi occhi, una verità scomoda, irritante. Così riusciva a tenersi alla larga da ogni dolore e dispiacere, incolpando gli altri, non dedicandogli neanche il tempo di un respiro. Il cuore batteva più animatamente come succedeva sempre quando usufruiva di sostanze stupefacenti. Lo sentiva battere, sono ancora vivo. Un uomo di neanche trent'anni, gradevole d'aspetto, carismatico, possedeva acquisti di alto valore e aveva abbastanza denaro da poter vivere di rendita per il resto della sua vita, si riduceva così, bisognoso di un ausilio friabile e bianco per sentirsi il sangue pompare nel corpo. Gli riattivava i sensi, l'intorpidimento svaniva, tornava a sentire le dita dei piedi come sue. Fae saltò giù, l'aria si spostò, lo urtò, un contraccolpo piacevole sulla pelle.
    La vide chinarsi, ogni gesto scandito dal flusso di globuli rossi e bianchi che facevano rumore nelle sue orecchie, i colori parvero fremerle in testa mentre tirava su con il naso, erano come scossi da una scarica elettrica. Aveva visto quel corpo svestito, ora lo trovava sexy mentre reclinava leggermente il capo, la narice a mo' di scivolo per la distruzione. Cosa c'era di sbagliato in lui, perché trovava piacevole il dolore altrui.
    «Cosa hai fatto in questi nove anni, Nikolaj? Ti sei innamorato, forse. Magari hai comprato la casa dei tuoi sogni e ora hai anche due figli, di cui nemmeno ricordi il nome della madre.» Nonostante la musica sovrastasse, quello che era stato più un sussurro che una constatazione giunse alle sue orecchie come un riverbero calmo ma potente. Rimase muto, sapeva che c'era dell'altro, Fae non serrava mai completamente le labbra fino a quando il discorso non era chiuso per lei, le teneva leggermente schiuse, gli angoli che si sfioravano, i denti bianchi appena visibili. «Però no, non ho bisogno di chiederti se sei felice. Se questo era un regalo e non devo pagarlo, sicuramente la felicità non è esattamente ciò che provi in questo periodo.» Se lui non sembrava felice agli occhi di lei, Fae dava la stessa impressione a lui. Quello non sembrava lo sguardo di una persona felice. Se lo ricordava cosa faceva quel sentimento alle persone, le rendeva diverse. Aveva qualcosa a che fare con i loro occhi, li accendeva, li illuminava, un lampo di luce veloce ma impossibile da non notare, una scintilla che da tempo non orbitava più nelle iridi dell'uomo.
    Che poi, felicità, mah. Per Nikolaj la felicità era un argomento proibito, come un posto in cui non è consentito avventurarsi, la casa degli orrori nei "Piccoli Brividi". Non se ne era mai parlato in casa Mordersonn, negli ultimi dieci anni quel sentimento non era stato un ospite di riguardo. Non gli era mai stato detto di non poterla raggiungere, non si era neanche mai parlato male di lei. Semplicemente, non se ne parlava affatto e quando lo si faceva, la si attribuiva a beni materiali, fisici, concreti, come se un divano di pelle potesss toglierti via il peso dal cuore semplicemente abbandonandoti su di esso. La felicità divenne presto un concetto anonimo, indistinto, una macchia offuscata dalla nebbia delle incombenze quotidiane. E' un concetto sopravvalutato, la gente si ammazza in nome della felicità senza mai riuscire a raggiungerla per davvero. Con l'arroganza tipica di chi si crede diverso dagli altri, il giovane Mordersonn finì per convincersi di non aver bisogno di quell'astrazione nella sua vita ma bensì di realtà fisiche, tangibili, che recano un piacere visivo e tattile. Tv al plasma - 65 pollici, lampadari di cristallo, Porshe e Mercedes, una casa a NY e persino uno yacht privato erano alcuni degli oggetti di cui Niko si era circondato, alla ricerca di una felicità distorta, stonata. «Amore, felicità...sono parolacce per le mie orecchie, concetti sopravvalutati. » iniziò lui, lentamente, scandendo ogni parola con quel modo di fare che aveva quando voleva fare il punto della situazione. «Mi conosci, Fae. Non ti farei mai pagare per divertirti con me, non sono la tua puttana. » Questa volta un accenno di sorriso alleggerì per qualche secondo l'arco sopracciliare, conferendo a quel viso asciutto un'aria quasi divertita. Gli anni erano passati, Nikolaj non si era mai chiesto se fosse felice. Decideva di chiudere gli occhi, uno sport in cui eccelleva, non voleva vedere le ragioni celate dietro alle azioni, alle parole anzi, tentava con tutto sé stesso di far tacere i sentimenti, nasconderli dietro alla patina di annoiato disinteresse che si portava dietro, provava in tutti i modi a nascondere ciò che dall'interno poteva improvvisamente fuoriuscire. Voleva sopprimersi. E allora proiettava tutto il suo io all'esterno in esplosioni di materialità. Esagerava le proprie azioni, si spingeva fino al limite del decoro, lo superava, storceva, storpiava, sciupava, accatastando oggetti, persone, sesso, abuso di alcool e droghe in una pila altissima di detriti creati esclusivamente per nascondere la superficie. La verità è che Nikolaj si era sempre sentito brutto, era una bruttezza impossibile da sopportare. Aveva creduto che una volta liberatosi di Jakob - la malformazione è emblema di imperfezione - sarebbe riuscito a vedersi sotto una luce diversa ma non era stato così. Si era adoperato a cancellare ogni traccia di sé, finendo per dimenticarsene persino lui stesso. «Io sono la pietra che ti teneva sott'acqua, e senza di me sei risalito. Perché vuoi ritornare giù?» Fu un battito di ciglia, il sorriso sparì di pari passo a quello della ragazza. Non rispose. Per la prima volta in vita sua, Nikolaj non aveva la risposta.
    Accennò ad un gesto positivo con il capo, accogliendo come una via di fuga la proposta di uscire da lì. Non prestò molta attenzione alla cura con cui Fae copriva l'inguine del ragazzo al suolo, per quanto lo riguardava ne aveva dimenticato l'esistenza. La osservò dirigersi verso la porta e tenerla aperta con il proprio peso, lasciando a lui la scelta questa volta. Restare al riparo di quel lurido bagno, smaltire in solitudine la droga in circolo, riuscire forse ad uscire da quella serata non dico indenni, ma senza aver distrutto ogni cosa. Oppure uscire, lasciare che la musica li avvolgesse, dedicarsi l'uno ai dispiaceri dell'altra, curarsi a vicenda con l'ausilio del rum, una spinta in più per mettere in moto le reazioni chimiche dovute alla polverina bianca nei loro corpi. La decisione fu quasi immediata. Nel superarla a grandi falcate, disse. « Sempre uno più di te. » Era una frase che le diceva spesso, quando ancora si parlavano, la voglia di supremazia estesa a ogni aspetto delle loro vite, sempre un passo avanti, soprattuto nel male. Fece strada, avrebbe cercato un contatto, anche solo per non perderla tra la folla, ma non lo fece. Un delicato equilibrio reggeva fra loro, persino per qualcuno con la sensibilità di un elefante sui pattini come Nikolaj l'avrebbe capito, non era ancora disposto a lasciare che si rompesse. Superarono le foto appese, ondeggianti, sembravano salutare al loro passaggio. Arrivarono al bancone e Nikolaj si fece largo, guadagnando di nuovo la prima fila con pochissime difficoltà grazie alla sua altezza. Nel processo si assicurò di lasciarle libero il passaggio, quasi impedendo alla folla di richiudersi su di lei. Non c'erano sgabelli liberi, quindi l'uomo poggiò i gomiti sul bancone e ordinò due rum lisci, senza ghiaccio. Fecero tintinnare i bicchieri, i loro sguardi intrecciati da una complicità antica, intima, ma al contempo nuova ed estranea. La bloccò al primo sorso. Facciamo un gioco, aveva detto. Si sarebbero dovuti sfidare a bere più shot possibili, il primo che non ci riusciva doveva svelare all'altro un segreto o una confidenza. Ordinò sei shottini diversi ognuno, da bere tutto d'un fiato uno dopo l'altro. Al quinto, quasi si strozzò. « Tubo sbagliato. » si giustificò tossendo. Attese qualche secondo, poi si pronunciò.«Nove anni sono tantissimi, Fae, me ne rendo conto. » iniziò mentre faceva volare lo sguardo intorno « Eppure non credo di essere cambiato di una virgola. Le circostanze intorno a me sono mutate, mio nonno è morto e sono a capo di un monopolio dell'economia norvegese. Intorno a me tutto gira ma io resto fermo, immobile, sospeso in un'istantanea come quelle che scatti tu. » si voltò, il bacino che poggiava ora sul bordo del bancone, il bicchiere in mano. Aveva accennato con il capo alle foto appese nel locale, si era inevitabilmente chinato verso di lei, la musica che lo costringeva a parlare ad alta voce. « Non sono un tipo cha cambia, mi sta bene così.» Ho paura di non riconoscermi. Avrebbe voluto dirle di come si sentiva da quando aveva conosciuto Lucy, del cambiamento che provava, della gelosia pazza, del dolore che l'avevano colpito all'idea del suo tradimento che non aveva alcun diritto di provare, di sua sorella che era spuntata all'improvviso, cambiando il corso della sua vita. Restare fermi era una garanzia. Al settimo shot, fu il turno di Fae di sbagliare. «Tocca a te, allora?» chiese incalzante, l'impazienza che cresceva di pari passo con l'alcool nelle vene. Avrebbe sinceramente voluto saperne di più sulla sua vita, si era tenuto naturalmente informato, segretamente, ai lati, aveva assistito alle piccole vittorie di Fae come uno spettatore attento. Ma era a conoscenza dei fatti pubblici, dei successi lavorativi, delle mostre fotografiche. Non sapeva niente della sua vita privata, di cosa la spingeva ad alzarsi dal letto ogni mattina. La cocaina stava finalmente calzando, spingeva nell'organismo di Nikolaj come un'impellente necessità di muoversi, di agire, di buttarsi. All'ottavo giro, Nikolaj si asciugò via dalle labbra il liquido ambrato, rimasuglio di una serata appena iniziata. Si chinò nuovamente verso di lei, più vicino, ad un soffio dai suoi capelli multicolore. Era semplicemente abbastanza fuori da volersi confidare nonostante nonostante non avesse sbagliato ad ingerire il bicchierino di liquido amaro. «E se ti dicessi che non sono mai risalito, che sono dove ci siamo lasciati l'ultima volta?» una pausa, poi il sibilo finale sussurrato nel suo orecchio. « Sono ancora lì. Sono sott'acqua, Fae, e non riesco a respirare.» Rimase qualche secondo con le labbra vicine al lobo della ragazza, ogni cellula del suo corpo consapevole dell'organismo femminile che gli stava accanto. Era una richiesta d'aiuto, un urlo silenzioso di soccorso. Si raddrizzò di scatto, era ormai troppo tardi. La prese per mano, la condusse tra la folla, si persero insieme fra i corpi sudati, li avrebbe disprezzati se non fosse stato per il livello di sostanze tossiche dentro di lui. Chi lo conosceva sapeva che Nikolaj ballava quella musica da disco club unicamente in occasioni del genere, quando non era più sé stesso, o forse lo era finalmente per davvero.


    Things aren't easy , so just believe me now
    If you can keep it cool now and never make a sound,
    All the lights will guide the way
    If you get to hear me now,
    All the fears will fade away



    Seguiva i movimenti del corpo di Fae contro il suo, alzava la testa verso il soffitto, riprendeva aria, cercava l'ossigeno di cui aveva bisogno prima di ritornare con lo sguardo verso il basso, verso i colori della ragazza che si mischiavano di fronte ai suoi occhi cerulei. Non aveva più molto controllo sul suo fisico, le braccia stringevano la pelle dell'ex-amica, si chiudevano su spalle di sconosciuti, tornavano ad incastrarsi fra lo spettro di quei capelli arcobaleno, le dita come lunghe ombre fra quei sottili riflessi di luce. Il sangue gli bruciava nelle arterie, il cuore batteva all'impazzata, veloce, più forte dei beats della musica sparata a mille sopra le loro teste, di fianco alla loro persona. Con la fronte imperlata di sudore leggero, Nikolaj sorrideva. Era uno squarcio sbagliato, intossicato, che non avrebbe dovuto esistere eppure troneggiava trionfante sulle labbra carnose come a dire visto, sono felice! Si chinò su di lei, faceva da scudo con la schiena un po' ricurva alla marea di persone che saltavano intorno a loro, il palmo della mano destra si posò aperto contro il punto più basso della sua schiena, ne sentì la pelle scoperta e sudata contro. Fece pressione, la spinse contro il suo corpo, le dita della mano libera si posarono a stringere lievemente il collo della ragazza mentre cercava il sapore della sua bocca con la propria. « Sei felice, Fae?» Si era allontanato di qualche centimetro, una risata ubriaca e innaturale che gli sgorgava dalla gola mentre continuavano a muoversi in mezzo a dozzine di altre persone.

     
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    Nikolaj Mordersønn era l’ombra sotto la quale si era nascosta per diverso tempo, credendo che circondata da quel buio mai nessuno avrebbe potuto vedere i suoi colori macchiarsi della pece che intorno a loro seminavano, giorno dopo giorno, a grandi pennellate. Come degli artisti dall’anima sporca, tentavano Fae e Nikolaj, di dipingere ciò che sentivano di avere dentro. L’uno la spalla dell’altra, e viceversa, si lasciavano andare ad esperimenti nuovi, sensazioni che non avrebbero di certo dimenticato troppo facilmente. Si erano rincorsi nel buio, ritrovandosi spesso insieme con il viso rivolto verso il basso, su quel lugubre e profondissimo burrone immaginario, pronti però a fare quel tuffo nel vuoto, tenendosi per mano. Lei ricordava di aver riso senza un motivo in compagnia di quel ragazzo che le stava ora dinanzi e che, dopo tutto quel tempo, avrebbe dovuto forse essere uno sconosciuto. Delle risate sprigionate da sensazioni forti, estreme, che l’avevano però altrettanto intristita, a seconda del mix di pensieri che sconvolgevano la sua pelle candida durante una di quelle giornate in cui sì, sapeva di essersi semplicemente distrutta. Aspirare col naso, lo aveva saputo fare bene. Ingoiare piccolissime pillole come quella che manteneva nella tasca degli shorts quella sera, anche quello aveva saputo fare benissimo. Erano stati professionisti in questo, lasciando che quei gesti e quelle sensazioni si imprimessero in loro, pronti per farne uso durante le emergenze di vita dalle quali erano sorpresi ogni tanto. Quella, d’altronde, lo era sicuramente. «Giusto la sua potresti maneggiare. Per la mia, non ti basterebbero due mani e una bocca.» sentenziò Niko, lanciando uno sguardo disinteressato al giovane privo di sensi, il quale mostrava ancora beatamente il proprio pene al pubblico. Ridacchiò brevemente, Fae, chinando il capo e sollevando appena le sopracciglia, prima di aspirare ancora una volta. «Se i ricordi non mi ingannano, tempo fa penso di esserci riuscita benissimo senza aver bisogno di aiuto… oh, forse ti sto confondendo con qualcun altro?» disse Fae, socchiudendo appena le palpebre con fare interessato, come se fosse alla ricerca dei propri ricordi chiusi a chiave nella mente. Ricordò della volta in cui si erano persi l’uno nell’altra, sebbene fosse tutto confuso per via delle sostanze stupefacenti che avevano regolato il loro battito cardiaco e il respiro affannoso. Proprio come in quel momento, mentre Niko si abbassava per avvicinare le proprie narici allo schermo piatto del suo smartphone, Fae riconobbe quei piccoli particolari che anche diversi anni prima aveva avuto modo di notare, come la curva che prendeva la sua schiena nel momento in cui si chinava, incredibilmente, nello stesso modo di anni prima quando, in attesa che giungesse anche il suo turno, aveva vagato con i propri occhi chiari sulla figura esperta di Niko, il quale le aveva mostrato lati del vivere che lei ancora non aveva pienamente conosciuto.
    «Non dovresti prenderti la libertà di esporre un soggetto senza il suo consenso, sopratutto se egli non fa più parte del tuo presente.» la voce tagliente di Niko giunse alle orecchie di Fae quasi come un’accusa. Eccoli di nuovo lì, entrambi, riportando insieme i pezzi di un passato che, tempo prima, pensavano sarebbe divenuto forse futuro, forse semplicemente un delirio lungo il tempo di distruggersi definitivamente. Sbatté appena le palpebre, fae, serrando la mascella e chinando il capo di lato, mentre gli occhi continuavano a fissare il riflesso di Nikolaj nello specchio. «La prossima volta allora ti mando una mail o chiamo in ufficio, magari prendiamo un appuntamento per firmare due carte.» scherzò lei, un angolino delle labbra spiegate leggermente all’insù in quello che, tutto sembrava, tranne che un sorriso divertito. Dentro il petto, il peso di una lieve malinconia iniziava a prendere spazio fra le costole, così come i ricordi di lui che aveva confinato con estrema cautela in un angolo remoto della sua testa, accanto a quelli di se stessa in una versione più sbarazzina e incontrollata, così come lui le aveva insegnato ad essere. Non aveva idea del perché tutto fosse finito così facilmente, del perché dopo essersi allontanati a vicenda, nessuno dei due avesse fatto qualcosa per tornare indietro, per riaprire quella porta che, con furia, sembrava essersi semplicemente chiusa, dividendoli e lasciando che entrambi vi dessero le spalle. Allora perché, dopo quei lunghi nove anni, sembrava che ogni cosa spingesse per riprendere la vecchia forma che un tempo aveva avuto? Perché Nikolaj aveva deciso di presentarsi lì, proprio quella sera, fra tante? La mano di Niko, quella che manteneva lo smartphone in sua direzione, stava lì a tenderle il solito trabocchetto: ci cascò volontariamente, Fae, pronta a lasciarsi andare ancora una volta, come ai vecchi tempi. Fu un solo attimo, e la polverina bianca sparì al contatto con la sua narice.
    «Amore, felicità...sono parolacce per le mie orecchie, concetti sopravvalutati.» rispose Nikolaj alle parole della ragazza arcobaleno, la quale aveva colto nel suo sguardo quella rabbia che lei riconosceva essere sua. Sapeva benissimo quanto quella risposta potesse essere reale per lui, eppure, era anche certa del fatto che l’anima di Niko desiderasse quelle due cose, la base dei sentimenti e di ciò che avrebbe sempre portato avanti il mondo e i suoi rapporti umani. Era la stessa tristezza e rabbia che provava lei nel sapere, dentro di sé, che no, non c’era ancora nulla di tutto ciò nella sua vita. «Mi conosci, Fae. Non ti farei mai pagare per divertirti con me, non sono la tua puttana.» continuò Nikolaj, le labbra ben definite e schiuse, il viso magro poco distante da quello di lei. Lo guardò sorriderle appena, divertito, mentre dalle labbra fuoriuscivano parole, pronte a stuzzicarsi le une con le altre, come tempo prima era accaduto. Aveva sempre provato a non fargliela passare liscia, cercando di tenergli testa, provandogli che esisteva ben altro oltre il suo naso appuntito, e lo aveva fatto sempre restandogli accanto, sempre provando a ficcarci un poco di leggera e pura ironia. Era stata bene accanto a lui, come se avesse da sempre saputo che lui non avrebbe mai alzato un dito contro di lei, contro le sue parole, contro il suo esuberante modo di essere. Gli aveva donato un po’ di sé stessa, Fae, cercando di mostrargli ciò che i suoi occhi vedevano, come essi guardavano; gli aveva dimostrato che, dietro quella chioma estroversa e ricca di colori, c’era una personalità complicata forse quanto la sua, alla ricerca di un posto nel quale ripararsi, nel quale provare esperienze nuove, che l’avrebbero trascinata via dal caos che le si piantava nella testa, di notte, quando pensava e ripensava a come sopravvivere. Alcune volte, quando aveva ripercorso mentalmente gli attimi trascorsi assieme a Nikolaj, si era sentita in colpa. Era stata sì, coraggiosa, nello sbattere la porta in faccia a quella che stava per diventare in sua compagnia, eppure, l’idea di aver lasciato lui dietro, di non aver fatto nulla per trascinarlo nella luce dove lei avrebbe voluto fare ritorno, le aveva lacerato il cuore per diverso tempo, portandola a chiedersi cosa sarebbe potuto accadere se solo non avesse lasciato indietro la sua mano. E poi, naturalmente, era divenuto troppo tardi per guardarsi indietro, alla ricerca del ragazzo. Restò quindi ancora in silenzio, in attesa che lui potesse dire qualcosa, che lui potesse ribattere e dire che no, non era vero ciò che lei aveva appena affermato e che mai, in tutta la sua vita, avrebbe dato a lei quel peso. Abbassò lo sguardo Fae, per qualche istante, inumidendosi le labbra con la lingua, ferita dal suo silenzio. Un senso di colpa che con Nikolaj non aveva nulla a che fare ma che, sostanzialmente, si scontrava contro i ricordi che aveva di se stessa e della persona che era stata.
    Si ricompose, occupandosi brevemente del tipo steso per terra e cercando di ridargli un po’ di contegno, coprendone le parti intime, prima di fare strada a Niko, finalmente fuori da quei bagni puzzolenti, con la speranza che le cose avrebbero potuto prendere, magari, pieghe diverse rispetto al loro passato. «Sempre uno più di te.» accettò lui la sfida di lei, seguendone i passi e restandogli vicina, senza però neanche sfiorarla. Prese a sentire, la ragazza dai capelli arcobaleno. Ogni cosa sembrò divenire più compressa e allo stesso tempo lontana, alternandosi in un vortice di sensazioni che sapeva ben riconoscere. L’effetto della cocaina iniziava il proprio corso, percuotendo i suoi muscoli e il suo respiro, così come il battito cardiaco appena più veloce del normale. Le foto lungo i corridoi sembrarono più significative di prima, quasi a volerle ricordare di essere a casa, di potersi lasciar andare ancora e ancora. Lasciò che fosse Niko ad avere la possibilità di rendere omaggio al passato, attendendo che ordinasse il primo giro anche per lei e godendosi il dejavu che spesso aveva sperato di poter avere.
    Uno shot dopo l’altro, il gioco iniziava a prendere una forma tutta sua, così come le luci del Olten che carezzavano i loro profili, nascondendo e mostrando ciò che non era loro possibile scegliere. «Tubo sbagliato.» bofonchiò nel chiasso, Niko, dopo aver tappato con il quinto shot. Tossì per qualche secondo, mentre Fae lasciava che una risata divertita si sprigionasse dalle sue labbra, ormai ricurve all’insù e pronte a mostrargli il suo più genuino sorriso, spinta dall’alcool e dalla cocaina in circolo. «Confessione.» sentenziò lei, sollevando appena il mento in sua direzione e facendo un gesto del tutto naturale al bartender dietro il bancone, pronto a portare loro un altro giro di sei shottini. «Nove anni sono tantissimi, Fae, me ne rendo conto.» iniziò Nikolaj, sollevando il proprio sguardo da lei per spostarlo intorno a loro, laddove la folla ormai sembrava essere una massa indistinta e compatta, la quale si muoveva all’unisono calpestando con vigore i piedi su quel ritmo frenetico che a lei piaceva tanto. Lo avvertiva entrarle nelle vene, insieme al sangue, insieme all’adrenalina, insieme alla paura, quella di non avere più niente, di perdere tutto. Voleva l’estremo di tutto, Fae, e quella musica martellante le faceva credere che non dovesse lottare per sentirsi piena di quelle sensazioni, mentre la testa vorticava lentamente, come in un sogno lucido e colorato. «Eppure non credo di essere cambiato di una virgola. Le circostanze intorno a me sono mutate, mio nonno è morto e sono a capo di un monopolio dell'economia norvegese. Intorno a me tutto gira ma io resto fermo, immobile, sospeso in un'istantanea come quelle che scatti tu.» si aprì a lei, Nikolaj, cercando in qualche modo di attenersi al gioco, al patto stretto poco prima. Poi, lo sguardo nuovamente posato sul viso di lei, il bicchiere stretto fra le dita; una situazione, quella, che avevano vissuto miliardi di volte; una confessione che, malgrado mai pronunciata a voce alta, Fae aveva già fatto sua. «Non sono un tipo cha cambia, mi sta bene così.» continuò lui. Fae non lasciò spazio alle parole, afferrando in mano il quinto bicchierino e sollevandolo in sua direzione, dinanzi al volto. «Stronzate.» disse, sollevando appena le spalle e fissando lo sguardo in quello di lui, cercando la verità nascosta dietro quelle iridi chiare che per tanto tempo non aveva avuto modo di scrutare. Bevve il sesto scottino con lui ed andò immediatamente ad afferrare il settimo, la fila dei successivi già pronta e in bella vista sulla porzione appiccicosa di bancone fra i loro corpi. Bevve per prima e il liquido amarognolo le andò appena di traverso, provocandole un leggero pizzico alla gola. «Tocca a te, allora?» Niko non perse tempo, rivolgendosi a lei e attendendo dalla ragazza arcobaleno una delle sue confessioni. Fae sorrise, scuotendo il capo e posando lo sguardo sulle luci ferme al soffitto, le quali vorticavano illuminando il resto della sala altrimenti dispersa nel buio. «Era una macchina blu, quella che si è andata a schiantare contro il guardrail ventidue anni fa. Una macchina blu come un’altra, nulla di speciale. Sono cambiate un sacco di cose da quel giorno, ne sono accadute tante bellissime…» si fermò, tornando a posare lo sguardo su di lui, l’espressione stranamente seriosa, malgrado le parole appena pronunciate. «…eppure, ogni notte da allora, rivedo ogni cosa e penso che sarei dovuta morire in quell’auto.» gli confidò all’orecchio, avvicinando le proprie labbra al suo viso e lasciando che la sua bocca si chiudesse nuovamente, prendendo una piega più ricurva, più triste del solito. Odiava ammetterlo, odiava mostrarsi debole e permettere a qualcuno di conoscere il marcio che aveva dentro. Allungò una mano verso l’ennesimo shot, afferrandolo e portandolo a scontrarsi contro quello che Niko stringeva nella mano. Avvicinò il vetro alle labbra, bevendone il contenuto frettolosamente e riportando sulla superficie del bancone il bicchierino ormai vuoto. Si sentiva leggera e pesante, come se venisse strattonata dal tempo e dalla musica, che pregava i due di lasciarsi andare, di ballare senza attendere il domani, senza preoccuparsi del dopo. E poi un’altra confessione, parole prive di ossigeno, così come le emozioni che mantenevano entrambi in uno stato di squilibrio perenne. Camminavano su un filo, Fae e Nikolaj, provando a destreggiarsi in quella vita che neanche sapevano da dove fosse piovuta loro addosso. Chi aveva scelto per loro? Chi aveva deciso che sarebbero diventati? Esistevano forse Dei, esisteva un destino che decideva al posto loro? Come erano arrivati ad essere ciò che erano, a tirarsi dietro il peso delle responsabilità che, invece, avrebbero voluto a tutti i costi lasciare andare. Si erano costruiti un modo tutto loro, all’interno del quale erano in pochi a riuscire ad entrare. «E se ti dicessi che non sono mai risalito, che sono dove ci siamo lasciati l'ultima volta?» sussurrò Nikolaj, facendo una piccola pausa prima di andare oltre, prima di mostrare a Fae il posto in cui lei lo aveva lasciato, tempo prima. «Sono ancora lì. Sono sott'acqua, Fae, e non riesco a respirare.» fu un sussurro incredibilmente forte; le parole si fiondarono nel petto di lei sistemandosi sul suo stomaco come un macigno impossibile da spostare. Si allontanò da lui, un’espressione corrucciata troneggiava sul suo viso disfatto, mentre quei capelli arcobaleno provavano ancora una volta a distinguersi nel buio. E quella sensazione, quel senso di colpa enorme era nuovamente lì, accanto a lei: aveva il nome di Nikolaj. «Sono lì con te, Nikolaj. Non mi vedi?» sussurrò lei portandosi le mani al petto, premendo contro di esso. Cos’era cambiato, poi per davvero? Erano solo un po’ più cresciuti rispetto a nove anni prima, eppure l’autodistruzione stava loro accanto e si divertiva nel guardarli giocare col fuoco.
    Si lasciò trascinare al centro della pista, accompagnando i suoi movimenti con i propri, avvertendo il corpo di Nikolaj contro il suo, appena più minuto, sebbene non ci fosse una grande differenza d’altezza fra i due. Le casse tuonavano una musica che sembrava cullare ogni movimento, ogni passo. Chinava la testa da un lato e poi dall’altro Fae, cercando di muoversi al ritmo di ciò che sentiva, e cioè molto più della semplice musica. Sentiva gli occhi di Nikolaj puntati su di sé; sentiva il battito cardiaco più forte delle note, il sangue caldo, i capelli bagnati di sudore alla radice, la schiena scoperta e le gambe frenetiche; sentiva di non essere sola, sentiva di aver ritrovato un compagno che da tempo credeva di aver perso, di aver lasciato indietro, nel buio. E non capiva, Fae, se fosse stato lui a raggiungere la sua luce o se lei aveva compiuto qualche passo indietro, nascondendosi nuovamente sotto la sua ombra. Si voltò a guardarlo, il viso poco distante dal suo, gli occhi colmi di movimento, esattamente come i propri. Un lieve rossore ne circondava le iridi chiare di entrambi, mentre le mani sembravano voler cercare un contatto. Si avvicinò a lei, Nikolaj, premendo il proprio corpo contro il suo e lasciando che le labbra si incontrassero, brevemente. «Sei felice, Fae?» le domandò lui, ridendo subito dopo. Sollevò lo sguardo al soffitto, alzando anche le mani e congiungendole sopra la propria testa. Serrò gli occhi, abbandonandosi con il corpo ancora alla musica mentre sulle labbra si apriva un dolce sorriso. «La felicità è solo in alcuni attimi.» sussurrò, non curandosi del fatto che lui potesse non udire ciò che stava dicendo. «Questo è un attimo felice, sì.» affermò, spinta più che altro dall’alcool e da ciò che poco prima lui le aveva permesso di sniffare. Era un tutt’uno con la musica, con le luci, con Nikolaj, e in quel momento andava tutto bene. Si sarebbe risvegliata, avrebbe smaltito la sbornia e la cocaina le avrebbe lasciato i segni sul volto, nello stomaco. Conosceva bene quella sensazione di perdita e no, non sembrava preoccuparla, in quel momento. «Però mi aspettano, li sento dietro le spalle…» continuò, riaprendo gli occhi e puntando lo sguardo su di lui. Non attese che lui ponesse delle domande, che le chiedesse cosa. Spiegò istintivamente di cosa stesse parlando. «Mi scrutano, sono i momenti in cui sarò infelice.» affermò, lasciando che quel sorriso non si spegnesse e provando a restare lì dov’era, nel suo attimo felice.
    Lo baciò di nuovo, lasciando che la propria lingua danzasse on la sua, un ritmo tutto diverso da ciò che sembrava incalzare intorno a loro. Portò le proprie mani calde sul suo viso, carezzandone le guance e spingendolo appena contro il proprio, gustando il sapore delle sue labbra carnose. Fu un attimo, prima di afferrarlo per mano e trascinarlo via dal centro di quella pista; ripercorsero i corridoi, passando dinanzi a quelle foto. Andava di fretta, Fae, avvertendo nelle gambe <de>e pure in mezzo un calore che conosceva bene, quello che le avrebbe permesso di lasciarsi andare, di condividersi con qualcun altro.

    Si muoveva sinuosa, Fae, sopra di lui.
    Stretti in quello spazio angusto della VW Golf nera della ragazza -tutto il contrario del suo aspetto, decisamente più colorato- Fae riusciva comunque a danzare assieme al corpo di Nikolaj, ma una musica decisamente diversa da quella che fino a poco prima li aveva cullati. Di sottofondo, oltre ad un lontanissimo rumore di bassi proveniente dall’edificio lì vicino dal quale erano appena fuggiti, le uniche note musicali erano composte da gemiti e respiri che tra loro si scambiavano. Curvò la schiena, Fae, mandando in avanti il bacino e posando le mani sulle spalle di Nikolaj, aggrappandosi alla sua pelle e lasciando che le unghie facessero pressione su di essa. Chinò il capo all’indietro, lasciando che l’arcobaleno si trasformasse in una cascata di colori lungo la sua schiena magra. La pelle scoperta, priva di abiti, mostrava a lui ogni piccolo particolare, ogni voglia quasi invisibile e i tatuaggi che, uno dopo l’altro, si susseguivano come una mappa stellare. Il battito cardiaco sembrava volerne sempre di più, voler andare sempre più veloce, così come il respiro che, affannoso, si faceva più profondo. Sensazioni, quelle, che conosceva bene, soprattutto se sotto effetto di droghe. Odiava ammetterlo, ma ciò che avvertiva era qualcosa di inspiegabile, e Niko ne era attratto tanto quanto lei proprio perché sapeva di cosa si trattasse, di cosa il corpo necessitasse.
    Non disse nulla, Fae, ma continuò a muoversi su di lui in cerca di un piacere comune.

    “We need to be alone together, together
    You're oxygen, I can breath now, I can breath now
    I'm alive”


    «Respiri ora, Nikolaj?» gli domandò ironica, in un sussurro, avvicinando le proprie labbra all’orecchio di lui e ridendo appena subito dopo. Tenne le mani strette attorno alla sua carne, una sul collo e l’altra dietro la nuca. «Siamo nella valle delle ombre, io e te.» sussurrò ancora, muovendosi su di lui e cercando di raggiungere quel piacere che avvertiva sempre più vicino. Schiuse appena le labbra, serrando invece gli occhi ed inclinando il capo all’indietro. Si mischiavano l’uno con l’altra, evitando di pensare a cosa tutto ciò avrebbe comportato, a cosa ne sarebbe stato, una volta tornati sobri. Gli estremi, erano loro. Irrefrenabili, incontenibili, sopravvissuti.
     
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    «Ho vaghi ricordi a riguardo. Non deve essere stato così memorabile.» La bocca diceva una cosa che lo sguardo contraddiceva, assottigliandosi alla ricerca di un ricordo specifico, indelebile, sul quale le iridi si strinsero impercettibilmente, come se lo stessero rivedendo sciogliersi di fronte a loro. Il tempo si snodava, andava indietro, si riallacciava alla velocità della luce. Passava stanze vuote, soffitti bianchi, aghi acuminati, li superava senza indugio, nessun rallentamento; un volto di anziano, un osso spezzato, alla nota profonda di un tasto di pianoforte la diapositiva si fermò, un guizzo negli occhi di Nikolaj che si soffermavano in contemplazione del momento le cui graffianti parole avevano cercato di demolire. Alla Fae del presente in carne e ossa si sovrapponeva quella di nove anni prima, uguale ma diversa. Si stagliava lì, nel mezzo del lurido bagno come se fosse una di loro, un fantasma entrato in punta di piedi nel presente. Una quarta figura si aggiunse presto a loro, in quel connubio di prima e dopo impossibile da assoggettare alle regole spazio-temporali. Era alto, un'ombra scura che si chinava sulla Fae-ricordo e la baciava fino ad unircisi, un'unica grande ombra fatta di corpi incastrati come pezzi di uno stesso puzzle ritrovatosi dopo lungo tempo. Studiò quella scena da spettatore esterno, deus ex macchina intento a cogliere i significati segreti dell'universo. Erano ombre, in quella diapositiva di vita, che unite nell'atto estremo di unione carnale divoravano la poca luce rimasta in loro fino a diventare, nel momento culmine dell'amplesso, un unico buco nero. Nonostante ci provasse, la mente gli disobbediva, salvaguardava certi ricordi come fossero reliquie. Ricordi come quello dell'unica notte che lui e Fae avevano passato insieme. Li sottraeva a sé stesso come se fosse un'entità separata, un essere autonomamente pensante che percepiva di doverli proteggere dal rancore di Nikolaj, custodirli per quando sarebbero tornati utili. E allora avevano adottato una tattica efficace, i ricordi,copiandola dal mondo naturale della fauna si fingevano morti, sepolti, perduti per sempre per poi tornare a galla, mossi dalla marea del tempo, sovrapponendosi con forza alla realtà. Erano le droghe che aiutavano il processo, abbassando considerevolmente le mura di cenere dietro le quali Nikolaj si era protetto e dietro cui aveva rinchiuso il suo passato.
    Ma forse, a certi fantasmi Niko aveva imparato ad affezionarcisi, come quelle passioni tossiche delle quali non si può fare a meno. «La prossima volta allora ti mando una mail o chiamo in ufficio, magari prendiamo un appuntamento per firmare due carte.» In un velocissimo fast forward, quelle parole riportarono l'uomo al presente, lo sguardo opaco che riacquistava lucidità e metteva a fuoco la Fae del presente, le tette disegnate sulla maglietta che ammiccavano fosforescenti. Scrollò le spalle, deciso a ignorarla. Non gli importava, non era la foto in sé che lo infastidiva, bensì pensare che qualcuno potesse aver visto in lui qualcosa che, di fatto, non esisteva. O forse era rimasto turbato nell'essersi scorto con una bocca, delle labbra piene, un mento con un filo di barba, in parole povere con dei tratti umani come tutti gli altri. Forse temeva in un ritratto di Dorian Grey sul quale i peccati si manifestavano in tutto il loro orrore.
    Finché fossero rimasti in quel bagno, erano al sicuro, come se la presenza di una terza persona nella stanza - cieca e svenuta al suolo ma pur sempre una presenza - potesse in qualche modo evitare l'inevitabile, fermare con la sua rete protettiva la valanga di detriti che minacciava di piombare sulle loro teste. Avrebbe potuto scuotere il capo, rifiutare, aveva una riunione importante la mattina seguente, doveva andare a casa, riposare, dormire su tutto ciò che sarebbe potuto accadere ma che aveva scampato. Se fosse stato un uomo prudente, assennato, felice, Nikolaj si sarebbe tirato indietro. Magari un'altra volta, avrebbe detto con un sorriso nostalgico mentre si lasciava indietro il locale e la ragazza arcobaleno per sempre. Sarebbe stato meglio? Forse sì, forse sarebbe stato l'errore più grande della sua vita. Fatto sta che l'uomo che Fae aveva di fronte non possedeva nessuna delle qualità di quello sopra citato. Non era prudente, il senno l'aveva perso con Jakob e non sapeva neanche dare un significato alla parola felicità. Nikolaj non poteva tirarsi indietro, mancare una sfida lanciata, né aveva la forza di resistere al richiamo della perdizione che sapeva attenderli al di fuori della porta scalcinata, così dolce solamente se condivisa con Fae. La poteva quasi sentire premere, spingere contro i cardini sbilenchi, cercare una via di accesso per raggiungerli. Aprì la porta. Mordersonn non si nascondeva. Un vuoto, un salto, un lasso di tempo mandato giù tra uno shot e l'altro, impresso nelle risate delle loro bocche e nella malinconia dei loro occhi. L'atmosfera, li fuori, era sembrata comprimersi su di loro, addensarsi sui corpi come una seconda pelle che li spingeva ad avvicinarsi, a cercarsi. Durante quei primi shottini, Nikolaj non aveva distolto lo sguardo da Fae. Voleva guardarla, analizzare tutto ciò che si era perso in quegli anni, constatare quanto la curva del suo naso gli era mancata. Era tutto lì, come nove anni prima, eppure qualcosa era cambiato, gli sfuggiva quando desiderava tanto coglierlo. E così continuava a fissarla, sperando di intercettare tutto di lei, riconoscerla ed essere riconosciuto. Fu quella necessità a spingerlo ad iniziare quel gioco pericoloso, un'arma a doppio taglio ai cui capricci erano entrambi soggetti. La ragazza multicolore era l'unica a cui si era un minimo mostrato in passato, sfoggiando ciò che era senza doversi aspettare il peso dei suoi giudizi. Due mondi diversi, due persone unite da una voragine simile, che al tempo sembrava incolmabile e che Nikolaj non aveva mai riempito. Mentre la guardava, si trovò a ripercorrere le ragione che lo aveva spinto a convincersi di odiarla a tal punto da non voler mantenere nessun tipo di rapporto. Era finito così, dal giorno alla notte, un battito di ciglia e la tempesta di era placata, lasciandolo zuppo e, di nuovo, solo.

    Si era sentito strappare via qualcosa di suo, la parte che lo teneva a galla durante la tormenta e Nikolaj aveva rivissuto tutte le perdite di cui aveva ricordo. Jakob, i genitori, Sofie, Frida, Aleksej. Per colpa di Fae aveva dovuto sopportare di nuovo l'abbandono di tutti loro, ingigantito dalla solitudine in cui l'aveva lasciato. Si era voluta salvare, c'era mancato davvero poco ma Fae aveva fatto appena in tempo a tirarsi indietro prima che fosse troppo tardi. Nikolaj non era un cretino, aveva capito alla perfezione le ragioni che l'avevano spinta ad andarsene. Il problema è che, come la gran parte delle cose brutte che gli capitavano, non le aveva accettate anzi, l'aveva rinnegata, sentenze, rancori, male parole erano state riservate per lei che l'aveva lasciato indietro senza neanche provare a portarlo con sé.
    Non avrebbe accettato, Nikolaj lo sapeva e probabilmente l'aveva capito anche Fae. Non voleva essere salvato, o almeno così si era sempre imposto di credere. La realtà? Nessuno ci aveva mai provato davvero, con pazienza, a prenderlo per mano e condurlo in un posto migliore, lontano da tutto quell'abuso a cui ricorreva per riempire il vuoto che aveva intorno che, lo sapeva, si era creato con le sue stesse mani. L'aveva detestata per anni, costringendo il ricordo dei suoi colori ad un angolino remoto della sua testa, appositamente in bianco e nero.
    Ora, nel guardarla bere, Nikolaj capì quelle ragioni che per tanto tempo aveva combattuto, accecato dal dispiacere e dalla solitudine. Per questo riappacificarsi interiormente Nikolaj si aprì a lei, con qualche impaccio ma senza riserve. «Stronzate.» La risposta causò uno squilibrio tra loro, come se Fae avesse capito qualcosa di lui che Nikolaj ancora ignorava. Gli era sempre piaciuta, questa sua abilità, nonostante riuscisse a metterlo a disagio, a farlo sentire mancante di qualcosa di essenziale che non era sfuggito agli occhi della ragazza. Era spesso così, tanto attento ai dettagli quanto completamente disinteressato a quelli che non reputava utili, come tutto ciò che riguardava la sfera dei sentimenti.
    Fae era sempre stata più brava in questo, sapeva leggere le persone, sembrava capirle, o forse riusciva a farlo solamente con lui.
    «Stronzate?» ripeté stupidamente, incredulo e confuso, le pupille dilatate che incontravano quelle di lei, due dischi UFO neri. In realtà era sempre stato geloso del cambiamento che Fae era riuscita a fare, la svolta che l'aveva allontanata da lui e dal campo bombardato che sembrava essere ormai la vita che conducevano insieme, anni prima. «Non so se potermi fidare. Sembra che il cambiamento, la svolta che hai voluto quando hai deciso di andartene, non ti abbia portato troppo lontano.» Sentenziò con asprezza, indicando gli shot e alludendo alla cocaina mentre mandava giù un'altro bicchierino. Menzionando "l'abbandono" di Fae voleva ferirla o forse, inconsciamente, voleva farle capire quanto avesse ferito lui. Si morse forte l'interno della guancia. Come spesso accadeva, l'uomo si pentì della spinta con cui aveva pronunciato quella sentenza. Certi sentimenti sono difficili da digerire, e accettare la loro esistenza è solamente il primo passo nel processo di guarigione. «Era una macchina blu, quella che si è andata a schiantare contro il guardrail ventidue anni fa. Una macchina blu come un’altra, nulla di speciale. Sono cambiate un sacco di cose da quel giorno, ne sono accadute tante bellissime…eppure, ogni notte da allora, rivedo ogni cosa e penso che sarei dovuta morire in quell’auto.» Rimase in silenzio, la voce di Fae che si perdeva nel rumore tutt'intorno, restandogli comunque impressa dentro. Nella sua totale negazione di emozioni, Nikolaj finiva per dimenticarsi di quelle degli altri, preferiva tralasciarle, oggetti di ingombro e dispensatori di fatiche e false speranze. Non avevano mai parlato molto, Nikolaj aveva in qualche modo visto e abbracciato il dolore che Fae si portava dietro senza però mai chiederne l'origine. Un po' per non invadere la sua privacy, un po' perché incapace a destreggiarsi con i problemi propri e altrui, Nikolaj era sempre rimasto in silenzio, senza neanche usufruire dei fascicoli custoditi nella prigione-istituto Mordersonn, che riportavano informazioni sulla gran parte dei cittadini di Besaid. Vi aveva ricorso spesso negli anni, sapere quanto più possibile su chiunque era una dote necessaria nel suo lavoro e non solo. Aveva sbirciato attentamente la vita delle donne che l'avevano interessato per saperne i punti deboli, le mancanze e le necessità, e tutto ciò che gli serviva per arrivare al suo scopo. Eppure non aveva mai ricercato informazioni sul passato di Fae, nonostante sarebbe bastato sfogliare qualche articolo di giornale risalente a quando Niko era troppo piccolo per guardare i telegiornali. Sapeva che c'era stato un incidente, glie l'aveva detto lei stessa anni prima, ma non molto di più.
    Non sapeva se fosse per rispetto, un tacito patto sancito tra i due, o piuttosto la consapevolezza dell'inutilità delle cause, dei perché, delle motivazioni che per tutti gli altri sembravano così importanti. In quel momento della sua vita Nikolaj non aveva interesse che nel dolore di Fae, nel quale poteva rifugiarsi con il proprio. Per loro c'erano detriti, guardarli venire giù insieme era ciò che facevano all'epoca, e le macerie erano l'unica cosa che restava quando tutti i perché erano andati perduti. Anche dopo che le loro vite avevano preso strade diverse, Nikolaj non aveva mai tirato fuori il fascicolo della ragazza, non per vendetta, non per ripicca. Per questo quella confessione lo colse di sorpresa, destabilizzandolo. Corrucciò la fronte, le sopracciglia leggermente aggrottate, segno che non gli piaceva quello che stava sentendo.
    «Se potessi tornare indietro, sceglieresti davvero di morire?» Non era forse la domanda da fare, d'altronde il tatto non era mai stato il suo punto forte. Ma l'alcool lo spingeva ad interessarsi a certe questioni che da sobrio avrebbe lasciato correre via, come cosa potesse spingere una persona a desiderare di morire al posto di un'altra. L'amore, era la risposta giusta. Lui sarebbe morto per Jakob? Se avesse potuto tornare indietro nel tempo e scegliere, avrebbe davvero deciso di restare su quel lettino e lasciare che il gemello uscisse dalla sala operatoria? Non ne era sicuro, e in quel momento si sentì sbagliato. Lo amava, Jakob, ma forse non abbastanza da sacrificare la sua preziosissima persona. C'era decisamente qualcosa di sporco in lui. Rimase pensieroso fino a quando quel malessere generatosi in lui non lo spinse a confessarsi di nuovo, nonostante avesse mandato giù lo shottino senza problemi.
    «Sono lì con te, Nikolaj. Non mi vedi?» Quelle parole gli rimasero stranamente addosso, nonostante la musica a tutto volume, nonostante le dozzine di persone che avevano intorno, la voce di Fae gli si era impressa a fuoco nelle ossa insieme a quello sguardo, al modo di premersi le mani contro il corpo come a voler sottolineare la sua presenza. Aveva annuito, qualcosa di simile alla commozione che gli si insinuava dentro «Sì. Ti vedo, più colorata che mai.» E non le avrebbe staccato le iridi di dosso per tutto il tempo di quella folle danza, così lontana dalla comfort zone a cui Nikolaj era abituato. Ma i gusti musicali non contavano più, come non contava chi avesse lasciato chi, le ragioni, le scuse, i risentimenti o i sensi di colpa, la droga, l'alcool, le rovine che si portavano dietro. Voleva sentirla ora, gli sembrava tutto ciò che contasse davvero, e lo faceva mentre gli ballava contro, le movenze esperte e sinuose, Nikolaj che non poteva fare a meno di toccarla dappertutto, dovunque riuscisse ad arrivare. In quel momento, da lei apprese che la felicità è fatta solamente di attimi, istantanee che sfuggono via, perse nel minuto successivo in cui la vita scorre inesorabilmente. Provò a pensare a l'ultimo istante in cui si era sentito felice, e la sua mente ubriaca sostò per una frazione di secondo su Lucille, per poi sfuggirle di nuovo, attratto dal colore dei capelli di Fae che gli svolazzavano di fronte. L'aveva stretta, la schiena della ragazza contro il petto e le braccia che la circondavano, una gabbia per quell'uccellino tropicale che non voleva gli sfuggisse di nuovo via. «Presa. Ecco intrappolato questo mio attimo di felicità.» Le disse all'orecchio, lasciandola andare poco dopo con una risata infantile, concedendole una maldestra, ubriaca piroetta.
    Ci sono persone che non smetteranno mai di piacersi anche se non potranno mai viversi accanto. Sono mine vaganti, vulcani che sembrano spenti e poi esplodono ancora, senza preavviso. Ci sono persone destinate a incontrarsi, a continuare a pensarsi per sempre ma non destinate a stare insieme.
    Fu un attimo, un battito di ciglia che da quel bacio li catapultò nell'auto di Fae, così stonante con i colori che si portava addosso.
    Non ricordava come vi erano giunti, dove fosse parcheggiata, chi si fosse spogliato per primo. L'ultimo ricordo che aveva era la mano di Fae che si stringeva alla propria e lo trascinava via, con ancora il sapore della sua bocca sulla lingua mentre le barcollava dietro. Poi, solamente il calore che lo avvolse immediatamente non appena la ragazza arcobaleno si era spinta sopra, addosso a lui, il sapore della pelle sotto le labbra mentre la baciava, dal collo alle spalle, dal piccolo tatuaggio di fiori sulle costole all'incavo delle clavicole e al seno che si era lasciato dietro - accartocciato da qualche parte sul sedile posteriore-la sua copia fosforescente e che ora Nikolaj stringeva, piccolo e sodo. Nient'altro.
    Come sempre, parlavano poco, ognuno concentrato sulla propria voragine, con l'altro che lo teneva stretto e in salvo, senza bisogno di tante parole, ma fidandosi delle reazioni del corpo dell'altro, seguendone i movimenti, il guizzo di carne e muscoli frementi, quando per comprendersi bastava ascoltare i respiri e i gemiti dell'altro. C’era sempre stato uno spazio comune tra di loro, i cui confini non erano ben delineati, dove sembrava non mancare nulla e dove l’aria pareva immobile, imperturbata. Quello spazio l'avevano riempito una volta prima di allora, dopo la quale tutto era finito. In quel momento però, Nikolaj non aveva testa per pensare alle conseguenza dei loro gesti, di cosa sarebbe successo una volta raggiunto il culmine di quel piacere che entrambi ricercavano l'uno nell'altra. Si era piegato in avanti, le labbra che si chiudevano sul suo seno, esperte e pratiche, ma sempre più impazienti, il cuore che sembrava pompare a ritmo dei loro movimenti e della droga in circolo. Una mano dietro la schiena, l'altra sul suo collo, Nikolaj assecondava il corpo di Fae, spingendolo contro di sé ad ogni movimento sempre di più, più in profondità, più forte, più veloce. Voleva sentirsi perso insieme a lei, ritrovarla. Sentiva il bisogno di abbandonare il proprio peso sul corpo di qualcun altro, come se il contenuto della testa fosse improvvisamente diventato insostenibile per le sue gambe da sole.
    «Respiri ora, Nikolaj?» Aveva scherzato, sussurrandogli quelle parole all'orecchio. Non aveva risposto, limitandosi a chinare il viso sulla sua magra spalla e a respirarci sopra, sfiorandone appena la pelle con le labbra schiuse. «Siamo nella valle delle ombre, io e te.» Aveva inarcato la schiena, la testa all'indietro in una valanga di fili colorati. Le mani dell'uomo si erano strette sui suoi fianchi, rafforzandosi, spingendola contro il bacino, le dita che le stringevano la carne mano a mano che i loro respiri si accorciavano. Sentiva il piacere incalzare, farsi più vicino, impaziente, una sensazione che conosceva bene e di cui non si sarebbe mai stancato. «E rimaniamoci il più a lungo possibile.» sussurrò senza fiato in risposta a Fae. Se questa valle delle ombre era tutto ciò che avevano, che vi restassero per sempre, al diavolo il resto, gli altri, il dopo, il futuro, i problemi. In quel momento niente esisteva al di fuori della VW Golf, dell'ambiente chiuso, protetto, che sembrava respirare con loro. Quando arrivò al culmine, quando il piacere fu troppo estremo per resistergli, quando sentì e vide il corpo di Fae irrigidirsi, l'intricato diorama di nervi e muscoli distendersi, le vertebre inarcarsi all'indietro, i capelli una cascata attraversata dall'arcobaleno, allora Nikolaj si lasciò andare. Leggermente incurvato in avanti, la fronte premuta sulla clavicola destra di Fae, Nikolaj si arrese a quella sensazione di estremo benessere lasciando andare un gemito rauco, un suono sordo, primitivo. Rimasero fermi qualche secondo, la colonna vertebrale di Fae che si raddrizzava con lentezza e sempre pacatamente si arrotondava su di lui, una curva dolce che si ripiegava sull'uomo. I respiri si acquietarono, rallentando la loro corsa e dopo un po' Niko allentò la presa su di lei, che aveva stretto fino a quel momento. Fae doveva aver colto quel gesto perché lo scavalcò con la gamba, iniziando a rivestirsi, il seno fluorescente che tornava a coprire la carne. Nikolaj tirò su mutande e pantaloni allacciandoli, la fibbia della cintura che tintinnava nel silenzio. Solo la musica lontana arrivava alle loro orecchie, attutita, come proveniente da un'altra dimensione. Si vestirono in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri. Nikolaj sentiva di dover dire qualcosa, il problema è che non sapeva cosa. Un uomo così carismatico che perde la parola. Non voleva uscire, lasciare che il mondo esterno lo risucchiasse. Non voleva perdere quello che aveva appena ritrovato. Eppure sentiva di doversi muovere, l'adrenalina che scemava silenziosamente ma la droga ancora in circolo, il peso della malinconia che tornava a comprimergli il costato. Allora aprì la portiera, assicurandosi di farle cenno di seguirlo prima di richiudersela dietro con un tonfo leggere.
    Mosse qualche passo nella notte, le luci di un lampione a qualche metro di distanza come unico spiraglio di luce. Si posizionò davanti all'auto, poggiandosi con il fondoschiena sul cofano che cigolò leggermente sotto il suo peso. Si tastò le tasche, tirandone presto fuori un pacchetto di sigarette e l'accendino. Ne incastrò una fra le labbra carnose, porgendole poi a Fae che nel frattempo l'aveva affiancato. La temperatura lì fuori era decisamente più bassa di quella che li aveva avvolti nell'abitacolo e giunse come una doccia fredda di realtà in un sogno ad occhi aperti. Accese la cicca, inspirando a pieni polmoni quel veleno cancerogeno per poi far cliccare nuovamente l'accendino per dar fuoco alla sigaretta di Fae, con il volto chinato sopra la sua mano. Guardò oltre, nella notte, l'accendino che scompariva nelle tasche dei jeans.
    «Sofie, mia sorella, è tornata.» e penso continuamente ad una donna alla quale non dovrei pensare. Sono incasinato, non so cosa fare. Quest'ultima parte non la disse, portare Lucille in quella conversazione sarebbe stato come ammettere ad alta voce di provare qualcosa a cui non sapeva dare ancora un nome. Aveva annunciato il ritorno di Sofie dal nulla, senza alcun preavviso, in un momento in cui forse Fae si sarebbe aspettata qualcos'altro. Ma da quella constatazione trapelavano molte emozioni non dette, un misto di preoccupazioni, felicità, e rabbia che l'uomo non sapeva come gestire e che sentiva di poter confidare solo a lei. Non era mai solo contento o solo arrabbiato, ma le due sensazioni sembravano convivere in lui e venire associate a qualsiasi persona frequentasse. Nel rivedere Fì, come del resto Fae, aveva gioito com non faceva da anni ma, al contempo, il risentimento generato dalle colpe -il loro abbandono- che gli aveva affibbiato impedivano all'uomo di provare solamente quell'emozione.
    Da quello che era appena successo, Nikolaj aveva capito che aveva bisogno di Fae nella sua vita, anche se non nel modo in cui si era consumata quella notte. Aveva bisogno della sua vicinanza, della comprensione reciproca che sembrava correre fra di loro, un filo di Arianna che li avrebbe uniti per sempre. Il piede batteva al suono ritmicamente, una mano che passava veloce fra i capelli scompigliati, nervosa, maldestra. Alzò il viso verso il cielo, aprendo la bocca per espirare del fumo e osservarne le spirali brillare prima di scomparire nella notte. «Quando non sei abituato a chiedere a nessuno di restare nella tua vita non è detto che tu non abbia una disperata voglia che qualcuno ci resti.» Aveva finalmente abbassato lo sguardo, tornando a puntarlo su di lei per la prima volta da quando erano scesi dal porto sicuro che era l'automobile. Rimani? Per favore. In un modo o nell'altro. Non ti farò più male, promesso. Era questo il suo modo di dire tutte quelle parole che non riuscivano ad assumere una forma esterna ma che rimanevano, invece, chiuse nella sua cassa toracica. Nel frattempo si chiedeva perché certe cose stanno a galla e certe altre invece no, sperando con tutto sé stesso che la boa appena ritrovata decidesse che quella sarebbe stata la prima delle molte sigarette che avrebbero condiviso.



    Edited by mesmeric - 3/9/2018, 09:31
     
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    Fu nella durata di un battito di ciglia che quella testa colorata si rese conto di aver bisogno di lui e di averlo allontanato per forse troppo tempo.

    Aprì gli occhi, lasciando che per qualche breve istante le sue iridi girovagassero per la stanza, alla ricerca di un particolare, qualsiasi cosa potesse aiutarla a ricordare della serata appena trascorsa, di cosa fosse realmente accaduto. Il soffitto se ne stava impettito su di lei a solo qualche metro di distanza, eppure le sembrava fosse troppo lontano, così distante ed irraggiungibile forse come il blu del cielo che troppo spesso aveva osservato, immaginando cosa volesse dire raggiungere l’oscurità dell’universo che si celava dietro di esso. Restò immobile, un respiro estraneo al suo fianco, qualcosa che aveva conosciuto in altre occasioni, totalmente differenti. Sbatté appena le palpebre, lo sguardo ancora fisso sulla parete lignea sopra di lei. Un’asse di legno corposa e scura regnava sulla stanza, segnando quindi il punto in cui il tetto si curvava verso il basso, rendendo la camera più che altro una sorta di mansarda. Una vetrata lasciava che il mondo esterno fosse ad un solo e breve passo da quello interno alle pareti scure, mostrandosi imponente di fronte al letto matrimoniale sul quale giacevano quei due corpi stanchi. Non riusciva a compiere alcun movimento, Fae, poiché il suo corpo sembrava essere distaccato dalla mente, la quale imperterrita cercava di mandare i propri comandi ai muscoli, ancora privi di forza. Stiracchiò le dita delle mani, allargandole appena e lasciando che quei pugni stretti si aprissero, permettendo quindi ai palmi di respirare. Un lieve strato di sudore giaceva su di essi, probabilmente per l’inconsapevole stretta che aveva mantenuto fino a quel momento. Aveva le braccia distese lungo i propri fianchi, sopra il lenzuolo chiaro che invece nascondeva il resto del suo corpo, dal busto in giù. Si sentiva sospesa, come se fosse all’esterno del proprio corpo e stesse guardando la scena dal di fuori, da una prospettiva diversa.
    Sollevò appena il capo, puntando questa volta il proprio sguardo dinanzi a sé ed osservando ciò che circondava il grande letto matrimoniale sul quale era distesa. Una stanza scura ma ben illuminata. Vedeva i fasci di luce, Fae, trapelare dall’unica e grande finestra ed illuminare i granelli di polvere fluttuanti per la grande camera da letto di casa Mordersønn. Non aveva idea di che ora fosse, di quanto tempo fosse trascorso dal momento in cui si era lasciata andare lì con lui. Forse ore, forse giorni. Sentiva la pelle stringere contro le proprie ossa, strisciare contro i muscoli appena indolenziti. Voltò lo sguardo alla propria sinistra, ritrovandosi accanto a Nikolaj, ancora dormiente. Aveva le labbra appena schiuse, gli occhi serrati e persi nei meandri del suo sonno forse incerto, senza emozione alcuna. Lo guardò per qualche istante, senza far rumore, senza respirare - pensò, Fae, che tutto quel male le aveva fatto anche troppo bene, ma che a lungo andare avrebbe distrutto per davvero ogni singola cosa. Inspirò piano e profondamente, provando una strana sensazione di pesantezza sullo stomaco, come se un masso si fosse piantato su di lei, intenzionato a schiacciarla e non farne rimanere nulla. Si portò una mano alla testa, premendo su di essa e provando ad acquietare l’emicrania che sembrava esploderle nel centro esatto della sua fronte. Spostò una ciocca di capelli verde acqua, portandola dall’altro lato del capo e scompigliando ancor di più la sua insolita e strana capigliatura. Aveva la bocca quasi completamente asciutta, impastata dal sonno e dal sentore amaro dell’alcool, di cui avevano abusato insieme la sera prima. Si ritirò quindi su, mettendo un po’ più di forza nelle braccia e poggiandosi sui gomiti nudi. Scostò il lenzuolo da un lato, ritirando a sé le gambe e mettendosi quindi seduta, i piedi a contatto con il pavimento freddo della grande stanza. Si rizzò con la schiena, lasciando che le ossa della spina dorsale scricchiolassero nel silenzio, scontrandosi le une con le altre e dandole una leggera sensazione di sollievo. Si alzò, camminando in punta di piedi attorno al letto per ispezionare la zona e riappropriarsi degli abiti lasciati per terra, ormai troppo presi dalla foga dei loro stessi corpi, per rendersi conto di cosa stesse avvenendo davvero. Si accovacciò per afferrare quindi biancheria intima, jeans e t-shirt, prima di far riemergere le scarpe da sotto una delle poltrone, sedendosi su di essa ed infilandole nel massimo del silenzio. Non una parola, mentre il respiro del sonno di Niko faceva da sottofondo. Avrebbe voluto ricomporsi, far finta di niente e tornare su quel materasso; ma la paura di restarci per sempre, di accettare la dannazione e l’arresa a ciò che loro due avevano iniziato, era qualcosa che forse non avrebbe avuto il coraggio di sopportare troppo a lungo. Era quello, il momento: restare, abbandonare. Arresa o Lotta. Divenire ciò di cui aveva avuto spesso paura o provare a migliorare, dare del tempo a se stessa, comprendere quando a fondo fosse finita e poi risalire. - si alzò dalla poltrona, avvicinandosi al letto sul quale Nikolaj giaceva ancora. Schiuse appena le labbra, restando per qualche istante lì in piedi, i propri occhi che accarezzavano il profilo dormiente di quell’anima tanto vicina alla sua. Ricordava ogni cosa, della sera prima, malgrado fosse tutto ancora troppo confuso. Avevano iniziato come al solito, un bicchiere dopo l’altro, una pasticca o una striscia, troppo assuefatti a quel sapore, quella sensazione di piacere che smuoveva i loro corpi nel giro di qualche minuto; e poi, come se fosse tutto scritto, come se non lo avessero deciso loro, si erano semplicemente uniti, un connubio di ombre e colori, un insieme di temperamento e freddezza. Avevano condiviso, come nel prima, più del prima.
    Strinse ancora una volte le mani chiudendole in due pugni, le unghie che spingevano nella carne dei palmi. Serrò le labbra, trattenendo un respiro e maledicendo se stessa per il coraggio che aveva avuto fino a quel momento, provando una sensazione di disgusto nei propri confronti per ciò che stava per fare, per la bandierina bianca che stava lasciando ferma lì, dove invece Niko avrebbe dovuto trovare il suo corpo, una volta sveglio.
    Se n’era andata, chiudendosi la porta alle spalle e sperando che il proprio dolore non facesse così tanto rumore da svegliarlo.


    Cosa avesse reso Nikolaj la persona che era diventata, Fae non poteva pienamente comprenderlo, forse. Eppure, a differenza di molti altri, in quel cambiamento lei ci vedeva qualcosa di teneramente familiare, come se potesse riuscire a vedere e abbracciare quel dolore, anche senza doverlo comprendere ad ogni costo. Si era domandata spesso, durante quel frenetico anno trascorso assieme, cosa ci fosse in lui di così speciale da non permetterle di allontanarsi da lui, e anche una volta avvenuto quel distacco, la sua mente aveva vagato spesso alla ricerca del ricordo che quello sguardo aveva significato per lei; la consapevolezza che insieme avrebbero potuto farsi troppo male l’aveva però fermata sempre, ponendo un freno alla sua voglia di fare un passo indietro e chiedere scusa, ricercare quel contatto e sperare che, in un modo o nell’altro, potessero tornare a salvarsi insieme. Aveva vagato, per i primi tempi, lungo quei corridoi di villa Mordersønn, chiedendosi a chi appartenessero tutti quegli sguardi simili a quello di Niko e che storia ci fosse dietro di essi. Aveva domandato, mai troppo e neanche troppo poco, cosa quel “tutto” potesse significare per lui, provando ad immaginare l’amico in un ambito diverso, come il nucleo di una famiglia, termine che per entrambi, in quel periodo particolarmente, aveva avuto ben altri significati, rispetto a ciò che avrebbero trovato all’interno delle pagine di un dizionario. Se Fae da un lato aveva avvertito una sorta di disagio, di solitudine e, quindi, aveva decretato solo se stessa come vera e propria famiglia su cui far poggio, Niko aveva forse allontanato da se quel termine, quasi completamente. Questo lei non aveva potuto saperlo; eppure, in sua presenza, niente era sembrato poi così errato, nelle loro vite.
    Si confidavano, Fae e Nikolaj, mentre quel frastuono attorno a loro ovattava il resto delle voci, il resto dei mali. Confessò qualcosa di poco veritiero, lasciando trapelare quanto invece lui necessitasse di un cambiamento, di accettare di essere divenuto un altro, accettare di essere pronto a vedersi mutare, nel tempo, attento a non allontanarsi troppo da ciò che avrebbe dovuto essere o ciò che, semplicemente, si ostinava ad essere. Quanto avrebbe potuto essere vero quel suo rincorrere il vecchio essere, quelle vecchie motivazioni che lo avevano portato a divenire ciò che credeva non potesse mai più mutare? «Stronzate?» ripeté lui, subito dopo la stessa esclamazione di Fae, risposta a quell’affermazione letta sulle sue labbra poco prima, ma non scorta nel suo sguardo. Qual era il punto? Dove si celava l’insoddisfazione di Nikolaj? Nella consapevolezza di essere mutato o nell’essere rimasto come tempo prima, ma desideroso a questo punto di un cambiamento nella propria persona? «Non so se potermi fidare. Sembra che il cambiamento, la svolta che hai voluto quando hai deciso di andartene, non ti abbia portato troppo lontano.» constatò lui, indicando gli shot appena prima di mandarne giù un altro. Fae non si sentì colpita, né ferita. Sapeva perfettamente come fosse lo stato delle cose, come procedesse la sua vita e quali erano state le sue ultime scelte. Gli orrori che aveva visto, la distruzione che aveva portato sulla propria pelle, lasciando che questa ne sfilasse strati uno dopo l’altro, le aveva consegnato una sorta di consapevolezza ben diversa da ciò che anni prima aveva rifiutato. Era vero: qualche passo in avanti lo aveva fatto, ma il peso dei ricordi, delle perdite subite, le avevano ricordato chi fosse e da dove provenisse. Aveva imboccato una strada che l’aveva riportata a lui, e in quel momento non riusciva decisamente a capire cosa vi fosse poi di così sbagliato. «Perché dovrei darti torto.» disse lei, semplicemente, scuotendo brevemente il capo e sollevando le proprie spalle in segno d’indifferenza. «Forse è per questo che sei qui.» aggiunse lei, sorridendo appena con fare divertito. E avrebbe sfidato il mondo per avere le prove di quanto ciò potesse essere falso. forse, in altre circostanze, lo avrebbe allontanato, impedendogli di insinuarsi nuovamente nella sua vita, caotica e persa come nove anni prima. Aveva solo acquisito qualche consapevolezza in più rispetto a quando aveva avuto diciannove anni, eppure si sentiva in quel momento esattamente come nel “prima”, in quella grande camera da letto arredata completamente in legno, pronta a farsi trascinare su quelle lenzuola bianche e farsi possedere da lui. Sembrava solo tutto estremamente giusto, sotto quelle luci e in mezzo a quei corpi, strizzata come una spugna, pronta a poggiarsi contro il corpo di Nikolaj, stranamente lì al suo fianco.
    Fu il turno della ragazza dai capelli arcobaleno: una confessione, qualcosa che avrebbe detto difficilmente a voce alta, da sobria. Qualcosa nato dal profondo, dal punto più oscuro del suo animo, laddove i ricordi giacevano assieme alle paure. Non disse nulla, Nikolaj, immobile davanti a lei, cercando di comprenderne il dolore, di capire dove fosse il tassello mancante per quel puzzle dalle mille sfumature. Un’immagine bella e variegata, il cui angolo sembrava mangiato da un buco nero, quello che provava a nascondere ogni giorno, sollevandosi dal proprio letto ed affrontando la giornata col vigore necessario, quella spinta che diceva di doversi dare per combattere la frenesia di quel mondo che non credeva di conoscere mai veramente appieno. Sentì il peso delle proprie parole scivolare via dalle labbra sottili, appena schiuse, ed infrangersi contro di lui. Avvertì lo sguardo di Niko cambiare, entrare in lei, pronto a guardarla dall’interno forse per davvero, come mai sembrava essere accaduto prima. Fu quella, forse, la primissima volta in cui la realtà dei fatti veniva fuori, li invitava ad entrare e mostrava loro come stessero le cose. Sorrise Fae, non turbata da quelle parole quanto lui, ma sentendosi leggera, felice di aver esternato quel peso, pronta a ricaderci sopra una volta dimenticato di aver pronunciato quella sentenza. «Se potessi tornare indietro, sceglieresti davvero di morire?» domandò lui, lo sguardo perso in quello di lei. Lo vedeva, Fae: cercava di capire il perché, cercava di comprendere come mai avesse tutto un significato così prezioso per la ragazza arcobaleno, le cui parole avevano una sfumatura ben diversa, da quella che aleggiava sulle ciocche dei suoi capelli. Abbassò lo sguardo, afferrando altri due bicchierini e passandone uno a Nikolaj, sorridendo apertamente mentre le pupille si facevano sempre più scure, sempre più dilatate, pronte a risucchiare ogni cosa in quel luogo gremito di mani, di pensieri, di nomi fra i quali in quel momento l’importanza ricadeva solamente su uno di essi. «Non ha importanza, ora.» disse lei, lasciando che l’ennesimo shot si scontrasse contro quello di lui e portandolo poi alle labbra, bevendone il contenuto con fretta e posandolo immediatamente sulla superficie del bancone, prima di allontanarsi con lui e finire nel mezzo della folla, corpo contro corpo, cullati dalla musica che tanto amava. Scacciava i pensieri, il presente, trasportando Fae in una dimensione ben diversa da quella in cui viveva ogni giorno. E fra quei corpi, Fae e Nikolaj continuavano a stringersi, sott’acqua senza respirare, ritrovandosi nel fondo a guardare verso l’alto, le sfumature della luce che carezzavano la superficie dalla quale si erano immersi. «Sì. Ti vedo, più colorata che mai.» rispose, il viso così vicino a quello di lei, i corpi ormai un’unica forma indistinta in mezzo alle altre. Ne avvertiva il battito cardiaco, o così le parve in quel momento lungo forse un’eternità. Si muovevano all’unisono, cullando l’uno il corpo dell’altra e reggendosi, mascherando il dolore e tramutandolo in qualcosa di accettabile, di vivibile, se insieme. «Presa. Ecco intrappolato questo mio attimo di felicità.» affermò ancora lui, stringendola appena e lasciandola poi andare, rubando spazio ad altri e permettendole una piroetta fra quei corpi sconosciuti, i cui occhi sembravano posati su di loro, su quei visi segnati dal tempo; un tempo vissuto al massimo, alla ricerca di sensazioni, ragioni, sentimenti. Rise con lui, Fae, divertita e grata per quella freschezza che da sobria forse non avrebbe ritenuto tale. Si avvicinò a lui per posargli i palmi delle mani sul viso, stringendo appena e avvicinando il proprio corpo al suo, il petto contro il busto di Nikolaj, appena più alto di lei. Le labbra di lei aderirono lentamente a quelle di lui, un ritmo diverso da quello veloce della musica che faceva da sottofondo. Lo desiderava, così come lo aveva desiderato la prima volta, nove anni prima. Non era amore, non era neanche amicizia. Era qualcosa che andava oltre ogni parola, oltre ogni categoria si potesse immaginare. Era come stare con lui su di un altro pianeta, lontano, dove nessuno avrebbe mai potuto importunare il loro silenzio. Erano altrove, Nikolaj e Fae, rimasti appigliati a quelle speranze che solo loro avevano scritto l’uno sulla pelle dell’altra.


    Si lasciò semplicemente andare, prigioniera delle labbra di Nikolaj, lasciando a lui ogni possibilità, ogni certezza, ogni piccola parte del proprio corpo. Ne attese le mani, amando il modo in cui viaggiavano sulla sua pelle candida, forse troppo sottile sulle costole, così in superficie per il tatto umano. Dicono che la pelle abbia memoria, e Fae non poté far altro che riceverne le prove in quell’auto, riconoscendo le carezze nascoste sotto i propri palmi e quelli di Nikolaj, desiderosi di ritrovare luoghi visitati tempo prima, quando ogni cosa sembrava sul punto di distruggersi. Aveva pensato che non si sarebbero mai riuniti, che mai avrebbero avuto la possibilità di condividere tale intimità, ancora, e forse era stata quella foga, quel volersi ritrovare a tutti i costi, che li aveva acceso quel fuoco, indomabile ed incandescente. Ne lasciava le tracce sulla schiena, nei punti in cui le unghie di Fae si addentravano nella carne morbida di Niko, sotto di lei. Si muoveva per giovare ad entrambi, alla ricerca di una fibrillazione che avrebbe mandato in estasi ogni parte di loro, ogni singolo lembo di pelle. Avvertiva i muscoli contratti, Fae, troppo presa da lui per potersi fermare, per cedere così. Avvertì il respiro di Nikolaj sulla sua pelle, a pochi millimetri dalla sua. «E rimaniamoci il più a lungo possibile.» le aveva risposto lui, afferrandole i fianchi e stringendoli con le propria dita sottili e lunghe, la tirava a sé, mentre lei si allontanava per poi ritornare, un movimento sempre più veloce, più incontrollabile. Ne avvertiva il piacere salire, arrampicarsi sulla schiena e tirarle i capelli uno ad uno, fino a farle così bene da appannarle la vista, smezzare il respiro. Oltre a loro, non vi era nulla: niente avrebbe potuto interrompere quel momento, staccare i loro corpi e far presente loro di essere due anime diverse, separate. Pensò per qualche istante di non volersi separare, di voler tornare sul pianeta terra, laddove avrebbe vissuto in un corpo da sola, impreparata forse per ogni evento, ogni tempesta, ogni temporale. In quell’auto, per qualche istante, aveva tutto ciò di cui necessitasse. E giunse, in una vampata di calore e brevi contrazioni del ventre, l’apice del suo piacere, così come quello di Nikolaj, ancora sotto di lei; si ricurvo appena, posando la propria fronte sulla clavicola del busto nudo della ragazza dai capelli arcobaleno, emettendo poi una sorta di gemito appena più profondo, quasi quanto lo era stato il cinguettio di Fae nel curvare ancora un’ultima volta il capo verso il basso, le mani strette attorno alle spalle di lui.
    Ci volle qualche secondo, affinché potessero separasi nuovamente, tornando alle loro forme normali, pretendendo lo spazio per una sola persona alla volta. Un silenzio pregno di significati, colmo di attenzioni; s’infilò gli short, afferrando poi la t-shirt riversa sul sedile posteriore e lasciandosela scivolare addosso, sollevando appena le braccia per fare in modo che ricadesse su di lei con facilità. Seguì i movimenti di Niko, raggiungendolo all’esterno dell’abitacolo ed inspirando la freschezza di quell’aria, prima di avvicinarsi a lui e permettergli di chiudere la portiera. Allungò una mano, sollevando appena il mento in sua direzione ed accennando ad avere una delle sue sigarette. La sfilò dal pacchetto e, dopo che quella di lui fu accesa, si chinò appena in direzione della sua mano per lasciare che anche la propria prendesse vita. Si risollevò mentre la prima piccola nube di fumo lasciava i suoi polmoni sicuramente mal messi. «Sofie, mia sorella, è tornata.» parlò lui per primo. L’ennesima confessione per lei, l’ennesima prova del fatto che, probabilmente, la sua paura di perderlo ancora non avrebbe reso tutto così reale. Forse, erano nel tempo giusto. Restò in silenzio, avvicinando nuovamente alle labbra la sigaretta stretta fra indice e dito medio, aspirando ancora. I capelli spettinati non sembravano avere alcuna forma, così come la sua stabilità in quel momento. Solo una cosa continuava a sembrarle ferma, immobile in quel caos calmo, lontano da voci, musica, persone. Era Nikolaj e il suo volerlo nella propria vita. Lo osservò attentamente, guardandolo sollevare il viso verso il cielo scuro come i giorni in cui avevano condiviso tutto. «Quando non sei abituato a chiedere a nessuno di restare nella tua vita non è detto che tu non abbia una disperata voglia che qualcuno ci resti.» continuò il ragazzo, abbassando poi nuovamente il proprio sguardo su di lei, mentre la implorava, chiaramente, di restare. Non vado da nessuna parte, sono qui dove mi hai ritrovata. Non ti lascerò mai più indietro. - sarebbe stato così semplice dirglielo, confessargli quanto in realtà le fosse mancato. Fece un passo avanti, ritrovandosi nuovamente a pochi centimetri da lui, occhi dentro occhi. «Quando non sei abituata a restare nella vita delle persone, non è detto che tu non abbia una disperata voglia di restare.» disse lei, chinando appena il capo da un lato e sorridendogli lievemente, come se volesse abbracciarlo con il solo ausilio dello sguardo. No, non sarebbe stata l’ultima sigaretta che avrebbero condiviso.
     
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6 replies since 18/6/2018, 22:18   403 views
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