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roy x cyd

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    SCANLAN "CYD" HANEGAN

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    «L'utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile. La preghiamo di lasciare un messaggio o riprovare più tardi.» Teneva ancora ferma la cornetta del telefono dietro al bancone a mezz'aria, Scanlan, quando l'ennesima condanna a morte gli venne con tanta leggera solennità pronunciata all'orecchio. Una decina di parole infilate dentro un paio di frasi tirate su a caso col solo intento di liberarsene al più presto, il più in fretta possibile. Dopotutto, chi mai avrebbe voluto avere a che fare con uno come lui per più d'una manciata di secondi? Erano giorni, se non settimane e possibili mesi che l'uomo al di là del cellulare, aveva cercato di disfarsene come fosse uno scarafaggio, un insetto da annientare (non che la somiglianza non ci azzeccasse in fatti di fastidio, eh) quando ancora temerario, questi cercava di pagargli l'affitto di un appartamento che sperava d'aver ormai dimenticato. Tanto alla fine, non era stato nemmeno lui a cacciarlo, ma la stessa persona che in primis, l'aveva convinto a prenderlo. Maledette agenzie. Sospirò a sua volta roteando gli enormi e tondi occhi celesti verso il soffitto, luci spenti, incolori, la notte vivaci, psicadeliche, segni di dubbia natura come ormai lo era il suo intero corpo tinto d'inchiostro. Lasciò andare il braccio che per un secondo si era bloccato all'altezza del volto, ricordo del proprio corpo inerme accanto alla parete coperta da un triste carta da parati a fiori che lentamente stava sbiadendo quanto il suo stesso animo o coscienza il più delle volte improvvisata. Il sospiro venne seguito da un altro altrettanto pesante e sofferente, a sua volta accompagnato da un deciso tonfo quando con la mancina, attaccò con tutta la forza che aveva in corpo il telefono al proprio posto. «Brutto figlio di puttana! Ma non la potevi buttar via la roba?!» Cominciò allora il delirio, follia più totale in quella sua solita danza di rabbia e frustrazione in cui parlava e urlava, urlava e parlava. A chi? Assolutamente a nessuno. Da solo, nel bel mezzo del locale vuoto in pieno giorno, Cyd sbraitava contro il nulla più cosmico calciando sedie, distruggendo un paio di bicchieri sporchi che avrebbe dovuto in realtà sistemare. Ci mise un bel po' prima di calmarsi e scoppiare a ridere piegandosi in due nel disordine più totale della sua stessa esistenza. Sorrise isterico al niente attorno a sé, al tutto che lentamente con le proprie mani, un giorno avrebbe sicuramente distrutto sino all'ultimo triste atomo. Stanche, blu e leggermente tremanti per l'adrenalina ormai in circolo, le mani frugarono le tasche alla ricerca d'una sigaretta che con fare pigro accese ed abbandonò ad un angolo delle sfregiate labbra. Sorrise ancora alla propria disfatta, completa auto-distruzione, per poi uscire veloce, quasi scattante, alla conquista delle sue ultime tristi cianfrusaglie.
    «Pronto? Pronto? Senti stronzo, te le puoi tenere le cose io non- camminava in fretta gesticolando come una saltellante scimmia in preda agli spasmi: urlava e rideva mentre tra una risata e l'altra, cercava in modo scenico di calmarsi, cellulare e sigaretta in bilico. Si fermò in mezzo alla strada però, a metà d'un messaggio vocale alla fine mai realmente inviato, fissando in truce l'imponente edificio ormai grigio, fatto di mattoni e cemento armato. -cazzo Concluse infine mettendo via il cellulare mentre malinconica, la sigaretta si consumò quasi da sola. La gettò via sostituendola con un'altra, seconda di un'infinita serie, cercando di sgrovigliare l'imminente nodo che subdolo, si stava nella sua gola andando a formare. Deglutì un paio di volte fumando in silenzio, gli occhi tinti di blu fissi contro le finestre del suo ormai vecchio appartamento. Sbuffò spazientito, la mancina stretta in pugno dentro una tasca, mentre rovinate, le dita della destra carezzarono una piccola cicatrice sopra un folto sopracciglio. Soli sei mesi prima, un piatto era sfrecciato contro il suo volto quasi accecandolo mentre ancora eccitato, il suo uccello volava dove non gli era stato permesso di andare. Una smorfia gli colorò il volto contrariato al ricordo della breve relazione, della convivenza e successivo tradimento. «"Le mie piante hanno bisogno di luce, Cyd! Non puoi appendere i tuoi luridi jeans lì, Cyd! Lava i piatti, Cyd! Non tradirmi, Cyd!" ...succhiami l'uccello, "Cyd" Squittì con fare teatrale imitando la sua ormai ex qualcosa (cosa?) che dopo la regina delle sfuriate, l'aveva spedito al pronto soccorso con un bel po' di punti da mettere. Non è stato il massimo sedurre la proprietaria di casa. No. Anche se, il fatto che lei glielo abbia lasciato fare in maniera poco velata, gli fece capire un bel po' di cose. Eppure, da lì al cacciarlo di casa e non permettergli più di scroccare alcunché, Cyd mai avrebbe immaginato ci avrebbe messo così poco tempo.
    Scoppiò a ridere mentre riprendeva a camminare, sempre più vicino all'entrata del palazzo, all'entrata di quello ch'egli definiva allegramente l'Inferno ormai. Gettò dentro un vaso straripante di piante la cicca sorridendo nella sua folle e tacita vendetta, per poi schiacciare di malumore il citofono ormai sbiadito. Nessuno rispose ma la serratura scoccò ed egli, passo sempre più lento e trascinato, entrò fino a salire le scale al terzo piano per l'ultima volta.
    «Senta, signor Smith, agente di questa gran minchia, può buttar via le- entrò già gesticolante, l'accento irlandese deciso e forte, senza nemmeno bussare o suonare. Fugaci, gli occhi non riuscirono a fermarsi su un sol punto eppure colsero il rosso d'una chioma in fiamme. Le braccia ricaddero mentre stanco, lo sguardo fissò di nuovo il soffitto, le mani s'appoggiarono ai fianchi.
    «Questo suppongo ti basta, schifoso-» un cuscino, un piumino e piccolo sacco d'immondizia scuro pieno d'ultimi e pochi averi che possedeva gli venne gettato addossom mettendo quasi in dubbio e pericolo il suo ormai perennemente precario equilibrio. «- lurido porco pezzo» Altri oggetti, altre cose che aveva persino dimenticato esser sue gli volarono verso il volto, le spalle, l'addome, colpendolo ovunque mentre tese, le braccia si stavano irrigidendo. Lieve aria di sfida e fastidio, Cyd inarcò un sopracciglio mentre veloce, il sangue cominciò a scorrergli con maggior fervore e piccole eppur rigonfie vene violacee ora d'un blu intenso gli tinsero il collo d'altro colore non più inchiostro. Un sospiro. Due sospiri. Sentì gelarsi alcuni oggetti accatastati sotto l'immensità di cose a lui buttate addosso, nascosto nella propria rabbia sotto un vecchio piumone. «- di merda traditore!!!» Si chinò appena in tempo evitando ora un vaso, altra ceramica che gli sarebbe costata un secondo giro al pronto soccorso in una sola settimana. «Dove stai andando, eh? Rispondimi! Stronzo!» S'ammutolì, l'irlandese che non conobbe mai il silenzio, digrignando di nascosto i denti mentre intenso bruciore agli occhi gli appannò la vista. Uno. Due. Tre. Quattro secondi ed egli avrebbe perso nuovo inutile sangue. Preferì così fuggire, nascondersi, arrendersi.

    «Brutta troia te e le tue piante di merda spero che ti strangolino nel sonno e ti risucchino nell'inferno da cui sei uscita.» Riprese ad urlare, agitarsi e bisticciare tra sé e sé non appena rimise piede al Bolgen, tutta la roba ancora semi addosso ed in spalla ora sparsa dietro il bancone. Lanciò cuscino e piumone nel magazzino, sul retro, appuntando mentalmente di tornarci e temporaneamente sistemarsi come un topo, un ratto avvelenato intrappolato e sfrattato dalla propria tana. Tirò su con il naso mentre sistemava accanto la busta di plastica ora ricolma d'inutile cianfrusaglia ormai immondizia. Improvviso però, un dolore lancinante gli tagliò in due la testa obbligandolo a fermarsi, zittirsi ed aggrapparsi a qualcosa. Volto fra le mani, il cuore riprese a battere prepotente rischiando di distruggere l'esile cassa toracica che si ritrovava in quel malsano e putrido corpo. Scrutò le proprie mani, le dita pallide e sottili, i polsi già segnati dall'inchiostro: erano diventate leggermente azzurre, celesti, mentre d'un colore solitamente gemello, gli occhi si tinsero di rosso. Li strizzò un paio di volte sino a sentirli appiccicosi, impastati mentre sangue riprese a scendere. Altro dolore, altro bruciore lancinante. Perché? Perché a lui? Nonostante tutto riuscì a controllarlo di nuovo. Si mosse veloce, preciso, quasi agile in quella follia tanto lontana dal suo essere caos, dal suo essere ovunque ma mai da nessuna parte. Raggiunse il bancone a lunghe falcate, scheletro d'un metro e novantatré, la testa ora sotto al rubinetto dove per un secondo, contemplò l'idea di non levarcela ma annegare, soffocarsi col suo stesso sangue in un posto che non conosceva, non gli apparteneva nonostante fosse riuscito ad intrappolarlo, ingannarlo, con quella sua dannata maledizione. Forse per troppo, forse per poco, ma Cyd non si mosse più davvero, succube dell'acqua che piacevole carezza, scorreva sopra il cereo volto. Si dimenticò del tempo, si dimenticò del luogo. Del dolore, del bruciore, del freddo costante, della fame. Della stanchezza, dell'ansia, del disagio. Si dimenticò di respirare.

    Edited by miss crocodile - 7/10/2019, 12:11
     
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    Anche Roy lottava contro un telefono, ma non voleva contattare nessuno, voleva sfuggire. Pugnalava il tasto rosso, gli si accaniva contro con tenacia, voleva ammazzarlo a colpi di pollice quel cazzo di pulsantino. O ammazzare chi c'era dall'altro lato, entità connessa da invisibili segnali elettrici, un tormento asfissiante, edera mangia-tutto difficile da estirpare. Impossibile. Beep, beep. Pausa. L'oggetto si surriscaldava fra le mani, diventava molle contro la pelle bruciante di Roy. Beep beep. Uno scatto del braccio e il ti faccio diventare pazzo aggeggio si schiantò contro il muro con quello che, Roy si augurava, essere l'ultimo beep della sua fastidiosa esistenza robotica. Un minuto di silenzio per tutti i cellullari morti e mai sepolti. Un minuto, sessanta secondi di paradiso in terra, le spalle si raddrizzarono, il collo che distende la tensione accumulata, nodi e spogenze muscolari che si stiracchiano, ce la farà a spararsi un hamburger prima di attaccare al locale? Beeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeep. L'aria sembrò fermarsi a attaccarsi alla pelle, addensamento corpo contro corpo, i pugni si stringevano di nuovo, il collo scattò in alto con uno schiocco d'ossa spezzate in due. Due falcate e Roy gli fu addosso come ci si avventa contro il più acerrimo dei nemici, schiacciandolo con foga, gli occhi grigi resi enormi dalla rabbia, vibrazione a livello cellullare. Muori! Muori brutta stronza! Il femminile, era chiaro, era indirizzato alla persona che, da qualche parte nell'appartamentino una volta condiviso, lo stava torturando con parole che Roy non voleva leggere. Né sentire. Ambasciator non porta pena non valeva per Roy, che calpestava col tallone il demoniaco aggeggio, un palmo aperto sul muro come sostegno per furia esplosiva. Continuò anche quando al suolo non rimase altro che la batteria ammaccata circondata da un milione di piccoli pezzetti cristallizzati. Stelle alle pendici di un buco nero. Un po' come Roy, che forse non s'era mai sentito così piccolo in vita sua, o almeno da quando piccolo non lo era d'età. Era sempre stato trascinato da un caos confuso, multiforme, un disordine da lui creato e che da cui prevaleva su tutti gli altri. Lui faceva stronzate, lui attaccava, lui feriva. Se lo aspettavano tutti, funzionava così, andate in pace fratelli. Ma ora no, qualcosa era cambiato, il vento girava e Roy era un piccolo punto nero che, alla mercè della gravità, roteando a velocità di fuga, aveva superato l'orizzonte degli eventi, diretto dritto nella bocca del buco nero. Biglietto di sola andata per l'oblio, grazie. Alla fine dello sfogo, Roy sudava, il torso che da nudo sentiva ancora caldo. Con una mano sradicò il sudore dalla fronte. A quel gesto una smorfia arricciata increspò i lineamenti squadrati, riducendo il suo viso a sembrare un foglio accartocciato. Dimenticava, Roy, il naso contuso, lo zigomo raschiato e le nocche della sinsitra maciullate. Dimenticava perché era più semplice scordare il giorno precedente, come fosse tutto un brutto sogno. Se solo fosse riuscito a togliersi dalla testa quella scena mai vista ma immaginata tutta la notte, secondo oscuro dopo secondo oscuro. E anche quella cosa, quell'altra faccenda da far stridere le budella. Birre vuote, ammaccate, notte calda, labbra umide contro bocche proibite, sangue colante su gambe fragili, pallide, bianco contro bianco di una vasca da bagno.
    Come spesso accade, il dolore non gli permise di cancellare niente, tra sangue rappreso e cicatrici trasparenti, interiori. Fissava le nocche screpolate, una due tre le volte che i pugni strinseri e rilasciarono aria, fucili a compressione. Pensieri scuri, multiformi, non credeva più a niente, come avrebbe potuto? Coco era riuscita a far tornare a galla una sofferenza profonda, che andava al di là dei fatti avvenuti e affondava le proprie radici nel passato remoto di Roy. Non si lamentava, non si disperava. Va tutto bene, non cedere, si diceva sempre. Una roccia calda, dura, origine? Vulcanica. Questo era Roy, che si rifiutava categoricamente di credersi danneggiato. E ora? Si sentiva sgretolare.
    Non era la delusione in sé a fargli più male, ciò che lo rendeva triste era il torto fatto a sé stesso. Sapeva che non doveva fidarsi, eppure l’aveva fatto. Si tolse d'impeto i jeans, finendo per stare una ventina di minuti sotto il getto d'acqua della doccia. Immobile, intorno a lui il vapore che per reazione s'alzava dalla sua pelle ustionante.

    Scricchiolii, stridenti schegge di vetro contro le suole delle sneakers sfondate. Roy si fermò sulla soglia del Bolgen, una mano nodosa a schermare gli occhi, sguardo azzurro contro pelle. Porco cazzo Cyd! Non è giornata, pensò, non rompermi le palle. Sbirciò fra le dita callose, tripudio di una vita disgraziata, un occhio celeste a capolino fra l'indice e il medio, saracinesca sullo scempio che lo circondava. Esagerava sempre, Roy, teatrale come la peggior dama ottocentesca, ma non ci teneva ad assistere a quella scena patetica, tentativo di suicidio o quel che era. Erano già troppi i morti visti e mai sepolti. Abbassò definitivamente la mano non appena capì che hey, affogare sotto il getto del rubinetto non è poi così facile, e sbuffò con insofferenza. Avanzò schiacciando senza pietà i vetri rotti, bicchieri sporchi in frantumo, interi ormai irrecuperabili. Uno sbuffo, aria compressa dallo sterno, un fascio di muscoli in tensione. Non lo sapeva, Roy, cosa pensare di quell'asticello pallido intento a soffocarsi sotto un fiotto d'acqua. Una parte di lui sperava riuscisse nell'intento, l'altra si preoccupava del coinvolgimento della polizia. Volare basso. Piustosto stai strisciando. L'ennesima smorfia sul mondo. Respira. Stridio, budella attorcigliate. Lui verme con l'ombra di un tacco sopra la testa, così si sentiva. Respira. Mise in piedi una sedia rovesciata. Ora che tutto era finito, era anche lui un sudicio boccale in frantumi? Si riprese grazie alla fitta che spaccò in due il suo cervello, fulmine contro un cielo già tempestoso. Merda. Si toccò la fronte aspettandosi di trovarci sangue, una ferita incisa nel cranio ammaccato. Ma i polpastrelli tornarono indietro incolumi, stranamente pallidi, violacei. Scrollò la mano, ci mise poco a fare il giro del bancone e dare un calcio sugli stinchi di Cyd, le mani che andavano ad acciuffare la maglietta sbrindellata e, inavvertitamente, sfioravano la sua spalla. Una scintilla, fiamme contro ghiaccio, dolore istantaneo, reazione a livello epidermico. Un passo indietro, il naso che tirava su, il sangue ribolliva. Mi sta sulle palle questa cosa che sei freddo. Rende faticoso quello che dovrebbe essere una gioia: picchiarti. Non capiva proprio perché. Con Kai era diverso, il suo freddo lo calmava. Ma non voleva pensare a lui. Stai provando a farti fuori? Vieni che ti aiuto. Gli si avventò contro, il pugno in alto che si bloccava a due centimetri dalla trachea di Cyd. Scherzetto. Un colpo nel punto giusto e l'avrebbe mandato in coma. Una o due cosette l'esercito glie le aveva insegnate, dopotutto. Abozzò un ghigno tutto storto, denti disallineati, appuntiti. Nonostante gli arrivasse allo sterno, non c'era dubbio su chi picchiava chi. Le crisi da emo oggi no, che già mi gira il cazzo. OK? Gli occhi, piccoli, tondi e uno un po' gonfio, restarono fissi nei suoi per un po' prima che abbassasse il braccio. Perché tutti a lui i casi umani? Più lontano da Cyd ora, Roy si guardò intorno. Questo posto fa davvero cagare. Frugava nella felpa, giù nelle tasche fino quasi alle mutande, dove diamine erano le sigarette? Forza scene queen, ora pulisci tutto che io sono stanco. Ho avuto una serataccia ieri. Guarda come è ridotto il mio viso, cazzo. Saltò sul bancone dove si appollaiò mollemente. Con le gambe incrociate, la felpa verdastra e i jeans logori, dava l'impressione di un Peter Pan in chiave moderna, drogata e con una problematica assuefazione alla nicotina. Rovesciò le tasche da dentro a fuori, qualche spicciolo da cinque cents, due da dieci, gomme da masticare integre ma ormai sporche, chiavi, un preservativo - non sai mai quando ne hai bisogno - una cascata di schifezze e cianfrusaglie inutili tra cui spuntò una sigaretta ammaccata e l'accendino. Cincischiò con l'arnese, le mani che tremavano sempre leggermente, troppa l'energia racchiusa nel suo metro e settantadue. Col sapore del tabacco in bocca, pizzicorio piacevole sulla punta della lingua, Roy prese un grande respiro. Fae non sarebbe stata felice. Solo allora notò le robe ammassate nello stanzino dietro il bancone. Ti hanno sfrattato? Chiese con interesse. La vita di merda altrui lo faceva sentire meglio rispetto alla sua di vitaccia. Fece due conti mentali senza mettere particolare impegno nel chiedersi cosa sapesse effettivamente del nuovo barista. Parlava strano e rompeva le palle. Tutto qui. La fidanzatina ti ha cacciato perché passavi troppo tempo nel cesso a farti le seghe e a sistemarti il ciuffo? Abozzò col mento all'infuori al ciuffo biondiccio e acconciato di Cyd. Lo odiava. Rise sguaiatamente, la bocca affilata cacciava fumo come un drago affammato. A pensarci, niente di quella scenetta avrebbe reso felice Fae. Ma sticazzi.
     
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    Timore ormai stantio albeggiava nello sguardo spento di chi non osava più formular pensiero, concepir immagine concreta, tangibile e percepibile. Timore ormai stantio si nascondeva dietro malinconica e stanca espressione, pronta ad accogliere la più temibile, la più oscura delle angosce. Non osava creder possibile l'inganno, fasulla illusione che i suoi stessi occhi avevano scoperto, già prima percepito. Sussultò sconvolgendosi da solo, spaventando l'animo, allarmando la coscienza. Avrebbe fatto una sciocchezza, ne era certo, l'ennesimo e madornale errore laddove v'era ancora in vista, in bella mostra, l'ultima cancellatura fatta a matita, scenario d'un immagine tolta, pellicola tagliata. Distrutto e manomesso, il ricordo sarebbe comunque rimasto, marchiato ed impresso a sangue dentro una mente ormai in subbuglio, dentro una mente ormai presa d'assalto dalla più temibile delle certezze: egli avrebbe obbedito, avrebbe ascoltato e con ciò... con ciò la sua anima avrebbe perito.
    «No, non voglio.» Ma non ci fu bisogno d'alcun pensiero o volere.

    «Stai provando a farti fuori? Vieni che ti aiuto.»
    Si sentì strattonare, prima un calcio e poi l'inveire cupo di qualcuno.
    Qualcun altro aveva deciso al posto suo.

    Mani conserte dettate da uno sguardo profondamente pensante, immerso e profondo, Scanlan Hanegan se ne stava appoggiato sopra il vecchio e lurido lavandino, l'acqua gelida che continuava indisturbata a scorrere. Il cereo volto contratto in quel ben visibile segno di diniego, egli mentalmente continuò a rifiutare, negare l'ormai evidente piaga che il suo stesso destino sembrava aver inconsciamente intrapreso... piaga personificata da un ammasso di muscoli cattivo ora appollaiato sopra il bancone sempre in disordine. Dettata da sottili dita schiuse attorno a fili d'un inerme corpo di burattino, la sua stessa esistenza risultò inutile, banale, del tutto estranea e lontana da chi in realtà avrebbe dovuto viverla per davvero. S'accigliò, lo sfortunato figlio illegittimo, nel sfiorare con un sol e sfuggente sguardo l'uomo ricurvo intento a fumarsi una sigaretta. «Le crisi da emo oggi no, che già mi gira il cazzo. OK?» Trattenne un respiro, il primo secondo terzo fra tanti, cercando di smuoversi, riprendersi e destarsi da quell'inutile tentativo di suicidio. Allungò una mano alla ricerca d'una pezza, e non trovandola s'asciugò il viso prima con le mani, poi col lembo sudicio della maglietta. "Oscenità misto sangue" balenò nella sua testa costringendolo a nascondere un sorriso, piccolo e banalissimo ghigno. Continuò a pulirsi in maniera distratta e del tutto assente, cercando con ogni flebile fibra del suo corpo ad ignorare l'ultimo arrivato che, come granello dentro una scarpa, non riusciva a toglierselo dalla testa. Mai. A ripensarci, era meglio tentar di nuovo la fine, quella morte quasi inutile e lenta... sotto lo scorrere dell'acqua d'un arrugginito rubinetto. Ottimo. Ma dai. Aveva passato settimane a dimenticare, obliare l'impossibile, sopprimere ulteriormente ciò che mai sarebbe dovuto essere, coesistere con la sua stessa persona, entità mortale. Ne aveva confuso i tratti, la voce, il calore con non poca fatica senza indugiar oltre, senza cercar determinate risposte ch'egli temeva, non bramava esser proprie. Eppure il celeste d'un sguardo intenso e quasi intransigente, infuocato, pareva perseguitarlo dovunque andasse, dovunque si trovasse. Ormai non bastava star lontano dal suo stesso corpo, dalla sua insolita e perenne presenza. No. Se lo sentiva addosso, cucito, come marchiato sopra la propria pelle assieme all'inchiostro, assieme ai tagli, agli anatemi impostogli dal tempo. Era il continuo e silenzioso pianto ad egli ignoto, fin troppo sconosciuto da reputar reale, concreto. Mai un sentimento, mai un'emozione da tirar fuori a confronto, capire e conoscere l'infattibile. Cosa cazzo gli stava succedendo? «La fidanzatina ti ha cacciato perché passavi troppo tempo nel cesso a farti le seghe e a sistemarti il ciuffo?» Silenzioso, l'irlandese logorroico non proferì parola, un solo suono come maledetto incartato dentro inutile incantesimo di silenzio. Si ricordò quasi per associazione la mattinata appena passata, quel rincorrere la vita che continuava a togliergli tutto senza mai dargli niente. Crash. Fece cadere una bottiglia, tre bicchiere. Si spostò per raccoglierli rovesciando un secchio colmo d'acqua e altri utensili assieme a vigorose bestemmie in inglese volarono, ricaddero sul Bolgen. Cyd strinse i pugni digrignando i denti mentre viscerale, un tetro e quasi spaventoso suono scivolò dalle labbra nuovamente impastate di sangue, nuovamente impastate d'ansia. Era stanco. Se le leccò controllando la mente, controllando i pensieri ora in subbuglio, ora in guerra contro chi ormai avevano già perso in precedenza e sapevano di perder ancora. Era stanco. Se le leccò controllando la mente, controllando la propria coscienza. Un sol respiro, un sol battito a sostenere, reclamare l'irrealizzabile. «Porca puttana la chiudi quella fogna sì o no?» Sputò veleno striato di rosso, macchiato di sangue mentre come un boato, la voce fece irruzione nel locale rimbombando, facendosi strada nel proprio silenzio. Il cuore saltò uno due tre battiti e il condannato si ritrovò ad annaspare, il respiro rotto da un respiro pesante. Si rialzò, curvo nella propria figura scheletrica, e son un solo movimento gettò dall'altra parte del bancone la bottiglia appena raccolta da terra. «STAI ZITTO PORCA TROIA!!» Cocci, frantumi, schegge di vetro, pezzi d'anima volarono lungo il consunto pavimento e con esso il volere, l'animo e la testa di Cyd. Spinto da feroce follia, aggirò il bancone puntando chi belligerante, non gli aveva mai permesso d'avvicinarsi, cogliere della sua presenza anche solo un inutile ed innocuo centimetro. L'agguantò, pelle coperta di piccoli cristalli, ghiaccio incontrollato, per la spessa stoffa della felpa attirandolo a sé sempre ansimante, gli occhi cerchiati ancor di rosso, di sangue, pupille dilatate, a puntarlo con indegna violenza, rabbia. Fu sul punto d'alzare l'altra mano, lasciarlo andare solo per fargli del male, colpirlo. Poi, malata ed avvelenata, la mente gli propose uno scenario diverso, immagini che lo misero ancor più in difficoltà, le viscere in subbuglio. Ma in quel continuo sovversivo d'una o l'altra parte, desiderio a combattere l'odio verso se stessi ed il mondo, nessuno vi uscì vincitore, nessuno sembrò avere la meglio. Come un ebete rincoglionito, Cyd rimase semplicemente immobile, ad un centimetro da chi voleva sia picchiare che baciare. Per ottenere cosa? Finalmente la morte. «Stai zitto.»
     
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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: suicidio e violenza.
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.
    Le azioni descritte non sono ad ogni modo condonate e sono diretta responsabilità creativa di chi ha realizzato tali contenuti.



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    Le pupille lo pedinavano come due avvoltoi nerissimi. Appollaiato a gambe conserte, la schiena in avanti a formare un uncino piegato su una sigaretta, Roy aspettava la fine, uccello del malaugurio. Casino, una bottiglia e qualche bicchiere per terra, zero a sette per la forza d gravità, ancora schegge in mille pezzi. Impossibile all'apparenza, ma la fine sarebbe arrivata, quando non c'erano più bicchieri da spaccare né bottiglie da disintegrare, quando la rabbia straboccava e distruggere non serviva più. A quel punto la giraffa tatuata avrebbe fatto una scelta: farla finita o riassorbirsi. Avrebbe dovuto tentare qualcosa di più del rubinetto, di meglio dell'affollato Bolgen, la prossima volta Roy non sarebbe entrato. L'altra via era lasciare la rabbia mangiucchiare le pareti interne del corpo lungo e magro, rosicchiarlo fino all'ultimo osso, fino all'ultima scintilla velenosa. E allora la pace avrebbe regnato ma solo per un momento, quello dopo sostituito da un nuovo inizio, altrettanto forte, altrettanto corrosivo. Così era, così erano quelle due forze opposte e contrarie alimentate da un nucleo che avrebbero preferito diverso, non così uguale. Due centri, uno freddo l'altro caldo, strapieni di niente e vuoti di tutto. Per questo aspettava il momento di tregua, i cinque minuti di recupero in cui fare la scelta, il fine primo tempo. Detestabile la somiglianza che vedeva fra loro, insopportabile pellicina stuzzicata dagli incisivi irregolari di Roy, sempre uccellaccio in tuta sul bancone di un locale distrutto, spezzato, spazzato via da angoscia e tormento di quel corpo tutto ossa. Non era turbamento, piuttosto il fastidio di dover fare da balia, baby-sitter senza compenso. E poi attendere non era attività facile per quel corpo sempre attivo, impegnato in qualcosa, a strafare, oppure semplicemente a essere. Strappò la pelle dall'angolo delle dita, la faccia una smorfia con la sigaretta all'angolo della bocca. D'improvviso, le boe nere nel mare grigio-azzurro si stancarono di quel compito e Roy distolse lo sguardo, a tutto disinteressato tranne che alla punta arancione della cicca. In fiamme bruciava, la cenere cadeva in bianco e nero sul ginocchio piegato di Roy, una lancia appuntita fendente aria. Vertebre flesse, piegate da un lato, la mano a presa sulla sigaretta la portava più vicino al volto, all'orecchio. Sfrigolava, il calore la mandava in agonia. La morte aveva modi diversi di farsi sentire, cambiavano in continuazione. Nei timpani di Roy c'erano colpi di mani sulla testa, palmi grandi, dita arrabbiate; c'erano spari e sabbia mossa dal vento, acciaio blindato sbattuto, ermetico e poi, silenzio. Ammetterlo era fuori discussione, ma tutto si aspettava tranne che la fine si scagliasse contro di lui. Lui, che tacito aveva assentito a esserci nel momento più buio e ad aspettare, sul suo trespolo, che Cyd afferrasse la luce. Nessuna parola di conforto anzi, solo scherno e smorfie è vero, ma si era guardato un po' intorno? Non c'era nessuno a parte lui. Una reazione spontanea, l'istinto lo fece sobbalzare nel momento esatto in cui la bottiglia si sfracellava al suolo. Lo guardava di nuovo trasformarsi in rabbia, ritrovando nel viso scarno l'alterazione vista più volte sul proprio riflesso. Era da un pezzo che qualcuno non lo strattonava, la cicca perse presa e dalle labbra schiuse cadde, un rimbalzo sullo scoglio del ginocchio e poi giù, nel vuoto ricolmo di vetro scheggiato. La felpa stropicciata nelle mani dell'altro si stringeva altezza gola, ghigliottina. Mani più grandi di quelle l'avevano preso e fatto di lui ciò che volevano, un nulla che Roy si era ripromesso di non tornare mai a essere. Immobile, l'azzurro degli occhi trapanava Cyd, sfidando il pugno a sferzare il colpo. Il momento di stupore era passato, ora voleva sapere fino a che punto riusciva a spingersi. Che vuoi fare? Colpirmi? Provocare era il modo che aveva di sentirsi potente, al controllo. Se impressionarlo era ciò a cui puntava, la giraffa tatuata tatuata avrebbe dovuto fare di meglio. Le sopracciglia erano due banderuole perse nella fronte mentre il mento spingeva in avanti, accennando al pugno ancora alzato. Paura non se ne vedeva in giro, almeno non appiccicata a Roy, che invece sentiva il fuoco bruciacchiargli gli intestini. Che aspetti, colpiscimi. COLPISCIMI! Urla in faccia, proiettili di rancore. Qualche frazione di secondo o metà di minuto passò, tutto era immobile ma l'aria era scossa dal fremito dei loro respiri. Ancora piegato sul trespolo, il fiato si scontrava con quello di Cyd. L'ho già detto, Roy mal sopportava le attese che riempiva sempre di azioni. Come una saetta le braccia scattarono verso l'alto, le dita sulla guancia destra e sinistra, le labbra sulla bocca, chiusura ermetica. Guardati intorno, coglione, ci sono solo io a impedirti di farti fuori. Uno spiffero, della serie "non ti conviene farmi incazzare". Senza senso come quasi tutto quel che faceva. Nient'altro servì e quello bastò, la presa si allentò sulla felpa e le mani screziate lasciavano la faccia distrutta per spingere indietro le clavicole sporgenti di Cyd, allontanandolo. Con un balzo l'uccello del malaugurio atterrò al suolo fra lo stridio di cocci di vetro, ora libero e ancora rabbioso. Non sapeva molto di Cyd ma una cosa l'aveva capita, erano entrati a contatto con la stessa matrice di cui sono fatti gli incubi, e ancora nessuno ne era davvero uscito. Piegò le gambe e uno schiocco riverberò nella rotula destra che dall'Iraq non era più la stessa, la mano puntata non al pavimento, non alla scarpa, ma alla sigaretta ancora accesa. Soffiò sul filtro, la regola dei 5 secondi valeva ancora no? Fece un sospiro, lo sguardo che s'alzava scontento sul manico di scopa. Mi hai fatto cadere la sigaretta, ingrata testa di cazzo. La ficcò in bocca, inspirando le ridava fiato. Tirò su col naso, uno sguardo intorno alla desolazione che li circondava. A quella vista scoppiò a ridere, cosa ci fosse di così divertente nessuno se lo sapeva spiegare. Siamo io e te in un pub semidistrutto e la fuori a nessuno fotte niente di come finisci tu o di come finisco io. Un grazie per averti salvato la vita è il minimo, brontosauro. Si era rifatto serio. Un raschiare di gola, il suono gutturale di chi si aspetta il nobel per la pace dopo aver ceduto il posto a una vecchia. La prossima volta che ti azzardi a toccarmi ti spezzo in due quel grissino che ti ritrovi come schiena. Pugno chiuso contro spalla, nocche contro clavicola, impatto Roy contro Cyd. Pausa effetto, mano a pulirsi sui pantaloni. Amici? L'aveva tesa fra loro, la mano semi pulita, un piccolo ghigno a denti storti a comparsa sul viso. Roy era il vuoto di senso, l'apatia di un mondo sordo dove tutti se ne fregano di tutti.

    Edited by E.T.PhoneHome - 31/3/2020, 01:40
     
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