My spirit's sleeping somewhere cold until you find it there and lead it back home

Joon x Jungkook

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    1 novembre 2018 - tardo pomeriggio
    Mary Shelley affido a te la mia umile penna e ti chiedo di aiutarmi a rendere questo racconto tanto avvincente quanto terribile, proprio così come l'ho vissuto io. Tramutare i sentimenti e le forti emozioni che ho provato in una serie di ragionamenti consequenziali sarà difficile. Forse tutto ciò è irriducibile in parole. Di una sola cosa sono certo: il dolore al braccio mi costringe ad un'agonia tremenda inenarrabile. Mi sveglio ora dal un sonno che mi sembra essere durato in eterno e, come prima cosa, mi sono accertato di non perdere ulteriore sangue dalla ferita; purtroppo non ho avuto ancora il coraggio di guardarla. Ho paura, ma sono convinto di aver fatto la giusta cosa. Non è il dovere di ogni brava persona che si rispetti aiutare il prossimo? Mi permetto di divagare, di fare qualche necessario passo indietro. Il mio dolore è una mia certezza personale. La morte è una certezza universale. Certo, leggendo Kierkegaard sono sempre stato costretto a convenire con lui su un'atroce verità: "nella vita l'unica cosa certa è la morte, cioè l'unica cosa di cui non si può sapere nulla con certezza". Ma che succede quando i morti tornano in vita? Shelley, lei che è una grande scrittrice e conoscitrice della materia avrebbe potuto darmi una risposta, ne sono certo convinto, ma purtroppo sono costretto ad interrogarmi nel silenzio della mia stanza mentre scribacchio queste prime impressioni a fresco sulle pagine del mio diario. Assunta ora la certezza della morte, nera paladina della vera ed ultima giustizia, come spiegarsi il ragazzo che dorme nella stanza degli ospiti proprio qui, a pochi passi da me? Passeggiavo nei pressi dei limiti della città, ora nemmeno sono capace di rammentare... quando all'improvviso mi chiesi «cosa vedono i morti? Provano qualcosa? C'è qualcuno che...» (da rivedere, da prolungare, sii più descrittivo) Ed all'improvviso, in un moto di meravigliosa agitazione concitazione, le mie domande trovarono risposta. Frammenti, sensazioni, e fulminee impressioni mi attraversarono, come se un fiume in piena mi avesse travolto ed mi stesse guidando avesse preso a guidarmi con la sua corrente verso il suo oscuro delta. Eppure, per quanto irto di pericoli quello scorrere irrefrenabile fosse, dovevo sapere! Lei può senz'altro capire, Lady Shelley, cosa significhi avvertire la fame di conoscenza, il bisogno di saziare la curiosità, di non fermarsi davanti alla superficie effimera delle apparenze. Allora mi sono spinto oltre, ho continuato a lasciarmi guidare dalle impronte che la morte lasciava dentro di me, e quelle peculiari percezioni mi colpivano man mano con crescente forza. Avvertivo le mani umide, come se le avessi immerse nella terra fertile ed essa le stesse abbracciando intrappolando, stringendo in una morsa dalla quale ero ansioso di liberarmi. L'olfatto era imbrigliato sotto il peso della terra, di cui era solo possibile avvertire il petricore; nessuna salvezza, nessuno spazio, nessun respiro, il centrale elemento che viene a mancare nella morte, assieme al movimento. Eppure proprio la morte che scorreva dentro di me era densa, agitata, viva. Com'era possibile? Lady Shelley, proprio lei ha scritto "la vita e la morte apparivano a me come limiti ideali che avrei dovuto oltrepassare, versando un torrente di luce nel nostro mondo oscuro"; spero di trovare nelle sue sagge congetture narrative delle verità da cui attingere per spiegare gli strabilianti avvenimenti della scorsa notte. Sebbene non percepissi alcun moto vitale, le sensazioni che mi avevano investito erano pulsanti, colme di terrore, incatenate ad un limbo indecifrabile di non-morte. Tutto mi era sconosciuto, eppure, quando i miei passi iniziarono a farsi più frettolosi, una scintilla di speranza divampò in me: forse, avrei potuto scoprire il mistero della creatura che mi stava attirando a sè di lì a poco, e certamente aiutarla. L'istinto selvaggio, la vista offuscata, lo sguardo che si spostava ansioso da una parte all'altra mi suggerivano di proseguire, di essere la chiave della salvezza di chiunque si trovasse in quella situazione di pericolo. (prolunga questa parte) E mentre la luna, alta nel cielo, bagnava della sua tenue luce quel grembo mortale, non riuscivo a credere agli occhi tornati miei: una mano tremante era spuntata dal terreno, fiore marcio ma sbocciato con fierezza nella notte che assottiglia il velo tra i due mondi.

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    Dolore. Buio. Paura, tanta paura. Riaprire gli occhi e gonfiare il petto in falsi rantoli, simulazioni grottesche di vita ormai perduta, era l'ultima cosa che Noah si aspettava che succedesse, dopo aver subito penose torture all'interno delle mura del Mordersønn Institute. Era morto, questo era accaduto. Le palpebre si erano appesantite, il respiro affievolito ed il cuore si era fermato, definitivamente. Eppure, proprio il ragazzo che aveva perso ogni segno di vita si muoveva, cercava di evadere, di ritornare nel mondo dei vivi, di avvertirne il calore, la carne, le membra pulsanti. Si dimenava, senza riuscire ad andare da nessuna parte. Ciò che aveva attorno a sè non erano le mura gelide di quell'ospedale mostruoso, ciò che vedeva non era l'oscurità della benda che gli era stata forzatamente avvolta attorno alla testa, ma qualcosa di peggio. La terra lo aveva seppellito, cadendogli addosso e riversandosi su di lui sino a schiacciarlo, ed il buio era diventato opprimente, soffocante, insopportabile. Tuttavia non sentiva il fiato mancargli, il sangue corrergli nelle vene velocemente per via del terrore che provava. L'interno del corpo di Noah era bloccato nel suo stato comatoso, occupando uno spazio liminale tra la vita e la morte sempre più sottile e talmente alieno da lasciar uscire copiose lacrime dai suoi occhi semichiusi, ora dorati e brillanti. Non aveva altra scelta ed altro impulso se non quello di liberarsi, di tentare di salvarsi con tutte le sue forze, poichè per quanto pregasse di ricevere aiuto, niente e nessuno sarebbe arrivato. Si sentiva così solo, vedeva in quella oscurità in cui affondava le dita nient'altro se non il nulla che sapeva di essere. L'abbraccio della terra era diventato asfissiante, un giogo terribile da cui non sapeva se si sarebbe sganciato, eppure scavava, scavava rabbiosamente in cerca del cielo, ora che era stato violentemente ed ingiustamente bloccato sotto di esso. Riuscì a lacerare facilmente la sacca di tela che lo intrappolava, e vedendosi cadere altro terreno sulle membra e sul volto, Noah lo ricacciò velocemente, terrorizzato di non riuscire più ad uscirne ed intimorito dalla presenza di qualcosa, qualcosa di terribile, di strano e di agghiacciante dentro di lui, occupargli la gola nel lasciar uscire i primi suoni. Non erano grida sordide d'aiuto, ma spaventosi crepitii che lo confusero ed atterirrono ancor di più.
    Le lacrime non riuscivano a smettere di cadergli dagli occhi, pronti a schermare la vista dai detriti abbassando prontamente le palpebre, e quelle gocce salate nel frattempo bruciavano, bruciavano come fossero infuocate, rilasciando le ultime tracce di vita e sanità mentale rimaste nella mente di Noah, ormai abbandonato alla paura ed ai suoi istinti più ferini. Il movimento troppo lento e pesante delle sue braccia divenne sempre più erratico e sregolato, finchè quei primitivi gesti non iniziarono a dissipare l'enorme peso della terra. Il panico tuttavia non si placò, divenendo ancor più sottile, strisciando come un serpente su per le membra non-morte di Noah, avvolgendole nelle sue spire e rendendo così la sua lotta per la libertà ancor più frenetica e disperata, una cieca rincorsa verso la sopravvivenza. Il tempo sembrava essersi assottigliato ed al tempo stesso dilatato, quella terra umida non finire mai, il bisogno di uscirne sempre più impellente. Quella crisalide letale era stata rotta, ed una nuova creatura era emersa da essa. Noah era scomparso, divorato dal mostro raccapricciante che lo occupava e lo inorridiva, guidandolo però come un'invisibile forza verso la salvezza. Tuttavia, per quanto fosse inarrestabile, impaurito ed aggrappato alla sua esistenza, il mostro era anche affamato. Aveva iniziato banchettando con le ultime deliziose gocce di umanità di Noah, divorandole come fosse stato a digiuno da tutta la vita, e poi proseguì in cerca di qualcosa di più tangibile. Sarebbe passato del tempo, prima che il ragazzo capisse d'essere lui la creatura bramosa ed innaturalmente ingorda che muoveva le sue mani, donava forza alle sue braccia e moto alle sue membra esanimi. Tuttavia, nonostante l'orrore e l'abissale paura, Noah procedeva senza fermarsi, indomito, verso l'alto. Era rimasto sepolto nella terra così come le sue stesse emozioni, terribili e paralizzanti, così impietose da strappargli non solo la lucidità ma anche la voce, ormai del tutto perduta e sostituita da quei spaventosi click che inquietanti ed animaleschi gli sgorgavano fuori dalla gola, segni del suo furioso sforzo per emergere dalla sua stessa tomba e finalmente saziarsi, attaccare, liberare ogni singola stilla di rabbia verso il destino triste ed immeritato che aveva spezzato la sua vita. Le dita affondavano nella carne tenera della terra, strappandola pezzo per pezzo ed allentando la sua morsa in un processo ansioso e concitato, guidato solo da un id perduto nel terrore e nella fame.
    Ed ecco che, dopo interminabili minuti, il buio s'iniziò a diradare sempre più, finché dal grembo del suolo non emerse di colpo la mano di Noah, rinato nella morte. Si fece largo nel terreno sempre di più, finché non emerse del tutto, strisciando fuori dal suo sepolcro dimenticato prima con entrambe le braccia e poi con la testa. Dalle labbra inaridite, da cui colava ancora della terra che fino a quel momento aveva cercato di riempirle, si fece largo un suono più informe, un rantolo privo di reale intonazione che non fosse un graffiare anormale della gola, rilasciando così la prima spaventosa impronta di Noah nel mondo dei vivi. Si aggrappò allora con tutte le forze a quella stessa terra che l'aveva inghiottito, tirando disperatamente sino a strisciare con fatica fuori dalla tomba ed uscirne del tutto. Finalmente la luce della notte era tornata a bagnare il suo corpo, sporco ed ancora avvolto nelle vesti che lo avevano ricoperto in ospedale. Il cielo era limpido e nero, costellato di astri malinconici, e sollevando appena lo sguardo verso la luna, Noah si ritrovò a rifuggire persino la sua luce fioca, troppo radiosa per i suoi occhi dorati ancora troppo abituati all'oscurità. Le ginocchia affondarono nel terreno e di lì a poco il ragazzo si ritrovò in piedi e tremante, sebbene la sua postura quasi accucciata ne suggerisse la natura impaurita e sovrannaturale. Davanti a lui si trovava inaspettatamente un uomo, la cui ombra si allungava nel paesaggio notturno sino a sfiorare le membra di Noah, così spaesato, spaventato ed affamato da aver perso se stesso, cedendo alla natura selvaggia della creatura che era diventato. Sulle prime si accovacciò appena un po' di più, ancora terrorizzato dall'esperienza appena vissuta e dalla potenziale minaccia della persona sconosciuta di fronte a sé, eppure il suo odore gli suggeriva di difendersi e, possibilmente, nutrirsi. Allora, quando la misteriosa controparte si avvicinò ulteriormente, Noah scattò in avanti, in un pericoloso moto ferino d'aggressione con cui attaccò l'altro uomo, bloccandolo con gli arti nel tentativo di divorarlo, ed affondando così i denti nella carne del suo braccio destro.

    Wake me up inside
    Call my name and save me from the dark
    Bid my blood to run
    Before I come undone
    Save me from the nothing I've become.



    Edited by ‹Alucard† - 5/1/2020, 19:03
     
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    Initium. Aveva la testa china, gli occhi chiusi, le mani intrecciate e appoggiate all'estremità del manico della pala. Concedi il perdono e la pace a tutti i nostri fratelli defunti, perché immersi nella beatitudine ti lodino senza fine. L'avevano sepolto lontano dall'ombra del muretto, ormai diventata lunghissima perché il Sole stava stendendo, per le ultime volte, i suoi raggi su quel posto. Lì, dov'è la luce. È meglio. Il suo collega non aveva potuto far altro che accontentarlo. Avevano scavato a lungo ed erano stanchi. Perfino quel luogo, pensava, sarebbe stato raggiunto dal Suo sguardo. In quel momento però erano due occhi scocciati a fissarlo. «Che stai facendo?» Non che avesse potuto farci caso, troppo immerso nelle brevi preghiere per poter prestare attenzione a nient'altro che non fosse la recita dell'ultimo ossequio. «Adesso capisco perché nessuno vuole venire a fare certi impieghi con te. Andiamo? Non serve a niente. Abbiamo da fare». Il giovane osservò la schiena del collega allontanarsi, fino a quando non si trovò nuovamente accanto a lui, prendendo posto sul sedile del passeggero. «Hai caricato su le pale?» Annuì una sola volta. Mentre si allontanavano, una delle due abbandonò il retro del pick-up e lo sguardo del giovane si puntò sullo specchietto retrovisore, al cumulo freddo di terra. Che la sua anima non soffra pena alcuna.

    Ω


    Qual è il prezzo da pagare per avere delle risposte alle proprie domande? Ottenere un elemento in più, abbandonarle un altro. Era un ciclo continuo ed inarrestabile, come tutto, del resto. È possibile stabilire con certezza quanto si guadagna e quanto si lascia? Non era una novità, in fondo, che la sua mente fosse impegnata a dilettarsi fra frasi e pensieri lasciati in sospeso, come fili a cui appendersi in modo da tirarsi lentamente su, in attesa che qualche più grande e succulento interrogativo potesse coinvolgere completamente la sua attenzione. Sembrava muoverli lentamente, sfiorarli appena, mentre con le dita sollevate in aria dava l'impressione di star sbrogliando un ricamo ancora troppo lento per poter soddisfare pienamente gli occhi che lo stavano osservando. Non avrebbe potuto far altro se attendere, sperando che la bussola della sua mente riuscisse a registrare qualche attrazione magnetica abbastanza forte da richiamarlo a sé. E fu proprio così quando accolse a braccia aperte un tetro accordo iniziale di pensieri; come sempre non si arrestò, non scosse la testa nel reputare ridicola quell'apertura, quello spiraglio da cui fuoriusciva esclusivamente una paradossale luce nera. Permise alla mente di vagare, chiuse gli occhi, si focalizzò sul dardo in tensione pronto ad essere scoccato così da potersi ricongiungere al centro. Esiste un vero risveglio dopo la morte? Il motore dell'auto su cui stava muovendosi era silenzioso e pur non essendo in quel momento alla guida, parve che il signor Roald fosse quasi in grado di seguire la direzione mentale verso cui lo stesso Joon stava puntando. È una mia impressione? Gli occhi castani del giovane interrogarono lo spazio che gli scorreva velocemente intorno: l'area periferica di Besaid non gli era sembrata mai più spettrale di quella sera. Ma, prima che potesse lasciarsi andare ad un nuovo torpore delle membra, poté avvertire la sua concentrazione alterarsi, fuoriuscire e ritornare repentinamente dentro sé nel tempo di un battito di ciglia. Si sentì mancare l'ossigeno nei polmoni eppure poté constatare con una rapida occhiata di trovarsi proprio dov'era seduto un momento prima, senonché il suo fiato era stato mozzato dalla terribile sensazione provata in un solo istante. Una mano si affrettò a posarsi sul proprio petto: il cuore batteva ad un ritmo affannato e alterato. Era vivo, eppure...
    Con la stessa urgenza afferrò la spalla del suo autista e, strattonandolo più del necessario, si accertò di essere ascoltato. «A-accosta! Accosta l'auto». L'ordine doveva risultare di sicuro bizzarro alle orecchie dell'uomo ma ad ogni modo venne eseguito e, come se fosse stato richiamato da un lamento che non riusciva ancora ad identificare, Joon scese dall'auto senza curarsi nemmeno di portarsi dietro ciò che sarebbe stato necessario per coprire gli arti dal freddo autunnale. Prima che le mani del signor Roald potessero trattenerlo il ragazzo aveva già compiuto diversi metri: gli occhi assenti e circondati da un buio di pece, in grado di vedere tutt'altro rispetto a ciò che era, sulla superficie, illuminato dalla luce lattea della Luna. Un odore acre si stava mischiando alla terra, originaria fonte di vita e porto finale per gli ultimi respiri. Dove sei? Dove ti trovi? Dov'è questo limite? Il buio non voleva dargli pace. Annaspavano, respiravano all'unisono, lottavano contro la coltre pesante di terra in cui erano stati limitati entrambi. Uno continuava a scavare, l'altro a correre, affidandosi solo al cieco istinto ferino che aveva voltato le spalle a quelli come lui da millenni ormai. Un primordiale sapore gli stava invadendo la bocca: doveva costringersi a tornare in sé. Rallentò il passo, inciampando in quella che riconobbe essere una pala solo quando, finalmente, i suoi occhi tornarono ad appartenergli. «Eccoti qua...» Un sussurro abbandonò le sue labbra e, incapace di comprendere fino in fondo ciò a cui stava assistendo, non poté fare a meno di identificarsi in nient'altro che non fosse quell'attrazione maniacale che lo pervase completamente. Un passo, una mano, un secondo passo, un braccio. Perché non aveva paura? Non provava ribrezzo e terrore? Perché non si avvicinava alla creatura brandendo la pala, pronto a difendersi da quello che, senza ombra di dubbio, era il risveglio di qualcuno alla cui esistenza era stato messo un punto? «Ehi tu- mi senti? Sai dove ti trovi?» Presuntuoso da parte sua, dato che nemmeno Joon aveva la più pallida idea di dove si trovasse in quel momento. Lo osservò strusciare fuori dalla terra e non provò nient'altro se non una grande sensazione di liberazione, come se ancora si trovasse nel corpo di quella creatura che stava trascinando il suo corpo ai limiti della vita e della morte. Come ci sei finito là sotto? Era deciso ad eliminare la distanza che li separava, trasportato dalla incauta curiosità che, di lì a poco, gli avrebbe iniziato a chiedere il riscatto per via la sua impudenza. «Non ti farò del male, sono disarmato». Incapace di leggere le espressioni del volto della creatura si tuffò ad occhi chiusi nel baratro, non comprendendo che si sarebbe dovuto arrestare invece di continuare a fare dei passi in avanti verso il non-morto. A quanto pareva, alla fine della discesa l'attendevano degli aguzzi spuntoni. Affondavano nella sua carne, dilaniandola in un modo inumano, nutrendosene senza offrirgli altro scampo che non fosse quello di dimenarsi come una preda catturata nella violenta trappola di un cacciatore. Un grido strozzato gli si bloccò in gola e venne sostituito da degli affannati mugolii di dolore. Fu il corpo a prendere il controllo sulla mente, o almeno così immaginò che si svolsero da quel momento in poi le vicende. Prima che potesse arrestarsi nei movimenti si gettò a terra, creando della distanza con l'altro corpo muovendo in modo erratico i piedi contro l'umido terriccio. Eccola. Allungò la mano sinistra, assottigliò lo sguardo. L'umile strumento si fece improvvisamente lama degna di uno scontro e, nell'incontrare il volto della creatura, ne attraversò una parte. Alla tachicardia pulsante d'adrenalina di Joon, che gli rimbombava nelle orecchie, si unì lo scricchiolio angosciante delle superfici che arrestarono il movimento della pala: pelle, derma, ossa, mascella, zigomo. Scusami. La suola della scarpa di Joon incontrò le ginocchia della creatura e, nel rialzarsi, non si accorse nemmeno di essere stato aiutato dalle mani angeliche dell'uomo che da quel momento in poi sarebbe stato il suo unico punto di riferimento. Da quelle stese mani pendevano due piatti della bilancia: vita e morte. Dove sarebbe caduto l'ago?
    Il respiro affannato rendeva difficile l'articolare bene il messaggio e Joon cercò di affrettare il suo supervisore, mimandogli con la mano sinistra la direzione da prendere. «Io ce la faccio. Tu prendi lui, per favore». Non esitò nel pensare a mettere in salvo quel giovane che fino a non molto tempo fa era stato in grado di mettere a repentaglio la sua vita: che sarebbe successo? A che risultati l'avrebbe portato la sua spasmodica e incosciente ricerca di risposte? Continuando a stringere la ferita e digrignando i denti non poté far altro se non seguire il signor Roald verso la vettura e, insieme al corpo, ai piedi dei sedili posteriori venne abbandonata anche la pala che era stata fonte della sua salvezza. «E quella?» Joon si limitò a muover di nuovo la mano sinistra, incitando il signor Roald a mettersi alla guida. «Ti spiegherò tutto domani», iniziò, prendendo posto a fianco del supervisore, «sempre che sarò ancora vivo». Un sorriso luminoso venne strappato dalle sue labbra per poter far spazio ad una smorfia di dolore. Si abbandonò contro il sedile e, chiudendo gli occhi, si lasciò trasportare dal rapido movimento delle ruote di quella macchina che sarebbe potuta diventare inaspettatamente un carro funebre per entrambi i giovani. Non si accorse nemmeno del fatto che il motore si spense, troppo impegnato a registrare tutte le fasi del proprio sudare freddo. Una volta uscito si fece immediatamente vicino al signor Roald che gli aveva aperto la portiera solo per poi spostare l'attenzione ai sedili posteriori, spalleggiandolo per comunicargli di farsi da parte. Devo vederlo... per bene. I suoi occhi si allargarono e per la prima volta dopo quella che gli sembrava un'eternità parve essere in grado di distogliere l'attenzione dalla ferita aperta e sanguinante. Fece in modo che il signor Roald si spostasse e, trasportato fino a raggiungere il grado d'ipnosi, si allungò verso il corpo del ragazzo ancora disteso sui sedili posteriori dell'auto. «È meraviglioso». Era incredulo: com'era possibile ciò che stava accadendo proprio sotto ai suoi occhi? L'ombra della sua mano sfiorò la ferita del giovane che sembrava ormai libero da ogni tenebra. Lo sguardo di Joon ne registrò la rapida e assurda ricomposizione ma, prima che potesse azzardarsi a mettersi nuovamente in pericolo, la voce tuonante e decisa di Roald lo fece trasalire. «La prego, non si avvicini. La porto dentro. Ce la fa a camminare? Mi occuperò io di... questo». Il giovane decise che avrebbe eseguito gli ordini, rimandando le domande a più tardi. Annuì alla richiesta del suo aiutante e, seppur tremante, riuscì a raggiungere l'ingresso della casa. Quella sarebbe stata una storia che, di sicuro, non avrebbe mai potuto lasciare i muri di quella casa: scegliere di portare il ragazzo spuntato dal terreno a casa era stata la decisione migliore. Senza poter comprendere come, trovò il coraggio di abbassare lo sguardo lungo il proprio braccio sanguinante e che non aveva smesso di trattenere con la mano sinistra. È stato questo il prezzo da pagare? Sulla camicia bianca e stracciata in quel punto si erano già cristallizzate le prime macchie, testimonianza del fatto che il tempo era andato avanti nonostante tutto. Ciò che era appena successo era già diventato passato, ritornato al groviglio interminabile del caos dopo essersi mostrato ai suoi occhi come terribile presente. Un piccolo ricordo dal cosmo esclusivamente per lui: sarebbe potuto morire in quel momento, avrebbe potuto abbandonare quel giovane al suo incerto e oscuro destino, ma non sarebbe cambiato nulla. Il sangue si sarebbe eventualmente arrestato, il suo viso fatto più pallido. Le macchie asciutte. Prima che potesse rendersene conto crollò contro il pavimento freddo dell'ingresso. L'ultima cosa che gli parve di ricordare era il caldo abbraccio delle sue coperte.
    Che strana sensazione, quella di risvegliarsi mentre gli effetti del narcotico abbandonano le membra. Un occhio si aprì prima dell'altro, un segreto testimone dello spostamento dell'equilibrio che era avvenuto nell'asse della vita di Joon. Sembrava che l'ago fosse andato a piegarsi verso l'opzione per cui, sinceramente, nonostante la goliardia della serata precedente, aveva da sempre parteggiato. La creatura... Forse era giunto il momento di smetterla di appellarsi a quell'essere umano in quel modo. Chi era lui per stabilire con sicurezza di essergli distante, di essere altro rispetto a quel giovane che si era riappropriato, con le unghie e con i denti, del respiro e della vita? Sarà ancora in vita? In fondo, aveva avuto la fortuna di provare le sue stesse sensazioni per una manciata di minuti. Una tetra smorfia si appropriò del viso di Joon. La testa gli girava parecchio, ma non abbastanza per interrompere il flusso di domande e pensieri che, ben presto, trovarono sfogo sulle pagine del diario che non abbandonava mai la superficie del suo comodino. Dalla fioca luce che proveniva dalle finestre coperte da uno strato di lussuose tende poté intuire che fosse ormai pomeriggio inoltrato e, solo quando allungò la mano verso l'orologio da polso abbandonato sul mobile di fianco al letto, allora poté averne la conferma. Erano passate da pochi minuti le sei di pomeriggio. Sapeva che il signor Roald non aveva lasciato che l'occhio vigile si addormentasse su nessuno dei due ragazzi presenti in casa - Joon sperava ancora di non condividere il tetto con un morto -, proprio per questo, lottando contro il ruggente mal di testa che l'assalì non appena si alzò in piedi una volta registrate le sue memorie più recenti, si decise a raggiungere a passo incerto e traballante la camera degli ospiti. È vuota. Stupito dall'assenza del signor Roald, Joon fu veloce nell'individuare la figura del giovane al di sotto delle coperte. Era una stanza accogliente, in cui prevalevano i colori caldi e il legno, con qualche tocco di design più moderno solo in determinati pezzi del mobilio. Il letto era ampio, sembrava fagocitare completamente la figura di quello che, ad uno sguardo più attento, si rivelò essere un giovane ragazzo. Che fine ha fatto la ferita? Un taglietto innocuo, a malapena un graffio cicatrizzato. Le iridi castane di Joon furono momentaneamente trascinate a diverse ore prima. Scosse la testa per levarsi dalla mente l'immagine di quell'apertura sanguinante e, prese cautamente posto al lato del letto. Stava riaprendo gli occhi? Il giovane si schiarì la voce, portando il pugno sinistro alle labbra, incapace di prevedere quanto profonda, per via del lungo sonno indotto dai farmaci, sarebbe risultata la sua voce alle orecchie dell'altro. «Ehi, tu. Mi senti? Sai dove ti trovi?» Ripropose, con cautela. «Sono Joon. Non ti farò del male. Sono innocuo».

    Edited by Kagura` - 28/5/2020, 18:39
     
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    «Ehi tu- mi senti? Sai dove ti trovi? Non ti farò del male, sono disarmato». Come se fossero state pronunciate in una lingua lontana ed aliena, persa in un tempo ed in un luogo a cui non apparteneva più, Noah percepiva ogni parola senza poterla comprendere, fantasmi di una natura che più non corrispondeva alle sue forme. Era intrappolato nei suoi sensi ferini ed in istinti che non avevano nulla né di umano, né di animale, oramai propri di uno stato completamente sovrannaturale e guidato dalle emozioni più intense e dalla fame più selvaggia. Non aveva idea di chi fosse l'uomo che era davanti a lui, nè quali fossero le sue intenzioni; avrebbe potuto ferirlo, intrappolarlo, ucciderlo, o ancor peggio, sfuggirgli. Quell'ombra che si allungava su di lui ammantata nella notte avrebbe potuto essere molte cose, ma ciò che Noah vedeva attraverso gli anelli dorati delle sue iridi non era altro che una preda, carne fresca e viva di cui desiderava nutrirsi. Respiri pesanti ed irregolari emergevano dalle sue labbra, non perchè necessitasse di aria per sopravvivere, bensì per imbrigliare la sua smaniosa brama sino a poterla liberare nel momento giusto. Era bastato un movimento, un passo avanti, e finalmente il sapore acre della terra si dissolse a favore di quello del sangue e della carne, strappata dal braccio del povero ignoto malcapitato, ora fermo nella stretta della mascella e degli arti di Noah. Udiva i suoni pregni di sofferenza emergere dalle membra della sua preda ma non se ne curava; non gli interessava del suo dolore, della sua lotta per la liberazione e la sopravvivenza. Ormai era anch'egli un morto che cammina, una vita destinata ad essere spezzata, distrutta pezzo dopo pezzo, e Noah avrebbe continuato a mangiare fino a sentirla appassire sotto i denti e sulla lingua. Più l'uomo si divincolava, più lui stringeva la presa, nel tentativo di fermarlo in ogni sua azione e costringerlo a soccombere. I dolorosi mugolii gli scivolavano addosso come la terra che gli ricadeva dalle membra in quei furiosi movimenti, e chiudendo gli occhi, Noah si abbandonò all'unica beatitudine a lui concessa, ora ritrovata nella morte di un altro essere oltre che nella propria. Gli occhi dapprima spalancati quindi si chiusero, nell'unico vagamente umano segnale di godimento in quell'innaturale pasto che imponeva a Noah di non fermarsi sino a che non fosse stato completamente sazio, riempito della vita pulsante che non possedeva. Strattonato a terra dal movimento dello sconosciuto, tentò immediatamente di riprenderlo, ora invaso da una fulminea rabbia che emerse in piccoli ma inquietanti suoni, veloci e frammentati proprio come il caos che sembrava essersi impadronito di lui alla mancanza della preda. Gocce dense di sangue cremisi colavano dal mento di Noah, ancora fin troppo immerso nella frenesia della fame per riconoscere appieno la minaccia imminente dell'ultima disperata difesa messa in atto dalla sua preda. Un colpo secco, freddo contro il volto, e di nuovo tornò il buio.

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    Non ricordava di aver guardato colori così vividi da anni. Quando scappi di città in città e di persona in persona per non perdere te stesso, tutto sembra acquistare la stessa sfumatura nell'unico accecante colore della sopravvivenza, conquistata giorno per giorno, passo dopo passo. Eppure quell'acerbo tramonto era così meravigliosamente vivido, brillante nelle sue luci morenti, così rosso, arancione, viola, così malinconico ed infinito. Come nel fiorire di ferite d'amore sulla pelle, anche quei colori sbocciavano sulla distesa del cielo, sanguinando l'uno nell'altro, riversandosi in tinte intrecciate in un unico abbraccio. Sotto di esse, tracciato come in china era, il profilo della foresta tagliava con la sua sagoma discontinua i toni carnali del crepuscolo, trasformandosi nella loro degna cornice. Le palpebre semichiuse di Noah si aprirono del tutto, pronte ad immergersi in quel mare di colore, l'aria che pizzicava le guance con il suo leggero freddo. Non c'era nessun altro seduto su quei gradini bianchi, solo uno spirito di bambino che nelle sue piccole mani reggeva tutte le speranze di una vita. Non sapeva dove sarebbe andato, che cosa sarebbe stato di lui. Di fronte, una strada liscia era spianata in una linea che non trovava fine, e alle sue spalle, una casa in legno chiaro popolata da sbiaditi ricordi di un passato ormai lontano. Eppure non aveva paura. Nel raccogliere in ogni respiro promesse di un futuro ormai prossimo a crearsi, Noah avvertiva una profonda pace pervaderlo, affondare in lui le sue radici e trattenerlo lì ancora un altro po'. «Non c'è fretta, puoi restare quanto vuoi, ed andartene quando sarai pronto.» Era in viaggio, teso verso il domani, ma solo per il momento si sarebbe fermato, avrebbe disteso le gambe e sollevato la testa, per godere in silenzio dello spettacolo del tramonto.

    •••

    Ora appena ricominciata, l'esistenza di Noah sembrava essere costellata continuamente da risvegli e precedenti oscurità. Aveva chiuso gli occhi in America per poi riaprirli in Norvegia, l'aveva fatto una seconda volta come risultato del rapimento da parte del Mordersonn Institute, durante il quale le sue palpebre si erano abbassare un'ultima volta per poi inaspettatamente risollevarsi, e lo avevano fatto nuovamente, in un moto vitale che non avrebbe dovuto appartenergli, dopo essere stato salvato da uno sconosciuto. Ancora avvolto nella semioscurità, Noah ricordava le sue flebili preghiere inascoltate e quel terribile minuto di pura agonia sulla soglia della morte, sopraggiunta troppo lentamente per risparmiargli quell'ultimo dolore impossibile da ricacciare, in una debolezza impropria per membra giovani come le sue. Era riuscito, faticosamente, a raggiungere la sua definitiva liberazione, e non si era mai sentito così solo; aveva cercato, in quei momenti finali, la mano di sua madre, incrociando invece il vuoto. Aveva cercato qualcosa, qualcuno che lo calmasse nel momento in cui la paura di chiudere gli occhi era arrivata comunque e nonostante fosse per lui un sollievo, e ritornando bambino nel momento della fine come a molti accade, aveva invece compreso di essere stato abbandonato. Ed un bambino si sentì anche in quel momento, in uno spazio ed un tempo sicuramente poco familiari. La sua testa affondava in un cuscino soffice e liscio, il corpo appena sveglio si muoveva in leggerissimi gesti sotto delle pesanti ma accoglienti coperte, il cuore batteva regolare. Pressando appena il naso contro il guanciale, percepì un buon odore, a lui però sconosciuto. «Ehi, tu. Mi senti? Sai dove ti trovi? Sono Joon. Non ti farò del male. Sono innocuo». Una voce incontrò il suo udito, anch'essa estranea eppure straordinariamente vivida rispetto a quando… Una mano volò immediatamente contro il petto, nel tentativo di fermare il riflesso di disgusto che in una convulsione si era impossessata repentinamente del fisico di Noah. Ricordava ogni cosa, seppur non troppo chiaramente, tornatagli alla mente d’un tratto. Era stato sepolto vivo? No, non era morto, ma rinato, sotto terra. Lo sapeva, sentiva ancora il sapore del terreno, del sangue e della carne sulla lingua e scivolargli giù per la gola. Che cosa era diventato, prima di perdere i sensi? Sportosi dal bordo del letto e lasciando rimbalzare lo sguardo ovunque tra quelle mura ignote ed ospitali, Noah trovò ed agguantò finalmente il cestino metallico posto sotto il comodino dai toni caldi e lignei, avvicinandolo così al volto il più possibile per liberarsi dall'opprimente peso dei più recenti ricordi, che gli avevano stretto lo stomaco in una nauseante repulsione.
    !!E' presente la descrizione di un attacco di panico.
    Si accorse solo dopo, tra un ansito e l'altro, di aver ripreso davvero a respirare, e di non essere solo. Avrebbe dovuto provare timore, essere impaurito dalla presenza di quel ragazzo che non aveva mai incontrato - Joon -, non fidarsi della sue parole perchè terribilmente simili a quelle che gli operatori del Mordersonn avevano pronunciato durante la sua prigionia. Eppure, gli credette. Puntò lo sguardo sul suo braccio fasciato, e sfiatando appena dal naso per evitare un'altra capriola dello stomaco, lasciò che le iridi vagassero su di lui sino ad approdare al suo volto. Quel ragazzo possedeva lineamenti nobili ma gentili, il suo sguardo sembrava sinceramente premuroso e la sua postura non aggressiva. Non avrebbe dovuto essere lui, a rassicurare il prossimo di essere innocuo. Colto da quella consapevolezza, e sforzandosi di realizzare di essere finalmente libero dalla terra che fino a poche ore prima lo schiacciava, Noah non era in grado di calmare il fiato, ancora colto in quegli spasmi regolari e veloci tipici di una disperata lotta per l'aria, una che lui non pareva aver concluso una volta strisciato fuori dalla sua tomba. Si scoprì di più, sino a rivelare tutto il torace, ed i vestiti d'ospedale che lo fasciavano erano stati cambiati, a favore di una comoda maglia bianca ed un paio di morbidi pantaloni neri.. o grigi? Il primo impulso di Noah fu quello di uscire dal letto, correre verso la prima finestra disponibile e uscire, allargare le braccia e sentire il vento finalmente tornare ad accarezzarlo e a regalargli nuova vita. Tuttavia, non gli fu possibile. La stanchezza era ancora troppa, gli sforzi compiuti ancora pesanti su ogni muscolo, e nell'osservare l'altro uomo di fronte a lui, non potè che avvertire il panico farsi sempre più insistente. Cosa ne sarebbe stato di lui ancora una volta? Era stato davvero capace di fare del male in quel modo così grottesco ad un altro essere umano? Non si accorse nemmeno delle lacrime calde che presero ad ammassarsi nei suoi occhi sino a scivolargli giù per le guance, gocce in cui era racchiusa tutta la rabbia, la paura, la disperazione e l'incredulità che avevano legato un'esistenza all'altra, due fasi della stessa vita spezzata nel mezzo. Poderosi singhiozzi scuotevano il corpo di Noah, lentamente rannicchiatosi su se stesso nel vano tentativo di proteggersi dall'ansia e dal dolore che l'avevano sopraffatto, e solo dopo interminabili minuti si sforzò di riportare lo sguardo su Joon, che più che imprigionarlo sembrava averlo salvato. Tirò su col naso, provando a calmare il respiro, e delineando nuovamente le fattezze dell’altro con gli occhi, Noah sapeva di non poter contare più su alcuna certezza. Era morto, ma viveva; era impossibilitato a scappare, eppure ora si trovava in un luogo che non conosceva; era solo, tuttavia qualcuno si era curato di lui. Allora, si spinse oltre, uscendo sempre di più dalla sua zona di conforto schiudendo così le labbra. Quante volte si era rifugiato nel silenzio per rendersi invisibile, per sfuggire dai colpi che la vita gli aveva riservato? Era sempre stato un conforto sapere di non poter essere ascoltato, di non emanare alcuna vibrazione, di spegnere ogni suo suono in modo da non venire ferito. Eppure in quella situazione doveva fare un passo avanti, quantomeno scusarsi per ciò che aveva fatto, chiedere spiegazioni, parlare. E così fece, più determinato di prima, schiudendo le labbra in modo da rivolgersi al ragazzo ancora seduto vicino a lui. «Sono Noah.» Era convinto di averlo detto, di aver mosso le labbra e di aver mantenuto lo sguardo ancora vitreo su Joon. Perchè non udiva alcuna traccia della sua voce? «Noah.» Ripetè, più lentamente, senza successo. Un'espressione sconfitta ed agitata allora gli incrinò i lineamenti del volto, nell'amara sorpresa di non riuscire a produrre alcun suono. Le dita della mano destra salirono a sfiorare la gola, come se ne stessero indagando i meccanismi ora assopiti. «Mi senti? Io non-» Gesti più concitati ma leggeri si liberarono da quella stessa mano, che velocemente collegava in un filo invisibile dall'indice le labbra all'orecchio, interrogando Joon su cosa fosse successo con gli occhi spalancati e tristi. Facendosi leggermente più indietro sul materasso sino a toccare la testiera del letto con la schiena, Noah cercò per quanto possibile di ripararsi da qualsiasi incertezza e minaccia; non era certo che non gli fosse stato fatto qualcosa durante il sonno, o che fosse stato condannato a produrre quei terribili suoni mostruosi per sempre. Perchè non riusciva a parlare? Ricordi d'infanzia e dei momenti più difficili della sua vita avevano preso ad affollargli la mente, rammentandogli di tutte le volte in cui l'assenza della sua voce lo aveva fatto sentire al sicuro, fornendogli uno scudo invisibile che l'aveva difeso dagli altri e da se stesso. L'unica cosa che sapeva con certezza era che non avrebbe voluto affogare nel mare d'incertezza in cui nuotava, quindi protendendosi appena in avanti, Noah allungò una mano verso quella di Joon, avvolgendola nella propria senza esitare. Non gli importava delle intenzioni del ragazzo che si era accomodato davanti a lui, di dove fosse o di cosa sarebbe successo nel futuro, aveva bisogno di lui in quel momento. La sua mano era calda, una salda rassicurazione che sperava avrebbe almeno per pochi secondi impedito di lasciare che si spezzasse del tutto. Riaperti gli occhi, il tramonto non c'era più, eppure una nuova luce, più simile a quella della luna, sembrava essere sorta per accompagnarlo con i suoi brillanti raggi.

    And there's no room in this hell
    There's no room in the next
    And our memories defeat us
    And I'll end this direst

     
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    Non ci sono dei modi perfetti per reagire a delle situazioni sul limite del verosimile come quelle: nessun manuale a cui appellarsi, nessuna esperienza pregressa. Joon non avrebbe potuto fare altro se non guardarsi dentro, chiudere gli occhi per riflettere nel buio parziale e schermato dal resto che lo circondava, scandagliando i fondali di se stesso solo per poter riemergere con in mano una risposta. Non si aspettava di riuscire a cogliere i nessi nascosti di tutta la storia in una sola volta e, probabilmente, era ingenuo pensare che la sua semplice mente mortale sarebbe mai stata in grado di decostruire ogni aspetto di quella situazione dopo averle lanciato un solo sguardo. Come di fronte ad un'opera complessa, ricca di sfaccettature al pari di una gemma ancora non levigata dalle mani abili di un gioielliere, il giovane avrebbe potuto osservarne ora uno spettro di luce, ora un altro bagliore, reputandolo intero, completo. Era necessario fare un passo indietro. Occorreva chinare il capo, distanziarsi e farsi incredibilmente vicini al tempo stesso, ritornare con gli occhi fra quelle righe, fra gli angoli spigolosi di quel manuale scritto in una lingua che non era ancora in grado di capire. Ma forse avrebbe dovuto domandarsi un ulteriore quesito: vuole essere compreso? Dove la sua mente era occupata a galoppare su sentieri in ascesa, affamati come mai prima di risposte, quasi sembrò non accorgersi delle reazioni che, com'era possibile immaginare, avevano attanagliato il corpo del giovane disteso di fronte a lui. Avrebbe dovuto riconoscere di averlo svegliato in modo eccessivamente brusco, quasi invadente, tanto da trovarsene pentito. Nel momento in cui avrebbe dovuto mostrare più attenzione nei confronti dell'altro, era stato ingordo, pretendendo di poter aprire subito quell'ingranaggio che gli avrebbe permesso di sostituire con dei punti quei quesiti lasciati a metà. Forzando la serratura con la chiave del linguaggio, un primordiale contatto che diede quasi per scontato che l'altro potesse intercettare ottenne sì, una risposta, ma di certo non quella che si aspettava. Lo sguardo evitò di cogliere ogni dettaglio di quella ricerca che ultimò con il passaggio da un vuoto di un cestino abbandonato poco distante dal letto in un pieno ben poco piacevole. Joon trattenne il respiro ma ben presto si dimenticò di se stesso, non riuscendo ad astrarsi dalle forti sensazioni che stavano attraversando il ragazzo di fronte a lui: l'avrebbe perso di nuovo? Trattenne il fiato e si lasciò ispezionare, potendo immaginare dove la mente dell'altro fosse rimbalzata, sempre che, in quello stato che si avvicinava sempre più pericolosamente ad una crisi che sarebbe stata difficile da placare, era ancora possibile individuare una direzione nel pensiero del giovane. Un morso per una piccola ferita: gli sembrava così assurdo il contrappasso, ciò che la sua pelle aveva registrato e ciò che, invece, rimaneva del loro scontro sul viso del ragazzo. Cercò di eliminare ogni residuo di preoccupazione dal volto, immaginando che alzare lo sguardo su un viso contrito dalla preoccupazione non avrebbe fatto altro che elevare a potenza i forti sconvolgimenti contro cui il ragazzo stava conducendo una battaglia tutta interiore. «E-ehi, va tut-», provò a dire, interrompendosi in quel sussurro gentile solo quando il ragazzo si scoprì il corpo, probabilmente per cercare di fuggire. Joon si distanziò appena, così da permettergli di eseguire qualsiasi azione ritenesse opportuna, ma senza abbandonare lo sguardo morbido e vigile sull'altro; aveva potuto notare gli occhi del giovane saettare verso la finestra e, consapevole dell'altezza che li divideva dal terreno, andò subito in allarme all'idea di dover frenare quel ragazzo dal buttarsi di sotto. Prima di distrarsi troppo, reputandolo poco intelligente in quel momento, Joon con cautela cercò di avvicinarsi all'altro prima con la voce e poi, lentamente, anche con il corpo. «Va tutto bene, va tutto bene. Non c'è nulla che può farti del male qui», azzardò mostrandosi sicuro. Era la verità: nessuno avrebbe potuto recargli del dolore e Joon di sicuro non era intenzionato ad ottenere vendetta nei suoi confronti. Per cosa, poi? Aver agito durante quello che immaginava dovevano essere gli effetti della particolarità del giovane? Lo osservò fronteggiare gli ultimi residui del pianto e, con un tono delicato, Joon tentò nuovamente di avvicinarsi con la voce al ragazzo. «Va tutto bene», continuò a ripetergli, provando ad allungare una mano contro una delle ginocchia piegate del giovane, appoggiandovi sopra con cautela il palmo della mano per poter lenire la preoccupazione anche attraverso quelle impercettibili carezze. Attese con estrema calma il ritorno in sé dell'altro e, quando lo reputò più opportuno, aprì le labbra per poter comunicare nuovamente con il ragazzo. «Scusami. Sono stato brusco», iniziò a dire, facendo attenzione a non fissarlo per troppo tempo, direzionando lo sguardo altrove e rialzandolo solo quando prese nuovamente parola. «Mi dispiace averti svegliato in questo modo. Mi sapresti dire come ti chiami?»
    Forse compiere dei piccoli passi, riartire da quell'io che il ragazzo aveva dovuto affrontare l'avrebbe aiutato. Ancora una volta, però, le sue attese vennero sconvolte; poteva vedere chiaramente le labbra dell'altro muoversi in quella mimica che si rivelò essere norvegese, eppure nessun suono sembrò uscirne, tanto da sconvolgere perfino il proprietario di quel silenzio. E poi, all'improvviso, un contatto. Lo sguardo si addolcì nello spostarsi verso gli occhi scuri dell'altro ragazzo. «Noah? Ho capito bene?» Joon aveva deciso di non dare peso all'assenza di voce dell'altro, reputando che farlo concentrare su quella mancanza avrebbe potuto gettarlo in un nuovo stato di sconforto: le avvisaglie c'erano tutte e il giovane immaginò di non possedere gli strumenti del mestiere adatti per poterlo calmare al modo giusto. Girò la mano per accogliere il palmo della mano di Noah nel suo, avvolgendolo delicatamente fra le dita. Uno strano modo di conoscersi; era abituato a calibrare la giusta forza, la postura delle spalle, il tono della voce. Nulla doveva mancare all'appello, tutto doveva dimostrarsi equilibrato, fiero, ma al contempo accogliente: da una buona stretta di mano si potevano capire molte cose, no? Tuttavia quel contatto non poteva essere che singolare. Un abbandono reciproco ad un'intimità estranea ai limiti della confidenza che due completi sconosciuti potevano nutrire nei confronti dell'altro. Credendo di poter individuare almeno una macchia di imbarazzo, in verità Joon non poté avvertire se non un tenero calore accendersi proprio nel luogo di quel minuscolo punto di contatto; aveva la vaga impressione di aver risposto ad una sorta di chiamata. Sembrava che Roald avesse avuto l'attenta premura di eliminare ogni residuo di terra dalle punte delle dita del giovane, eppure era possibile intercettare una sottile striscia di sporco: una testimonianza tangibile della realtà degli eventi della notte precedente. «Non c'è bisogno di sforzare la voce, va bene? Probabilmente... è stato il sonno», annuì un paio di volte, con cautela, prendendo i giusti accorgimenti nel modulare il tono delle parole in modo che potesse essere avvertito dall'altro come un invito a calmarsi, «hai dormito a lungo e anch'io l'ho fatto, almeno fino a non molto tempo fa». Di rado gli capitava di avere l'opportunità di dormire così a lungo, fino al tardo pomeriggio, saltando a piè pari le abitudinarie tappe della giornata. Forse era necessario incontrare quel ragazzo-zombie (sperò di non essere offensivo nell'appellarsi mentalmente all'altro in quel modo) ed essere costretto ad un sonno profondo derivato dall'effetto dei farmaci per avvertire la vaga sensazione di libertà dagli impegni. Immaginò non fosse saggio iniziarci a fare l'abitudine. Fece una piccola pausa, cercando di indagare con lo sguardo se la velocità e l'altezza della voce fossero troppo per le orecchie di Noah ma, immaginando di non averlo turbato troppo, continuò a parlare dopo aver inspirato un po' d'aria. «Sono le sei passate di pomeriggio del primo novembre», lo informò mentre, discretamente, si occupava di togliere di mezzo il cestino che raccoglieva le emozioni in forma liquida del ragazzo, senza osare staccare il contatto che i due avevano instaurato. «Ti trovi a casa mia, questa è la stanza degli ospiti. E siamo a Besaid», strinse leggermente la presa sulla mano; non sapeva nemmeno perché stesse rivolgendo tutte quelle premure ad un perfetto sconosciuto, eppure sentiva di non poter fare altrimenti. Joon fra i due era quello che sembrava aver recuperato più lucidità e, per questo, non poteva negare a Noah di ricevere quel conforto e le giuste informazioni che gli permettessero di riprendersi. A quel punto si interruppe, immaginando che fosse poco intelligente riversare addosso ad una persona che aveva appena attraversato un momento di puro panico delle informazioni di troppo. Si morse il labbro inferiore, interrogandosi sul da farsi e, appoggiando anche l'altra mano sul dorso di quella di Noah, accennò con un gesto della testa verso la porta della camera. «Magari potresti non essere della mia stessa idea... ma metterei qualcosa sotto i denti, ti va?» Tentò in un sussurro abbastanza definito per essere compreso anche dall'altro, tornando a guardarlo, allungando poi lo sguardo verso il cestino utilizzato poco prima da Noah. «Un tè allo zenzero potrebbe farti bene allo stomaco», confermò mentre tornava ad annuire, solo per svincolare la presa dalla mano del giovane, allontanandola anche dal ginocchio su cui si era fermata poco prima. Fece per alzarsi ma, prima di abbandonare il ragazzo alla solitudine della stanza, picchiettò contro il dorso della mano dell'altro per poter averne nuovamente l'attenzione. «Lo vedi quel piccolo cavallino sullo scaffale, quello bianco, con una zampa alzata? Dovrebbe andare per le cinquantamila corone», con gli occhi riuscì facilmente ad intercettarlo e, dopo averglielo indicato con l'altra mano, allora abbandonò il letto, avvicinandosi alla porta. Gli rivolse un caloroso sorriso e, nel poggiare la mano sul pomello, si voltò verso Noah un'ultima volta, «dovrebbero essere tre metri, dalla finestra al terreno, dico. Per il bagno, invece, quella porta là. In alternativa... ci vediamo fra poco». Lasciò aperto l'ingresso, sperando che l'altro fosse abbastanza intelligente, semmai avesse voluto abbandonare quella situazione, da scegliere di utilizzare le scale e la porta principale per uscire dalla casa; non sapeva bene perché gli avesse proposto di appropriarsi di quell'oggettino, fornendogli addirittura delle informazioni precise su quanto avrebbe potuto guadagnarci semmai avesse optato per rivenderlo. Delle volte, doveva ammetterlo, viveva un po' troppo nel suo mondo fatto di fantasia e romanzi e, forse anche per questo, si trovava in una situazione del genere; la notte prima non era stato in grado di frenare i suoi stessi vaneggiamenti e, alla prima occasione di agguantare un pezzetto di verità, si era catapultato fuori dalla sua zona di sicurezza per poterla tastare con mano, solo per ricevere un morso in tutta risposta. Per quanto rammarico accompagnasse quella consapevolezza, Joon prima o poi avrebbe dovuto accettarla: non si trovava fra le pagine di un'opera di Victor Hugo, sfortunatamente.
    «Oh, sei ancora qua!» Notò con piacere, sorridendogli e facendosi da parte solo per fare in modo che il signor Roald - talmente gentile da aiutarlo nel trasportare i vassoi con le vivande fino alla camera dove aveva lasciato Noah - potesse fare il suo ingresso nella stanza e potesse occuparsi di apparecchiare un piccolo tavolino all'angolo, nei pressi delle finestre, ai cui piedi erano accostate un paio di poltroncine che sembravano davvero comode. Sulla superficie in vetro vennero appoggiate con cautela una serie di piattini e, ovviamente, il preannunciato tè allo zenzero che avrebbe potuto aiutare lo stomaco indisposto del giovane. A quanto sembrava, Joon non era altamente digeribile. Si portò una mano alle labbra, come se si fosse ricordato dello stato di confusione in cui aveva abbandonato Noah poco prima e, sussurrando delle scuse, si avvicinò al tavolino solo per poter appoggiare una mano sulla spalla del signor Roald. «Lui è Arthur. Ieri sera ci ha recuperati e ci ha messo a letto», per quanto Joon desiderasse di poter essere apostrofato dal caro collaboratore con un tono più colloquiale, Arthur non aveva mai smesso di rivolgersi a Joon con un tono di riverenza che il più giovane reputava eccessivo, per quanto gentile. «E ha anche preparato dell'ottima torta alle carote. Ti piace, Noah?» Gli domandò indicandola, mentre Arthur fu attento ad ultimare quel suo servizio, dirottando poi l'intera attenzione nei confronti del giovane. Arthur Roald era un uomo che passava la mezz'età solo anagraficamente; dall'importante stazza corporea e dai capelli solo in parte toccati dai segni del tempo, era un tipo che poteva incutere parecchio timore, almeno fino a quando non si notavano gli occhi gentili, al pari del sorriso, e l'utile grembiule che stava ravvivando con le ampie mani, prima di porgerne una a Noah. Aveva un aspetto paterno, che emanava naturalmente energie calme e rasserenanti, che avrebbero potuto cozzare con il suo passato passato in caserma. Solo quando i due vennero lasciati soli, il cestino portato via insieme ad Arthur e la porta fu accostata - come se mai fosse cancellata la possibilità per Noah di abbandonare la casa nel momento esatto in cui l'avesse desiderato -, allora Joon prese posto presso il tavolino, sprofondando nella seduta che si rivelò, al contrario delle aspettative, aver bisogno di qualche piccolo restauro. «Mangia quello che vuoi o non mangiare niente, se preferisci». Joon si domandò come fosse possibile aver fatto entrare un pasto da due portate in quello spazio così ristretto, eppure non poté fare altro che complimentarsi mentalmente con l'abilità di Arthur nel comporre, come se fossero pezzetti di Tetris, quelle pietanze. Stufato di montone, contorni di varie e colorate verdure, perfino della frutta sbucciata; sperò che quell'offerta potesse essere di suo gradimento ma, prima di aprire i rispettivi vassoi lanciò un'ultima occhiata a Noah, come a volerne verificare lo stato di salute in un solo lampo. «Se pensi che possa farti stare nuovamente male non toccherò e non aprirò niente», serio nel tono ma sereno nell'espressione, Joon attese direttive da parte dell'altro, portando le mani su entrambi i braccioli della propria seduta. Girò con lo sguardo per la stanza fino a quando, incapace di ignorarne la spinta, permise alla lingua di sciogliersi dal nodo in cui aveva provato a stringerla. «Non voglio farti pressioni, non è ciò che desidero. Quindi non farò più domande. Risponderò, se vuoi, alle tue, però», aspettò qualche secondo, cercando di individuare nello sguardo dell'altro se gli fosse concesso rivolgergli un interrogativo. Immaginando di poter procedere, allora si limitò a chiedere: «è la prima volta che ti succede?»

    Edited by Kagura` - 11/10/2020, 17:39
     
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    Il passato aveva impartito a Noah molte preziose lezioni, ed una di queste avrebbe dovuto essere quella di rifuggire la rivelazione di ogni segno di debolezza, che avrebbe sfortunatamente portato il più delle volte maltrattamenti, sofferenza ed ulteriori incrinature. Tuttavia, nonostante questo monito l'avesse colpito ripetutamente ed in tutta la sua durezza, Noah sembrava non averlo mai davvero assorbito, resistendo ad esso per natura. Non avrebbe voluto rompersi in mille frammenti disperati proprio davanti agli occhi di uno sconosciuto le cui intenzioni gli erano ancora oscure, eppure era sempre stato così: trasparente, emotivo, onesto anche nelle situazioni più pericolose ed incerte. Non riusciva a coprire il volto ed il cuore con nessuna maschera, tantomeno in momenti di grande vulnerabilità; non gli era possibile rifugiarsi come molti sotto una spessa coltre di spavalderia, falsa noncuranza, o aggressività, e l'unica via che aveva sempre percorso era quindi quella della chiarezza e della spontaneità, sempre e comunque. Per questo, non potè frenare l'istintivo disgusto nel ripercorrere con la memoria i passi faticosi e sofferti della sera precedente, tanto quanto l'ansia che man mano si era insinuata in lui sino a spezzarlo in un pianto liberatorio e doloroso. Come le sue mani che avevano scavato per distruggere la prigione di terra in cui era intrappolato, così ogni singola lacrima affiorava dagli occhi per assottigliare le sbarre di ansia, rabbia e timore che lo stringevano sino a non farlo più respirare. «Va tutto bene, va tutto bene. Non c'è nulla che può farti del male qui», la voce ferma ma gentile di Joon raggiunse, seppure ovattata, l'udito di Noah, ancora in preda alla lotta col suo stesso pianto, ed assieme ad essa, poteva chiaramente sentire anche il peso rassicurante e non opprimente dello sguardo dell'altro, attentamente posato su di lui come se volesse vegliare sui suoi movimenti, più che controllarli. Sollevando una mano per portarla vicino agli occhi ed eliminare per quanto possibile i residui bagnati che li sporcavano, Noah avvertì finalmente il moto delle sue lacrime affievolirsi sino a fermarsi, e tirando su col naso, provò a sbattere le palpebre un paio di volte, in modo da donare chiarezza al suo lo sguardo, senza successo. «Va tutto bene». Si accorse solo dopo del tocco amichevole di Joon contro il ginocchio, dal quale però non si scostò, nonostante l'altro costituisse per lui ancora una figura aliena. Fidarsi sarebbe stata un'impresa ardua, eppure Noah non percepiva quella vicinanza come minacciosa, anzi, ne trasse un timido ma presente beneficio. I minuti si susseguivano lentamente, ed in essi, la calma riprese a distendere le membra del ragazzo, confuso per i repentini e radicali cambi che stava aveva attraversato in quelle poche ore. «Scusami. Sono stato brusco,» Le sopracciglia di Noah allora si incresparono in un'espressione leggermente confusa, poco abituato a quei toni così gentili e rincuoranti. «Mi dispiace averti svegliato in questo modo. Mi sapresti dire come ti chiami?» Fu in quel momento, che Noah iniziò a subire tangibilmente gli effetti del trauma originato dalla sua rinascita, trovando dentro di sè un grande silenzio al posto di tumultuose reazioni di sconforto e perdita. L'agitazione aveva ripreso a scuoterlo dall'interno, nel triste disorientamento dovuto al non riconoscere più il proprio suono. Lo aveva sentito in passato, lo conosceva, lo aveva più volte protetto tanto quanto nascosto; ed era vero, la quiete aveva fatto da contrappunto ai momenti più stressanti e sgradevoli che avesse mai vissuto, ma non si aspettava che lo avvolgesse del tutto, abbracciandolo sino a farlo diventare inudibile. «Noah? Ho capito bene?» Fu invece la voce di Joon ad ancorare Noah a se stesso, impedendogli di scivolare nuovamente in uno stato di agitazione a cui si sentiva pericolosamente vicino. Era bastata una piccola frase per rassicurarlo, piccoli gesti per trattenerlo in uno stato di relativa calma, e proprio di quelle minuscole ma importantissime premure Noah era grato, poichè sicuro del fatto che non avrebbe potuto farcela da solo, non quella volta. Mantenendo quindi lo sguardo basso e reputando ormai inutile schiudere di nuovo le labbra per segnalare all'altro ragazzo di aver compreso il suo nome, Noah annuì, ringraziando mentalmente Joon di averlo recuperato prima di scivolare in uno sconforto ben più profondo.
    Proprio in quei momenti di estrema fragilità, Noah si convinse a superare i propri timori, valicandoli forse in un gesto che avrebbe potuto essere considerato incauto, nel raggiungere una delle mani di Joon e stringerla debolmente nella propria. Non desiderava essere compatito, nè necessariamente salvato; voleva semplicemente sentire di non essere solo, non dopo la morte in cui era stato brutalmente condotto poco meno di ventiquattro ore prima. Joon avrebbe potuto respingere quel tocco timido se avesse voluto, e ne avrebbe avuto tutte le ragioni dopo gli eventi della notte appena trascorsa, eppure non lo fece, avvolgendo a sua volta il palmo della mano di Noah nel proprio, rendendo così salda e percepibile la rassicurazione che lui cercava. Allora, il ragazzo più giovane si concesse di prendere un respiro più ampio e calmo, crogiolandosi un po' in quella stretta gentile, che non avrebbe voluto sciogliere almeno per un po'. «Non c'è bisogno di sforzare la voce, va bene? Probabilmente... è stato il sonno» Lo sguardo smarrito di Noah allora tornò a sollevarsi posandosi sui lineamenti di Joon, e mentre il labbro inferiore veniva racchiuso in qualche morsetto agitato, il minore rispecchiò il cenno dell'altro ragazzo, annuendo leggermente nel concordare speranzoso con le sue congetture. In cuor proprio, sospettava già che la perdita della voce si sarebbe potuta trattare di qualcosa di ben più complesso, ma non desiderando indagare prospettive più malinconiche e turbolente, si accontentò di quella ipotesi senza farsi troppe domande. «hai dormito a lungo e anch'io l'ho fatto, almeno fino a non molto tempo fa» Riacquistando ancora un altro po' di calma nel ricevere quelle ulteriori informazioni, Noah si mosse appena, sprofondando leggermente sotto le coperte nel valutare ciò che gli era appena stato detto. Non era certo che Joon stesse dicendo la verità, eppure non aveva altri elementi da confrontare con ciò che gli aveva riferito, ed a giudicare dal cielo ormai tinto dalle tracce del crepuscolo, gli sembrò possibile che fosse sincero. Tante volte prima d'allora, gli operatori al Mordersonn Institute avevano pronunciato parole gentili, a volte asettiche ma sempre cortesi, camuffando le loro reali intenzioni con false promesse e rassicurazioni. Per questa ragione, Noah si dimostrava quantomeno guardingo, pronto a rilevare ogni minimo pericolo nel caso in cui Joon non fosse stato fedele alle frasi da lui stesso pronunciate. «Sono le sei passate di pomeriggio del primo novembre. Ti trovi a casa mia, questa è la stanza degli ospiti. E siamo a Besaid» Ogni stilla di insicurezza però sembrò starsi dissipando lentamente man mano che Joon pronunciava ogni parola, fornendo pezzo dopo pezzo gli elementi mancanti che Noah sembrava star bramando da quando aveva aperto gli occhi. Non era stato trasportato lontano. Era a Besaid, e Joon aveva detto la verità. Primo Novembre. Era fuori. Niente più Mordersonn, niente più terra. «Magari potresti non essere della mia stessa idea... ma metterei qualcosa sotto i denti, ti va?» Il calore del palmo della mano di Joon si irradiò su quello di Noah, che lasciando andare un leggero sospiro indugiò appena in quel contatto, ponderando le parole dell'altro ragazzo senza però fornirgli ancora una risposta chiara, anticipato proprio dallo sguardo di Joon che si soffermò sul cestino poco prima usato da Noah. «Un tè allo zenzero potrebbe farti bene allo stomaco». The.. allo zenzero? Il ricordo più vicino a quello di un thè risaliva al terribile sapore di una bevanda che avrebbe dovuto corrispondere proprio a quella appena menzionata, descritta dagli operatori del Mordersonn nel periodo della fase 2, in cui era stato concesso a tutti i partecipanti agli esperimenti di nutrirsi come più preferivano. Non volendo cedere neanche a quelle lusinghe, Noah aveva pensato di ricorrere a quel liquido caldo solo per depurare l'organismo dall'enorme quantitativo di narcotici che gli avevano somministrato, e proprio quelle brevi immagini mentali lo portarono a trasalire, nel momento in cui sentì la mano di Joon scivolare via dalla propria.
    «Lo vedi quel piccolo cavallino sullo scaffale, quello bianco, con una zampa alzata? Dovrebbe andare per le cinquantamila corone» Per qualche istante, l'espressione sul volto Noah sembrò essere completamente persa. Quale cavallino bianco? Cosa intendeva dire Joon con le cinquantamila corone? Per qualche secondo buono, il ragazzo non riuscì a collegare ciò che gli era stato detto, ancor più confuso dal seguito, pronunciato proprio mentre Joon si accingeva ad uscire dalla stanza. «dovrebbero essere tre metri, dalla finestra al terreno, dico. Per il bagno, invece, quella porta là. In alternativa... ci vediamo fra poco». Quando, sollevate le sopracciglia nello stordimento più totale, Noah riuscì a collegare ogni singolo indizio fornitogli da Joon, non riuscì quasi a credere alle sue orecchie. Era inverosimile, l'ammontare di generosità che gli era appena stata mostrata, non solo nell'avergli fornito indicazioni su come lasciare la casa, ma anche nell’avergli segnalato persino quale oggettino gli avrebbe permesso di ricostruirsi una vita. Forse sarebbe stato meglio scappare, lasciarsi Besaid, il Mordersonn e quella assurda esperienza di cannibalismo alle spalle, ed andare dove nessuno l'avrebbe più ritrovato; eppure, Noah era così stanco. Nonostante la sua giovane età, non era mai riuscito ad appartenere a nessun posto, a nessuna vita, a nessuna persona. Probabilmente Joon non sarebbe stato diverso dai dottori che l'avevano tenuto prigioniero, ma allora perchè fornirgli così tanti strumenti per liberarsi? Infondo, la porta era soltanto socchiusa. Allora, raccogliendo tutte le sue forze, Noah si sforzò di alzarsi scivolando giù dal letto senza preoccuparsi di essere scalzo nell'attraversare il parquet di quella lussuosa casa. Ah, sono grigi. Meditò, nel scoprire finalmente il colore dei suoi pantaloni, fino ad allora nascosti sotto la coperta calda. I suoi passi erano lenti, esitanti, eppure non smettevano di condurre Noah verso la risoluzione dei suoi dubbi. Si, si trovava ad una distanza abbastanza corta rispetto al terreno; si, era pomeriggio inoltrato e quasi sera; si, quel cavallino sembrava senz'altro una figurina pregiata ed uno di quegli oggetti su cui Noah si sarebbe potuto scordare di posare gli occhi nella sua vita da vagabondo, e si, oltre la porta della stanza da letto, infondo al corridoio, c'era il bagno. Ogni dettaglio era al suo posto, ed il silenzio nella casa non risultava opprimente e carico d'agitazione; si trattava di una abitazione ampia ma accogliente, e non riuscendo a spostarsi molto lontano date le membra appesantite, Noah ritornò a rintanarsi a letto, prendendo finalmente la decisione di restare, ora più tranquillo, soprattutto riguardo alle parole di Joon, che già dalla sua stretta gli aveva comunicato un'affidabilità che andava soltanto confermata. Non se ne sarebbe andato, ed in quel momento non riuscì a pensare neanche ad opzioni migliori: tornare in strada avrebbe significato rischiare di tornare nelle mani del Mordersonn, andando definitivamente incontro alla morte, e non sapendo davvero cosa gli era capitato, avrebbe dovuto necessariamente contare su qualcun altro, non potendo fare affidamento sulle sue conoscenze, per il momento estremamente limitate. In un ultimo sospiro, Noah si chiese se non fosse lui, quello di cui avere paura. Non si spiegava il motivo delle azioni così ferine e pericolose compiute la notte precedente; sicuramente i medici del Mordersonn avevano compiuto un errore nel considerarlo morto, eppure le aveva sentite, le forze abbandonarlo ed il malessere terribile e disperato che gli aveva avvolto le membra. Aveva spirato. Se lo ricordava come se il suo petto si fosse appena sollevato per l'ultima volta. Perso in quei pensieri tetri e confusi, Noah sussultò appena rivolgendo il volto verso la porta, da cui Joon fece nuovamente capolino.
    «Oh, sei ancora qua!» Assieme a lui, c'erano anche una montagna di vassoi ed un altro uomo, dall'aria severa eppure non minacciosa, che costrinse Noah ad ispezionarlo con lo sguardo. «Chi è?» Domandò, ma dimentico del fatto che non riuscisse a produrre alcun suono, i suoi lineamenti si sporcarono di nuovo di sconforto, attendendo quindi che il signore si presentasse da solo, se avesse desiderato farlo. Fu ancora una volta Joon ad anticipare le risposte ad ogni domanda, e posando una mano sulla spalla del signor Roald, si preoccupò di introdurlo a Noah. «Lui è Arthur. Ieri sera ci ha recuperati e ci ha messo a letto. E ha anche preparato dell'ottima torta alle carote. Ti piace, Noah?» Arthur, okay. Torta alle carote? Già solo dal nome, Noah sembrò incuriosito da quel dolcetto che gli era stato offerto, anche se non ne aveva mai mangiata una fetta. Sollevò quindi le spalle, come a pronunciare un silenzioso "non lo so", e rivolse nuovamente lo sguardo sull'altro ragazzo, ora con l'intenzione di sgusciare ancora una volta fuori dalle coperte. «Mangia quello che vuoi o non mangiare niente, se preferisci». Proprio per via degli accorgimenti messi in atto da Joon, Noah capì di essere intimorito ma di non sentirsi in trappola. Avvertiva una sensazione positiva, come se lo sguardo dell'altro lo stesse invitando a non preoccuparsi, ad agire come più preferiva. Non sarebbe stato intrappolato, non sarebbe stato punito o fermato, se avesse deciso di andarsene - o quantomeno, quella peculiare tranquillità non sembrava averlo abbandonato. «Se pensi che possa farti stare nuovamente male non toccherò e non aprirò niente» Noah raggiunse quindi Joon, sedendosi a gambe incrociate sulla poltroncina di fianco alla sua, e prima ancora che potesse rivolgere al più grande alcuna risposta, la sua pancia iniziò a gorgogliare rumorosamente, segnale del fatto che nonostante avesse fatto qualche capriola, il suo stomaco avrebbe senz'altro apprezzato del cibo al suo interno. Entrambe le mani del ragazzo allora finirono proprio sul ventre, e vagamente imbarazzato da quel segnale evidente della sua fame, portò lo sguardo su Joon, esitante nel scoperchiare le pietanze sul tavolo, almeno sino a quel momento. «Non voglio farti pressioni, non è ciò che desidero. Quindi non farò più domande. Risponderò, se vuoi, alle tue, però è la prima volta che ti succede?» Permettendosi di allungare una mano verso una delle tazze per riempirla con il thè, che sicuramente aveva un profumo ben diverso ed inusualmente piacevole rispetto a quello a cui era abituato, Noah riportò lo sguardo su Joon nel riflettere sulla sua prima domanda. Che mi succede, cosa? Effettivamente, più d'un evento spiacevolmente straordinario l'aveva colpito negli ultimi mesi, e per questo, si chiese a quale di questi Joon si stesse riferendo. Tuttavia, immaginò che lui non potesse sapere degli esperimenti del Modersonn, e riportando di sfuggita nuovamente lo sguardo sul braccio ancora fasciato dell'altro, Noah si limitò a prendere un sorsetto di thè ed annuire. Sollevò un indice, come a dire che fosse la prima volta in cui qualcosa di così strano e terribile gli era capitato, ma volendo spiegarsi meglio, sbuffò appena non riuscendo a comunicare come avrebbe voluto. Allora, dopo aver posato la tazza sul tavolo, mimò con entrambe le mani l'atto dello scrivere con carta e penna, come se desiderasse spiegarsi attraverso l'inchiostro piuttosto che facendo affidamento sulla sua voce, ormai di poco aiuto. Una volta che con gentilezza Joon si premurò di porgergli un piccolo blocco ed una biro, Noah prese un respiro, abbassando lo sguardo sul foglio. Era tanto, che non scriveva, e sperò che le sue abilità più limitate in quel campo non interferissero con l’espressione della risposta che gli era stata richiesta. «Noah.» Scrisse sul foglio come prima cosa, per lasciar intendere a Joon finalmente come si chiamasse, nonostante l'altro l'avesse già recepito dal movimento delle sue labbra. Dopodichè, su quella stessa parola, il ragazzo disegnò una grande X, mostrandola all'altro. «Morto.» Scrisse subito dopo, presentando ogni singola fase del suo "discorso" a Joon. «Conosci Modersonn Instittute?» Aggiunse poco dopo, scrivendo quella domanda sul blocchetto, in modo da assicurarsi che Joon non fosse invischiato con quel terribile posto una volta per tutte. Una volta ricevuta la risposta che desiderava, Noah sprofondò rannicchiato sulla poltrona, portando il blocco sulle gambe accompagnando quei gesti con un pesante sospiro di sollievo ed iniziando quindi a parlare con una voce che aveva sempre serbato in sè e che forse sarebbe stata la più eloquente di tutte, anche di più delle lettere che avevano solcato il foglio. Iniziò a tratteggiare una linea dopo l'altra, sporcando la carta con i frammenti del passato recente che aveva vissuto. Nel voltare un'altra volta il blocco verso Joon, mostrò quello che in realtà era un disegno. Raffigurava il suo volto, gli occhi e la testa sporcati di nero, nascosti da una specie di benda, la stessa che immaginava fosse stato obbligato ad indossare durante ultimi giorni della sua prigionia e della sua vita. Sotto, in inglese, era calcata in molti fili spezzati la parola kidnapped, che esprimeva senza mezzi termini nè mezze misure ciò che gli era accaduto. Voltò pagina, e continuando a delineare il passato, Noah sentì nuovamente gli occhi farsi lucidi, nel ricordare momenti fin troppo vividi, fermi nella sua memoria come se fosse rimasto intrappolato in essi senza poterli superare. Cercava, cercava di dare una forma tangibile a tutte quelle emozioni sgradevoli, eppure persino la carta non sembrava essere il veicolo giusto per esprimerle. Un paio di lacrime, figlie di una frustrazione sottile e pungente, caddero dagli occhi del ragazzo, che piuttosto che asciugarle, allungò nuovamente una mano verso Joon, avvolgendo con delicatezza una mano attorno al polso dell’altro, collegato al braccio che era ancora fasciato. Lo sguardo che gli rivolse era gentile, profondamente triste, ed in un certo modo quasi implorante. Con l'indice della mano destra che impugnava la penna, gli fece segno di portarla sul suo avambraccio senza realmente toccarlo, nel chiedergli silenziosamente il permesso di sporcare la pelle libera dalla fasciatura con l’inchiostro. Senza porre alcuna pressione su Joon e mentre aspettava una sua risposta, Noah azzerò con calma qualsiasi contatto, tornando sul foglio su cui scrisse «3 Fasi. Particolarità.» Dopodichè, disegnò una grande croce nera, sotto cui era sistemata una tomba, da cui emergeva una mano, proprio dal suo centro. Solo nel momento in cui ebbe realizzato quello schizzo, Noah spalancò gli occhi, sorpreso dalla sua stessa rappresentazione. Allora, di fretta, scrisse velocemente e di lato rispetto a quell'immagine «Io sono uno zombie?», formulando una cruciale domanda nel girare immediatamente il blocco verso il volto di Joon e tirando su col naso poco dopo, in attesa.
     
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    Il ricevere una risposta affermativa dallo stomaco di Noah gli bastò a comprendere che l'altro, in qualche misura seppur minima, doveva trovarsi a suo agio nell'ambiente in cui era stato inevitabilmente trasportato senza che avesse nemmeno il modo di acconsentire. Reputava, infatti, le risposte intestine come quelle primordiali, istintive e, in fin dei conti, più sincere in assoluto: una persona tesa non avrebbe accettato il cibo di uno sconosciuto e, forse creando con troppa facilità il paragone con una creatura di cui avrebbe dovuto vincere la fiducia, Joon venne rassicurato egli stesso dalla possibilità di poter condividere quel pasto con il giovane che sedeva a poca distanza dalla poltroncina che aveva occupato. Ne osservò i movimenti, che parvero voler chiedere un aiuto così da poter sopperire alla mancanza della voce, e allora Joon si mobilitò per fornirgli gli strumenti necessari in modo che Noah potesse comunicare in modo efficace tutto ciò che avesse ritenuto opportuno. «Ah! Vuoi carta e penna? Arrivo subito». Si mise immediatamente all'opera nella ricerca di qualche supporto cartaceo e una penna funzionante e, riuscito ad individuare un blocchetto all'interno del primo cassetto di uno dei comodini ai lati del letto, fece ritorno al piccolo tavolo con una certa fretta. Fu rapido nel spostare alcune pietanze così da poter dar più spazio a Noah e, tornando seduto, rimase silenziosamente in attesa. Per quanto fosse a conoscenza delle stranezze più o meno pericolose che circolavano all'interno dei perimetri della cittadina, mai gli era capitato di essere testimone in prima persona di un evento tanto particolare quanto drammatico e, se doveva essere sincero, pur avendo avuto modo di elucubrare sulla situazione nemmeno un'ora prima, non avrebbe mai potuto aver un quadro completo fino a quando anche Noah non gli avrebbe permesso di venire a conoscenza della sua versione dei fatti. Nonostante il ragazzo avesse spostato lo sguardo, indirizzandolo al foglio, Joon non poteva fare a meno di avvertire ancora gli occhi scuri di Noah gravitare attorno alla ferita sul braccio; tornò d'istinto a guardargli il viso: non una macchia dell'incontro con il metallo scaraventatogli contro la faccia se non una piccola ferita, una specie di virgola che era perfino difficile da individuare se non si avevano le coordinate giuste. Era stata la decisione più saggia quella di portarlo a casa? Avrebbe dovuto avvertire qualcuno riguardo il proprio stato di salute? Si fidava delle abilità mediche del signor Roald e, pur vero che una piccola voce agli estremi della sua mente stava continuando a lamentarsi sul non aver agito nel modo più esatto, immaginò che non erano rumori a cui avrebbe dovuto cedere in quel momento.
    Per quanto fosse universalmente conosciuta e sperimentata da ogni individuo la difficoltà di comprendere il prossimo attraverso i mezzi fallaci della comunicazione verbale, Joon ritenne che l'espediente pittorico non fosse tanto più complesso, quanto una soluzione intelligente al superamento di tanti ostacoli che si sarebbero altrimenti frapposti fra i due sconosciuti. Nel raccogliere il messaggio di Noah, egli stesso non poteva che sentirsene parte e, scoprendo di volta in volta dettagli sempre più cupi e macabri, pareva riviverli lui stesso sulla sua pelle senza riuscire a sottrarsi ad essi in qualità di mero spettatore. Quei graffi di nero inchiostro su carta erano tanto più comunicativi e veri quanto criptici e oscuri per l'intelletto di Joon. Noah. Morto. Quando alzò gli occhi dal foglio non riuscì nemmeno a domandarsi il "perché" o le modalità entro le quali quell'affermazione poteva essere vera e insieme resa un puro paradosso dalla stessa presenza di Noah proprio di fronte a sé. Deglutì, tuttavia, come a voler imbrigliare in quel nugolo di saliva ogni ombra di dubbio che si era condensata all'interno della sua mente e, prima di far galoppare liberamente ogni qua domanda e contro-domanda a quell'assurda affermazione, sapeva di doversi rispondere in un solo modo: è tutto vero. Così, rimanendo sul finire della sedia, attratto da quella narrazione agli esordi, Joon continuò a spiare al di là delle dita del ragazzo in modo da decifrare il prossimo tassello di quel complesso puzzle. «Il Mordersønn? Sì, insomma... lo conosco di nome. Non che abbia mai avuto occasione di averci a che fare». Sembrò che quella risposta avesse rassicurato Noah e, per qualche strana ragione, Joon non poté che essere partecipe di quella tranquillità mentre permetteva all'altro di riappropriarsi di qualche momento di intimità per sé, spostando lo sguardo così che Noah potesse disegnare in pace. Quando gli fu nuovamente permesso di conoscere un altro passo del racconto, allora Joon fece fatica a sollevare lo sguardo dall'immagine appena mostratagli dal giovane. Rapito. Trattenendo il respiro e cercando lo sguardo umido dell'altro, che subito si tuffò per una seconda volta sul foglio, Joon sembrò avvertire lui stesso un cerchio oscuro prendere possesso della sua visuale, stringendogli la testa fino a rendergli difficile anche il solo respirare. «Noah, non... non devi sforzarti». Con cautela, provò a sussurrare quelle parole rassicuranti, sperando di poter raggiungere in modo efficace il giovane. Spinto da un moto di affetto nei confronti dell'altro, poi, allungò anche una mano così da poter posare una delicata carezza sul braccio di Noah. Non desiderava vederlo cedere nuovamente in uno stato di panico e, pur non potendo immaginare il dolore che era stato costretto a processare una seconda volta così da rendere Joon al corrente della sua storia, immaginò di non poter desiderare altro in quel momento se non avere la possibilità di riceverne una parte, istintivamente disposto ad alleggerirgli quegli opprimenti pesi che si manifestarono attraverso delle tristi lacrime. Fu in quello stesso istante che anche Noah provò ad instaurare un contatto con Joon e, in quel breve scambio di sguardi, il più grande quasi ebbe difficoltà a non permettersi di crucciarsi al punto di avvertire gli occhi iniziare a pizzicare. Tuttavia, pur avvertendo il tremolio nella voce farsi più presente, deglutì un'altra volta anche quell'istintiva reazione e si schiarì di poco la voce. «Oh? Vuoi scrivere sul mio braccio?» Lo interrogò mentre, le sopracciglia ancora corrugate e lo sguardo coperto da un velo di preoccupazione, inclinava leggermente il volto senza interrompere il contatto visivo con gli occhi di Noah. «Se vuoi, puoi farlo, Noah». Gli confermò annuendo una sola volta, guardandolo però ritirarsi per continuare a tracciare sulla carta altri indizi e risposte alle domande che non avevano smesso di accavallarsi l'un l'altra fra i pensieri di Joon. «Particolarità». Sapeva bene ciò a cui stava facendo riferimento l'altro ed una strana intuizione iniziò a farsi strada fra la fitta giungla in cui era appena stato trasportato, sibilando davanti al suo sguardo e invitandolo a seguirne il percorso per avvicinarsi ad una rivelazione che desiderava mostrarsi a lui. «Queste tre fasi... c'entrano con la tua morte?» Batté più volte le palpebre, stringendosi le dita in piena anticipazione, avvertendo la sensazione di essere arrivati al finire della storia. Ma, per qualche strana ragione, sapeva che quel racconto non avrebbe visto alla sua fine un risolutivo e definitivo punto, piuttosto una serie di interrogativi e misteri a cui forse nemmeno lo stesso protagonista sarebbe stato in grado di dare una risposta. Se ne convinse del tutto quando passò lo sguardo sull'ultima domanda che gli rivolse Noah e, alzando gli occhi per tornare ad osservarne il volto, Joon si mostrò tanto perplesso quanto l'altro.
    «Proviamo a fare qualche passo indietro prima di risolvere quest'ultima domanda... okay? Se ho inteso bene ciò che hai voluto disegnare, Noah, tu sei morto», lo fissò, attendendo di poter ricevere un cenno d'assenso da parte del giovane. Non c'era altro modo di far riferimento a quella realtà paradossale, non avrebbe avuto modo di ricoprire di zucchero ed accortezze ciò che gli era stato appena narrato attraverso crudi e graffianti segni su carta. «E prima di trovarti sotto terra hai passato un periodo come prigioniero al Mordersønn?» Appoggiando le spalle allo schienale della poltrona, Joon non poté fare a meno di allontanare del tutto dalla sua visuale il cibo e tutto ciò che iniziava a risultare accessorio, superfluo, rispetto a quel peculiare enigma che gli era stato appena presentato. Si passò una mano fra i capelli, quindi andò a reggersi il volto, accarezzandosi con le dita parte del mento e le labbra, rimuginando sulle possibili e sconvolgenti verità che gli erano state proposte. Attività illecite, fasi (forse di ricerca?) che riguardavano le particolarità, seppellimento di persone presuntivamente morte: c'era parecchio in quella storia e altrettanto da metabolizzare. Molte erano le domande che si stavano affollando nella sua mente e, proprio non riuscendo a sceglierne una fra tante, si limitò a richiamare l'ordine, sperando di poter concentrarsi esclusivamente sulla presenza di Noah. Rimase in silenzio per qualche secondo e infine, tirando un breve ma liberatorio sospiro, provò a comunicare all'altro l'incertezza che condivideva con lui. «Posso dirti che... non ne sono certo, Noah. Quello che so è che sono stato in grado di trovarti per una fortuita coincidenza. Non voglio confonderti ulteriormente quindi rimanderemo parte del discorso a più tardi, ma ho avuto la possibilità di vedere attraverso i tuoi occhi e sentire le tue stesse sensazioni quando eri... beh, sotto terra». Iniziò a dire, passandosi le dita contro la guancia e assumendo un'aria pensierosa, immaginando che ricostruire insieme all'altro lo svolgimento dei fatti della notte precedente avrebbe potuto gettare qualche luce in più sulla situazione. «Quando mi hai visto ieri notte hai cercato di difenderti e nel farlo mi hai morso il braccio. Ma il peggio penso che l'hai dovuto passare tu... ecco, non so se ricordi questo piccolo dettaglio, ma ti ho colpito a mia volta in volto». Si fermò per qualche secondo. Al viso di Noah si sostituì quello aperto della notte precedente. Rimase per qualche secondo in più con gli occhi chiusi, quindi tornò a guardare il foglio, cercando di distrarre la mente. «E oggi non hai che una minuscola ferita... come se ti fossi rigenerato». Finì per indicarsi con l'indice la parte dove, specularmente, l'altro aveva il segno sulla pelle. Sarebbe scomparso anche quello? «Ricordi tutte queste cose?» Sollevò lo sguardo, adombrato da un leggero cruccio. «Magari potremmo dire che sì, potrebbe essere questa la tua particolarità... ciò che Besaid ha voluto regalarti. Il tornare in vita dopo la morte, ma essere costretto ad attraversare uno stato alterato della coscienza. Questo potrebbe somigliare un po' all'idea che si ha comunemente dello zombie ma attualmente sei vivo, cosciente, lucido. Forse è successo qualcosa che ha fermato quello stato?» Tornò a passarsi la mano contro il mento e, vagando con lo sguardo, finì per guardarsi la ferita fasciata. Che fosse stato quel morso a restituire a Noah la possibilità di uscire da quello stato ferino? «Ma... avevi altro da dirmi, vero?» Gli occhi affilati di Joon tornarono in quelli di Noah e, sorridendogli flebilmente, fece in modo di esporre il braccio al tocco della penna del ragazzo, allungandosi verso di lui in modo che terminasse il racconto, fattosi anche suo. Lasciando traspirare quell'inchiostro attraverso le sue vene, permettendogli di sostituirlo al sangue che l'attraversava, l'avrebbe accompagnato fino alla fine.

    Edited by Kagura` - 11/10/2020, 17:33
     
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    «Oh? Vuoi scrivere sul mio braccio?» Con un sommesso cenno del capo, Noah lasciò che le sue intenzioni diventassero manifeste agli occhi di Joon, una figura ancora aliena eppure rassicurante e familiare. Non sapeva esattamente cosa avrebbe impresso nella sua pelle, ma avvertiva il bisogno di diramarsi in essa e di rendere la propria storia anche sua. Non era diventato parte di lui quando ne aveva morso la carne, ma nel momento in cui era stato accompagnato dalla sua presenza nel terrore dei suoi primi momenti di vita. Una seconda esistenza, non libera dai pesi del passato ma non più solitaria. «Se vuoi, puoi farlo, Noah». Era strano come Joon, nonostante la terribile esperienza passata sera precedente, non fosse spaventato nel donare tanto spazio ad uno sconosciuto potenzialmente pericoloso come Noah. Forse la sua curiosità superava la prudenza, oppure, meravigliosamente, si sentiva al sicuro. «Particolarità». Allora, prima di dedicarsi al suo singolare operato artistico, il minore terminò il racconto su carta, rivivendo ogni sensazione che l'aveva portato a quell'esatto momento, seduto in casa di uno sconosciuto. Particolarità. Per molto tempo quell'unico vocabolo aveva infestato i pensieri di Noah, imbrattandoli di dolore ed ansia: sembrava che chiunque nell'Istituto ricercasse qualcosa di particolare ed unico in lui, tuttavia nel non riuscire a trovarlo avevano spezzato una vita, ignari del fatto che sarebbe tornata a scorrere nel suo proprietario. Solo in quei momenti, Noah comprese appieno il significato di quella ricerca smaniosa. «Queste tre fasi... c'entrano con la tua morte?» Prima di rispondere ad una domanda tanto semplice quanto terribile, Noah si prese qualche attimo per spingere via ogni pensiero troppo pericoloso dalla sua mente; non si trovava più nelle stanze del Mordersønn, nè sotto i colpi della guardia o trapassato dagli aghi degli operatori. Era al sicuro, e niente di ciò che avrebbe potuto dire l'avrebbe riportato là dove aveva incontrato la morte. Un cenno d'assenso sarebbe stato abbastanza. Era arrivato il momento di voltare pagina e sporcarla con il nero dei mesi appena vissuti e poi stroncati in un unico attimo. La penna scivolava sul foglio e lo solcava ancora ed ancora, riconsegnandolo così nella mano libera di Joon ricoperto di parole in un Norvegese non ricercato eppure chiaro. «Fanno i test sulle persone. All'inizio non ci dicono che vogliono, solo che fanno degli esami per la tua salute. Poi però non ti lasciano andare, mi hanno dato qualcosa che mi faceva dormire tutto il tempo, e quando riaprivo gli occhi non vedevo molto. Non so quanto sono rimasto lì a dormire. Poi fanno altre analisi, tante analisi, anche delle operazioni per prendere quello che vogliono. Parlavano di particolarità tutto il tempo, ma non sapevo che cosa volessero, non ce l'avevo. Non avevo idea... Ad un certo punto mi hanno detto che potevo vedere la famiglia, che mi avrebbero dato tutto quello che volevo, che avrei potuto uscire dalla stanza. Io volevo solo andarmene di lì ma non potevo, mi hanno detto che era quasi finita e che poi sarei tornato in strada. Dopo qualche giorno mi hanno portato in una stanza, e non so, faceva caldo e poi freddissimo. La guardia non era come gli altri operatori, non mi davano da mangiare, volevano ancora la particolarità, ma io gli avevo detto che non sapevo! Avevo paura ed ero stanchissimo, non vedevo niente. Forse ero già morto e non lo sapevo. Era buio, non c'era nessuno. Poi mi hai trovato tu.» Impossibilitato a dare e ricordare più dettagli di quanti non ne avesse scritti, Noah cercò gli occhi di Joon solo per breve tempo prima di sfuggire ad essi un'altra volta ed avvolgere le dita fredde attorno al suo avambraccio. Di colpo il sangue sembrava aver abbandonato il corpo, rifugiatosi più in profondità per aiutare il cuore a battere nel groviglio di ricordi brutali che il passato portava con sè, in un flusso doloroso che Noah non riusciva a gestire: era passato ancora troppo poco tempo, sentiva ancora ogni stilla di orrore e sofferenza addosso, in ogni fibra di sè.
    Tuttavia, una domanda sembrò arrivare spontanea sino a Joonie. Sono uno zombie? Tra le tante che fluttuavano caoticamente nei suoi pensieri, Noah si aggrappò a quella sulla sua particolarità poichè era certo che fosse quella che lo collegava all'altro più indissolubilmente, nonchè quella che avrebbe potuto offrirgli una risposta nei riguardi delle pene subite all'interno dell'Istituto. Restò immobile tutto il tempo necessario a Joonie per assorbire le parole appena lette, e poi si fece avanti timidamente. «Posso dirti che... non ne sono certo, Noah. Quello che so è che sono stato in grado di trovarti per una fortuita coincidenza. Non voglio confonderti ulteriormente quindi rimanderemo parte del discorso a più tardi, ma ho avuto la possibilità di vedere attraverso i tuoi occhi e sentire le tue stesse sensazioni quando eri... beh, sotto terra». Riflettendo sulle parole di Joon, Noah si trovò a domandarsi più e più volte cosa ne sarebbe stato di lui se non fosse stato ritrovato. Forse l'avrebbero ripreso quelli del Mordersønn, o sarebbe stato rinchiuso in una prigione per aver... Mangiato qualcuno? Che piega orrenda ed inaspettata avrebbe preso la sua vita se non fosse stato per la presenza di quel ragazzo sconosciuto? Certamente non poteva che concordare con lui sul fatto che il loro incontro fosse stato un caso fortuito. Poi, però, sopraggiunse la curiosità. Anche Joon era dotato di qualche particolarità? Un potere segreto che avrebbe attirato l'attenzione di persone malvagie? Non riuscì a capire per quale motivo avesse potuto percepirlo con tale chiarezza quando ormai era certo, nessun'anima viva avrebbe potuto raggiungere una tomba immersa nel buio, dimenticata e sconosciuta. Joon però era stato più che chiaro, e prima di rivolgergli ulteriori domande, Noah cercò solo d'ascoltarlo, conscio del fatto che avrebbe ricevuto le sue risposte a tempo debito. «Quando mi hai visto ieri notte hai cercato di difenderti e nel farlo mi hai morso il braccio. Ma il peggio penso che l'hai dovuto passare tu... ecco, non so se ricordi questo piccolo dettaglio, ma ti ho colpito a mia volta in volto». Abbassando lo sguardo verso il liquido caldo vicino a sè, Noah non riusciva a scrollarsi di dosso la formicolante sensazione d'ansia che l'aveva pervaso da quando aveva riaperto gli occhi; gli si strinsero le interiora nel ventre nel ricordare di aver aggredito il povero Joon in un modo tanto brutale, e nonostante non riuscisse ad agguantare che frammenti ed immagini effimere dell’accaduto, era certo di poter raccogliere dei ricordi sporadici ma più che tangibili. Non si era trattato di un sogno, ma di un vero e proprio cambio di forma nel suo corpo. «E oggi non hai che una minuscola ferita... come se ti fossi rigenerato». Sollevò quindi una mano, andando a ripercorrere il punto in cui era stato colpito proprio come stava facendo Joon, e di colpo tutto iniziò ad acquistare significato. Dalla morte era tornato in vita, e da uno stato di non-morte era nuovamente passato ad uno totalmente senziente, in grado di risanare ogni ferita. Non poteva aver immaginato il colpo, doveva essere stato reale. «Ricordi tutte queste cose?» Nell'annuire rivolgendosi a Joon, Noah iniziò ad avvertire la stanchezza tornare ad impossessarsi di lui; tutte le informazioni che aveva assorbito e le domande che lo attanagliavano gridavano d'essere ascoltate, eppure in quel poco tempo ne venne sopraffatto. Avrebbe voluto sapere tutto subito, ma anche estraniarsi completamente dalla realtà in cui era stato catapultato così bruscamente. «Magari potremmo dire che sì, potrebbe essere questa la tua particolarità... ciò che Besaid ha voluto regalarti. Il tornare in vita dopo la morte, ma essere costretto ad attraversare uno stato alterato della coscienza. Questo potrebbe somigliare un po' all'idea che si ha comunemente dello zombie ma attualmente sei vivo, cosciente, lucido. Forse è successo qualcosa che ha fermato quello stato?» Che Besaid mi ha regalato. Non appena arrivato nella cittadina, Noah aveva ben presto intuire la sua unicità, ma non era ancora stato esposto alle particolarità del tutto consapevolmente; si trattava più di una sensazione sottopelle, una che gli suggeriva di restare all'erta e di indagare il mondo attorno a sè diversamente rispetto a come aveva fatto prima. Besaid non sembrava essere una cittadina come le altre, e lo aveva realizzato nelle maniere peggiori.
    «Ma... avevi altro da dirmi, vero?» Strappato ai propri turbinanti pensieri, Noah si concentrò nuovamente su Joon, riscaldato dal suo sorriso. Quasi in un riflesso involontario gli sfiorò appena il braccio che ancora raccoglieva in una leggera carezza, e poi iniziò con calma a tracciarvi su delle linee, attento a non recare alcun fastidio. Non aveva più nulla di specifico da rivelare a Joon, eppure sentiva di non aver ancora reciso l'intreccio che li univa e volle onorarlo, continuando a solcare delicatamente la pelle con la punta della penna, imprimendo in essa, una lettera dopo l'altra, un intreccio tra i loro nomi ripetuti più volte che seguiva circolarmente tutto l'avambraccio sino a terminare sul dorso della mano sottile ed ampia di Joon in caratteri sia grandi che più minuti. La girò con lentezza, e silenzioso disegnò la sagoma di un paio di labbra aperte sul palmo di Joon, riempiendole di colore nero sinchè non furono del tutto coperte d'inchiostro. Era stato Joon a parlare per lui, a dargli una voce quando si era accorto di non averla più, a dargli le prime fondamentali risposte che lo avrebbero riportato alla vita e che l'avrebbero guidato, proprio come quelle istintive e primordiali che un bambino necessita dalla bocca materna. Sopra alla sagoma nera Noah tracciò un'ultima parola, un piccolo "grazie" che tanto sembrava voler richiamare l'attenzione di Joon. Non gliel'aveva ancora detto, ed aveva atteso sino all'ultimo per essere certo d'essere al sicuro, finalmente in compagnia di qualcuno che non gli avrebbe fatto del male. Non appena la punta a sfera si separò dall'epidermide dorata il disegno d'inumidì appena, nel ricevere altre due pesanti lacrime cadute dagli occhi del ragazzo, colto da una grande confusione ed al tempo stesso da un latente e profondo sollievo. Non aveva mai potuto raccontare la propria storia a nessuno, nè essere visto per chi fosse veramente. Non pensava che il momento in cui la morte l'avrebbe abbracciato sarebbe stato quello in cui avrebbe acquistato una nuova vita, pronta ad accogliere senz'altro nuovi dolori ma anche nuove gioie e nuove persone. Abbandonò quindi la penna sul tavolo, portandosi così le mani agli occhi per nascondere il volto e lasciare che ogni sentimento fluisse fuori da esso. Va tutto bene, va tutto bene. Non c'è nulla che può farti del male qui. La voce di Joon tornò ad echeggiare nelle stanze affollate della mente di Noah e le riempì del tutto con quelle morbide rassicurazioni, che familiari e gentili lo riportarono a se stesso. Le dita continuavano a toccare quelle dell'altro, a ricercarne il lieve calore, e si allontanarono solo per accostarsi ad quello della tazza, nel cui liquido pieno di tepore affondarono alcune delle gocce salate prima di avvicinarsi alle labbra del minore e scivolare al loro interno. Con il polso, Noah si occupò di eliminare gli ultimi residui d'emozione dagli occhi, e più rilassato anche solo per quei piccoli sorsi caldi, riportò gli occhi brillanti in quelli di Joon. «Chi sei tu, Joon?» Domandò lui utilizzando solo l'ausilio delle mani, che sperava l'avrebbero aiutato, per quanto possibile, a trasmettere la sua domanda, prima di riprendere a scrivere. «Mi puoi raccontare di Besaid, se ti va?» Proseguì dopo poco, mentre nel tirare su col naso lo sguardo iniziò a toccare l'invitante fetta di torta poco lontano, richiamata dai gorgoglii della pancia non ancora riempita del tutto. Noah allora avvicinò una posatina al dolcetto per lasciarla affondare nell'impasto soffice, e nell'assaggiarla, quella fetta sembrò aver risvegliato per la prima volta i sensi del ragazzo, i cui occhi si spalancarono in un'espressione meravigliata. Non aveva mai mangiato nulla di così buono. Lo fece sapere a Joon immediatamente, asciugandosi una guancia per poi toccarla appena con l'indice, segnalandogli quanto davvero stesse apprezzando il cibo che gli era stato offerto. D'improvviso però quel momento degustativo venne interrotto da un zampettare tenue ma presente, che guardingo s'avvicinò alla porta sino ad oltrepassare la soglia della stanza. Il tartufo di Bobo non impiegò molto tempo ad intercettare gli odori dei presenti, e dirigendosi velocemente verso Joon, il pacifico alano ne ricercò le tracce olfattive, chiedendogli più volte con lo sguardo chi fosse l'altra persona che era con lui; ne interrogò le forme senza però avvicinarsi troppo, e Noah l'osservò interessato di rimando, avvicinando solo il palmo di una mano al suo muso senza però iniziare un vero e proprio contatto. «Come si chiama?» Scrisse velocemente, per poi attendere una risposta mentre sulle labbra gli sbocciava un ampio sorriso.
     
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    Pazienza. Decretò la voce più calma all'interno della mente di Joon. Non aveva smesso di guardare Noah, di osservarlo in silenzio; nella sua testa, alimentate dal sentimento di paura che si nascondeva dietro racconti dell'altro, si generavano idee e connessioni nuove. Anch'esse, terrorizzate dal trovarsi sole nel mezzo di quella camera che percepivano come scura, fremevano dalla voglia di stringersi e accorparsi. Come avrebbe potuto aiutarlo? Pazienza: la sentiva espandersi fino a diramarsi nel mezzo di tutto il grumo in cui si erano accartocciati i suoi pensieri. Li spostava con delicatezza, afferrandone con i ganci in legno un'estremità e, come un fuso, restituiva loro una forma compatta, una struttura che sarebbe stato in grado di leggere. Era un lavoro lento, necessario, e che mani poco esperte come le sue non credevano di essere in grado di sopportare tuttavia nel guardare il filo scuro allungarsi, non poteva che cogliere alcune fluorescenze scintillare nel centro. Fra i pezzi di racconto che tremavano per via dell'orrore erano apparse piccole luci che non illuminavano o coloravano il filo, non lo alteravano in nessuna sua parte, ma ricadevano su quella pista in una polvere quasi impercettibile. Abbracciandone la superficie, la proteggevano. Quell'energia lenta continuava a far scorrere le dita fra un intreccio oscuro e, in silenzio, laboriosamente radicò a terra, si spinse verso l'alto e si lasciò percorrere dalla penna di Noah lungo tutto il tronco. Grazie. Sospirava la corteccia, raggiunta dalle dita della mente di Joon. Sedutosi ai piedi dell'albero, il giovane alzò il capo fra le fronde fitte e chiuse, gelose della propria compattezza, opposte ad ogni porosità. Joon, semplicemente, sorrise. Chinò quindi di poco le palpebre, aprì sulle proprie gambe i fogli che contenevano tutto quello che sapeva di Noah, non preoccupandosi di non poterli ancora leggere del tutto. Era al buio ma era sereno: solo attraverso le crepe sarebbe potuta filtrare la luce.
    Grazie. Quando Joon alzò lo sguardo dalla propria mano furono due occhi appannati e pieni di lacrime ad accoglierlo; Joon giurò di veder delle piccole scintille generarsi dall'incontro fra la sua pelle e le pesanti gocce che abbandonarono gli occhi di Noah. «Ehi, Noah.» Lo richiamò con voce morbida e osservò le mani di Noah ritirarsi per nascondere il viso del ragazzo. Joon si alzò, pronto a raggiungerlo ed eliminare ogni distanza fra loro, purtroppo entrando nel suo spazio senza esserne completamente autorizzato. «Lo sai, puoi piangere quanto vuoi. Quello che mi hai detto è... tanto.» Parlò a bassa voce, sperando di essere in qualche modo una fonte di conforto per il giovane, trovandosi ad inginocchiarsi vicino a lui. Se Joon riusciva ad avvertire il peso di quelle parole com'era per Noah averle vissute sulla sua pelle? «Noah...» La voce di Joon lo raggiunse di nuovo o, almeno, sperò di riuscire a farlo. Con delicatezza le dita del giovane circondarono i polsi di Noah, invitandolo a mostrargli il viso: non lo voleva forzare a spogliarsi di quella difesa e, infatti, attese che fosse l'altro ad arrendersi a quella presenza. Non sei solo. Ne ricercò lo sguardo acquoreo e imprimendo un palmo caldo contro la guancia sinistra lasciò sul viso di Noah una carezza, mentre l'altra ne stringeva il palmo, compiendo delle minuscole traiettorie circolari con il pollice contro il dorso di Noah. Tornò ad osservare il piccolo segno sulla guancia di Noah e, senza avvertire gli angoli della bocca alzarsi di poco, si ritrovò a sorridere. È da lì. Sarebbe stata quella l'apertura. «Ti sto per abbracciare, okay?» Lo avvisò senza aspettare di ricevere un cenno d'assenso da parte di Noah, lasciando scivolare la mano che aveva appoggiato contro la guancia del ragazzo per raccoglierne la nuca, avvicinandolo con affettuosa irruenza al proprio petto e incontrando l'incavo del collo dell'altro. L'aveva costretto a chinarsi un po' e, poco dopo, piazzò una carezza fraterna sulla testa del più giovane. «Mi farò perdonare per questo abbraccio.» Commentò intenerito, stringendo l'intero busto di Noah in un abbraccio solido, accogliendone la magrezza e gli spigoli, attento a non soffocarlo con quella spontanea ma non richiesta dose d'affetto.
    Quindi, solo quando immaginò di aver tediato troppo l'altro, Joon si staccò e tornò in piedi, prendendo di nuovo posto sulla propria poltrona. Nel lasciarsi cadere contro la seduta, avvertì la strana sensazione di aver acquisito del peso in più: eppure non aveva più fame e, nello scrutare il tavolo coperto dalle pietanze che avrebbero potuto condividere insieme, Joon non faceva altro che alternare l'attenzione fra i fogli compilati da Noah, il proprio braccio e il ragazzo stesso, che dopo essersi concesso un sorso di bevanda calda si cacciò le ultime lacrime dagli occhi. Quando si accorse di essere stato interpellato, l'espressione di Joon mutò leggermente, dipingendosi di una vaga sorpresa che venne gradualmente sostituita da tratti più aperti e distesi. Chi sei tu, Joon? Alla domanda, mimata da Noah e decifrata senza troppe difficoltà da Joon, il ragazzo si pizzicò con le punte delle dita alcuni ciuffi di capelli che sfioravano appena la propria guancia. Se normalmente quella domanda l'avrebbe gettato in un turbine di elucubrazione esistenziale, trovò singolare come la risposta a quell'apparentemente semplice interrogativo fluì dalle labbra con naturalezza. «Beh... io sono tuo amico, Noah.» Confermò nello stringersi nelle spalle, avvicinando a sua volta la propria tazza di tè alle labbra e nascondendo dietro l'orlo un sorriso affettuoso. Troppo sentimentale? Eppure non ne avvertiva l'imbarazzo. Sperava di raccogliere dalla bocca dell'altro almeno un piccolo sorriso derisorio.
    Mi puoi raccontare di Besaid, se ti va? Come la richiesta per carta e penna di prima, Joon avvertì una certa frenesia nel poter rispondere a quella domanda: finalmente erano giunti in un campo che conosceva con più sicurezza. «Certo che posso.» Si affrettò a rispondere, appoggiando la tazza sul proprio piattino e gettandosi più in avanti sulla seduta. Sul finire dell'estate, quando la città aveva accolto Joon con i suoi splendidi colori morenti che erano sbocciati fino al punto più estremo, il ragazzo non aveva perso tempo a vivere i suoi perimetri chiamando all'azione ogni sua estremità. Far scorrere gli occhi su volumi e volumi di una piccola biblioteca in città non avrebbe potuto completare la curiosa sete che aveva avvertito in quei momenti e, allo stesso modo, immergersi in uno scambio sensoriale con quei nuovi spazi non avrebbe potuto soddisfarlo. Mentre snocciolava fatti e curiosità adatti allo stato mentale di Noah, Joon si accorgeva di conoscere sempre meno di quello che aveva imparato. Forse avrebbe dovuto ricominciare a farsi delle domande. «Ma quello che ti racconto potrebbe non essere una buona versione dei fatti per te. Se... se vorrai rimanere a Besaid, sono convinto che passare qui potrebbe darti una mano. Conosco la bibliotecaria, è una tipa... come dire, interessante. Magari più in là, ovviamente. Quando avrai deciso che fare.» Appuntò sulla carta un semplice scarabocchio: dokk1. Lo guardò, poi alzò lo sguardo verso Noah, rivolgendogli un piccolo sorriso con tanto di fossette.
    Quando sentì lo zampettare incerto di Bobo, il ragazzo sollevò entrambe le sopracciglia e si trattenne dal non piegarsi alla presenza dell'adorato cane, scivolando in un tono più acuto. Al contrario, monitorò con attenzione i movimenti dell'animale e, di conseguenza, le reazioni di Noah, sperando che quella pressoché innocua presenza - almeno agli occhi di Joon - non fosse fonte di nervosismo per l'amico. La mano di Joon naturalmente incontrò il muso di Bobo, raccogliendone la mascella in una carezza affettuosa. Sembrava che due curiosità si fossero svegliate nello stesso momento e Joon per poco non s'incrinò in una risatina quando lesse l'interesse negli occhi di entrambi i presenti nella stanza. «Oh... lui? Lui è Bobo». Lo informò e le labbra si distesero naturalmente in un sorriso, contento di poter leggere anche nell'espressione di Noah delle tracce di serenità, comunicate anche nel silenzio attraverso il semplicissimo indizio di un ampio sorriso. «Lo so che sembra già enorme... e pensa che crescerà ancora. Per il momento ha solo sei mesi. A-ah, è amichevole, e sembra davvero curioso di conoscerti...» Continuò a dire, invitando con un cenno del capo Noah a farsi più vicino. Richiamò l'attenzione del cane e, alzando poco sopra la testa di Bobo l'indice e il pollice riuniti in un piccolo pizzico, invitò il cane a sedersi. Seppur con qualche secondo di ritardo - il piccoletto era ancora in fase d'allenamento -, Bobo piantò il sedere a terra, iniziando a scodinzolare, forse in attesa di un premio sotto forma di biscotto. «Gli piacciono le carezze sulla pancia. Muove perfino la zampa. Vuoi provare?» Domandò divertito e rivolto verso Noah. Subito dopo chiese a Bobo di cambiare nuovamente la posizione, in modo che prendesse le sembianze di una foca con tanto di ventre all'aria e, iniziando a solleticarne la parte esposta, richiamò Noah affinché si facesse più vicino, per poi lasciare i due a quel momento di scambio d'affetto.
    Guardandoli, inginocchiato a poca distanza dai due, Joon permise a quelle immagini di imprimersi contro la sua retina. Lasciò scivolare gli occhi contro il proprio braccio, sulla risma di carta che custodiva la testimonianza di Noah e, con calma, srotolò la manica della propria maglia in modo da ricoprire la pelle toccata dall'inchiostro. Che cosa succederà? L'avrebbe protetto. Trattenendo un piccolo sospiro, il suo organismo sembrò avvertire subito quel mancato rilascio che si era bloccato all'altezza dello sterno. Quanto avrebbero potuto sopportare quei rami appena nati? «Se lascerai la porta aperta questa notte potrebbe venire a dormire con te...» Lo informò mentre un tenue sorriso gli distendeva le labbra, indicando con un cenno del capo Bobo, che sembrava essere molto compiaciuto delle attenzioni che stava ricevendo in quel momento. Joon iniziò a giocherellare con le proprie dita, rimanendo seduto ancora sui propri talloni. Se doveva essere sincero, aveva dormito a tal punto da non credere di essere in grado di riprendere sonno quella notte. Si domandò se per Noah valesse lo stesso e, invece di permettere a quel dubbio di rimanere irrisolto, si rivolse direttamente all'amico. «Ti andrebbe di... fare due passi nel bosco? Casa mia ne è praticamente circondata. L'importante è non far capire nulla al signor Roald, non credo ci lascerebbe andare in giro senza supervisione dopo quello che è successo.» Gli propose con tono complice e più basso, come se nemmeno Bobo dovesse essere reso partecipe di quel piano. Un po' d'aria fresca non avrebbe fatto di certo male e, sperava, sarebbe stata salutare anche per i nervi dell'amico. Di certo non aveva paura di essere nuovamente ferito da Noah: si fidava di lui e credeva che sarebbe stato in grado di risolvere ogni problema, uno alla volta. «Dovrebbe esserci la luna piena e... ti va, Noah? Non staremo via molto.» Più parlava, più s'immaginava già con il cappotto addosso nel bel mezzo dell'aria fredda, a godere dell'intermezzo luminoso fra la luce lattea della luna e gli spazi lasciati liberi dalle foglie più timide. Joon si alzò, muovendo qualche passo verso la porta della stanza. Avrebbe mostrato le sue crepe a Noah, sperando di imparare a decifrare le sue.
     
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    Pazienza. Dopo una salita se ne ergeva un'altra, sempre più irta, sempre più difficile da percorrere e destinata a portare ad una caduta sempre più dolorosa ad ogni inciampo. Noah aveva avuto molta pazienza in vita sua, sin da bambino si era ritrovato a dover accogliere le sofferenze degli altri come fossero le proprie, e solo una volta impossibilitato a sostenerle aveva deciso di smettere di attendere. Sì, perchè la pazienza inevitabilmente richiede tempo: tempo per sopportare, per sperare in qualcosa di migliore, per formare delle aspettative. Noah però aveva deciso di smettere di aspettare una volta scappato dalla vita opprimente con sua zia, aggrappandosi a se stesso per iniziare un percorso nuovo. Non sapeva, nell’ingenuità della sua giovane età, che la vita che si prospettava davanti a lui avrebbe esatto ancor più pazienza di quanta non ne avesse già serbata. L'adrenalina e l'entusiasmo iniziali si erano trasformati in insicurezze e timori, distorcendosi nelle loro linee iniziali; la vita di strada non si rivelò affatto facile, e con l'aumentare delle insidie che presentava, Jungkook capì di dover pazientare ancora. Non si sarebbe mai aspettato che nella sua vita un pattern tanto ineludibile sarebbe cambiato ancora, portando la pazienza ad essere il risultato della sua letterale rinascita. Era stato Joon a regalargli altro tempo, ad offrirglielo insieme ai suoi oggetti, alla sua ospitalità ed al suo cibo, e Noah per la prima volta non sapeva che farsene di quei giorni che si stagliavano davanti a lui sconosciuti ed informi. Svegliami sin nel profondo. Una prima richiesta sbocciata dalla terra si intrecciò come radici alle membra di Joon, diramandosi da quelle di Noah sino a lui e collegandoli in un primo e violento contatto, i cui residui si manifestarono anche nelle stanze moderne ed accoglienti della casa del maggiore, che Noah non aveva ancora del tutto compreso. Per la prima volta in vita propria fu sollevato nel dover avere pazienza, nel dover sopportare ed attendere; Joon era, per quanto straordinariamente, diventato il suo perno, la persona attorno a cui gravitare durante quegli stati di vulnerabilità immensa. Se col suo aiuto avrebbe potuto vivere di nuovo, a Noah non sarebbe dispiaciuto pazientare.
    Dunque strinse i denti nuovo, lasciando che ondate di dolori passati e presenti lo riattraversassero nel raccontare dei pezzi scuri della sua storia, in modo che toccassero non solo la carta su cui venivano riversati ma anche la pelle ed il corpo di Joon, già macchiato dai solchi della dentatura di Noah. Inevitabilmente gli eventi ancora troppo brucianti e vicini avevano spinto Noah nel buio nuovamente, cavandogli dagli occhi le lacrime che ben presto iniziarono a scivolare via da essi, infrangendosi in bollenti moniti contro quella stessa pelle dorata che Noah aveva grottescamente assaggiato poco prima. «Ehi, Noah.» Con lo sguardo offuscato di lacrime, non si accorse nemmeno dell'avvicinarsi di Joon, intento a colmare la distanza tra loro anche attraverso la sua voce dolce. «Lo sai, puoi piangere quanto vuoi. Quello che mi hai detto è... tanto.» Intrappolato nei fili spessi del pianto, Noah si rifugiò nelle parole che Joon volle dedicargli, un porto sicuro ed anche inevitabile dato che pur volendo, non sarebbe riuscito a fermare le lacrime. Chiamami per nome e salvami dall'oscurità. «Noah...» Nel mezzo di un sussulto, Noah si chiese se sarebbe stato possibile per lui spezzarsi ancor di più, frammentarsi in pezzi talmente piccoli da essere invisibili; sarebbe stato bello sparire per un po', diventare nulla e smettere così di soffrire con la stessa intensità che da quando era strisciato fuori dal terreno non l'aveva mai davvero abbandonato. Non si aspettava che Joon si sarebbe avvicinato sino a toccarlo, eppure non riuscì a proteggersi oltre; sarebbe stato inutile nascondere i sentimenti che erano apparenti ad entrambi, ed abbandonato a quelle cure tanto affettuose, Noah lasciò semplicemente che Joon entrasse nei propri spazi occupandoli anche del tutto se avesse voluto. Gli strinse la mano, e nel fare ciò anche i respiri sincopati e singhiozzanti si acquietarono in un ritmo più pacifico che gli invase i polmoni, ricordandogli ancora una volta di essere vivo direttamente dal calore del palmo di Joon. Era diventato lui l'aggancio che teneva Noah saldamente attaccato alla realtà, trattenendolo a sè in una stretta dolce e sconosciuta. «Ti sto per abbracciare, okay?» Annebbiato dalle lacrime, lo sguardo non riuscì neanche ad intercettare il corpo di Joon nel farsi più vicino, circondando ora del tutto Noah in un abbraccio. Non si chiese se fosse prudente, se sarebbe stato sicuro entrare così intimamente in contatto con una persona che non conosceva, sentirne il respiro vicino e le mani sulla schiena e tra i capelli. Ripensandoci, era troppo tempo che non succedeva. «Mi farò perdonare per questo abbraccio.» Joon non ebbe nemmeno il tempo di finire la sua frase che Noah sentì un altro spesso strato di lacrime abbandonargli gli occhi, mentre le mani andarono a stringersi alla stoffa della maglia dell'altro, e scosso da altri lievi tremori, il corpo di Noah si raggomitolò contro il tepore di quello di Joon, con una guancia che si appoggiava alla sua spalla per accettare il supporto che gli era stato offerto. Quell'abbraccio gli permise di crollare del tutto e di non sentirsi a disagio nel farlo, ora che pian piano Joon si era trasformato in un sollievo e nei minuti stessi che Noah stava vivendo. Si concentrò sul suo odore, sulla forma di quel corpo estraneo e accogliente e sul calore che emanava che tanto gli ricordava quello che sarebbe dovuto essere quello di una famiglia, di un fratello.
    Solo dopo qualche lungo minuto Noah lasciò che Joon si allontanasse, rispondendo al latente mal di testa che aveva preso a pulsargli nelle tempie regalandosi un sorsetto del tè a poca distanza da lui. Gli fu naturale chiedere all'altro di soddisfare la sua curiosità, non tanto per auto-preservazione ma per pura voglia di conoscere ciò che ancora gli era ignoto. «Beh... io sono tuo amico, Noah.» Quelle parole inaspettatamente lo riscaldarono, lasciando forse che avventatamente una sensazione di fiducia prendesse largo in Noah, teso ad associare all'amicizia qualsiasi comportamento che non minasse alla sua incolumità. Per quanto sconosciuto, Joon gli sembrava una persona generosa e buona di cuore, e Noah si rese conto di non poter avere alcun metro di paragone attraverso cui comprenderlo: non aveva mai conosciuto nessuno come lui. La risposta infatti lo soddisfò molto più di quanto potesse prevedere, rispecchiando il sorriso che si dipinse sule labbra di Joon, spuntato su quelle di Noah con altreattanta spontaneità ma più timidamente. Sperò che lui potesse dargli delle risposte che sin dal suo arrivo avevano chiesto di essere pronunciate, tuttavia Joon temporeggiò, probabilmente con l'intento di proteggere il più piccolo da una quantità di informazioni che in quel momento non avrebbe potuto elaborare nel modo più giusto. «Ma quello che ti racconto potrebbe non essere una buona versione dei fatti per te. Se... se vorrai rimanere a Besaid, sono convinto che passare qui potrebbe darti una mano. Conosco la bibliotecaria, è una tipa... come dire, interessante. Magari più in là, ovviamente. Quando avrai deciso che fare.» Per essere qualcuno che avrebbe potuto potenzialmente fargli del male, Joon sembrava una delle persone più amichevoli che Noah avesse mai conosciuto, anzi, senza dubbio l'unica. Si era premurato di dargli un letto dove dormire, dei nuovi vestiti, del cibo ed anche di confortarlo e dargli notizie su una ~interessante~ bibliotecaria. Noah non potè che trovare inusuali ma gradite tutte quelle premure. Per il momento, fu estremamente grato a Joon per averlo accolto almeno per la notte, in modo da poter riprendere le forze e capire cosa fare di se stesso.
    Invita il mio sangue a scorrere. Con un lieve cenno della testa, Noah lasciò intendere a Joon di averlo ascoltato, ancora incerto su come esprimere la propria gratitudine. Grazie. Gli scrisse ancora una volta, accompagnando quella piccola frase con una minuta faccina sorridente, non potendo per il momento incanalare adeguatamente ogni emozione provata. Proprio in quell'istante, a strapparlo della sue riflessioni arrivò Bobo, impaziente e vagamente sospettoso nell'osservare il nuovo ospite. Quindi, dal tocco gentile, le mani di Joon lambirono affettuosamente il muso del giovane e grande cane, mentre Noah ne ammirava le forme e lo osservava curioso. Lo trovò immediatamente carino e volle subito conoscerlo; non era raro infatti, nel suo periodo di vagabondaggio, che trovasse negli amici a quattro zampe dei compagni molto più interessanti degli esseri umani. Nell'osservare lo sguardo e le tenerezze che Joon rivolgeva al cucciolo, potè immediatamente comprendere il legame forte che li univa, e per qualche momento non volle disturbarlo, interpellando l'altro ragazzo solo dopo. «Oh... lui? Lui è Bobo». Bobo... Ripetè Noah, ricalcando i suoni muti solo con le labbra, prima di increspare appena lo sguardo in due mezzelune più rilassate, indici di un sorriso pronto a sorgere dall'orizzonte delle labbra. «Lo so che sembra già enorme... e pensa che crescerà ancora. Per il momento ha solo sei mesi. A-ah, è amichevole, e sembra davvero curioso di conoscerti...» Bastò il cenno di Joon ad incoraggiare Noah a farsi avanti, proprio mentre Bob gustava il suo biscottoso premio. «Gli piacciono le carezze sulla pancia. Muove perfino la zampa. Vuoi provare?» Noah sembrò quasi tornato bambino, libero da alcune delle ombre che gli sporcavano il volto mentre scendeva velocemente dalla sedia, avvicinandosi a Bobo inginocchiandosi sul pavimento, imitando così i movimenti di Joon nel posare con cautela il palmo aperto sul ventre del cucciolo ed accarezzarlo amorevolmente, ritrovando nelle sue reazioni entusiaste un vero e proprio toccasana. Con un pollice in su, Noah comunicò tutta la sua gioia, lasciando intendere a Joon di avere un cane stupendo, alternando lo sguardo tra lui e Bobo, a cui dedicò carezze ed affettuosi grattini ovunque il giovane alano gli stava facendo intendere di apprezzarle di più. Gli rivolse un sorriso sempre più ampio e luminoso, ricevendo in risposta tutte le leccatine che Bobo volle regalargli e le cui attenzioni un po' più umide accettò di buon grado. «Se lascerai la porta aperta questa notte potrebbe venire a dormire con te...» In qualche modo, sin dal loro primo incontro quando ancora Noah non riusciva a riconoscerlo, Joon sembrò rassicurarlo attraverso la sua voce, ogni parola una goccia in grado di lenire dolori e preoccupazioni. Gli fece piacere sapere anche questo, che non sarebbe stato solo, nè in quel momento, nè più avanti, anche se non avrebbe potuto nascondere che il pensiero della notte e del dormire pareva lontano anni luce. Forse Bobo avrebbe voluto giocare un altro po' prima di dormire, nonostante le membra voluminose del cucciolo sembravano fargli consumare non poca energia. Mi piace tanto Bobo, è gentile come te. Scrisse velocemente Noah, lasciando che i lievi tratti solcati nella carta raggiungessero in un complimento diretto e spontaneo lo sguardo dell'altro.
    Prima che io mi disfaccia, Ancora seduto per terra, Noah si prese qualche attimo per portare le iridi lucide e brillanti sulla figura di Joon. Sentiva, nel profondo, che quella persona aveva in un momento straordinario e sovrannaturale, cambiato la sua vita. Si dice spesso che le esistenze sono fatte di momenti, eppure la sua gli sembrava essere semplicemente nascosta nei luoghi più impensati; aveva conosciuto il distacco nella famiglia, aveva trovato salvezza nella strada, morte là dove aveva sperato di essere curato ed accolto, ed amore nella terra della sua tomba, perchè tutto ciò che Joon che aveva fatto per lui aveva quel volto, quello di un sentimento incondizionato di generosità che tanto rassomigliava a quello dell'amore stesso, e che Noah riconosceva nei lineamenti ancora stranieri dell'uomo accanto a sè. «Ti andrebbe di... fare due passi nel bosco? Casa mia ne è praticamente circondata. L'importante è non far capire nulla al signor Roald, non credo ci lascerebbe andare in giro senza supervisione dopo quello che è successo.» Una casa nel bosco. Per molti sarebbe stato quantomeno un campanello d'allarme per restare guardinghi, eppure Noah non fece che annuire, alzandosi dal pavimento in una mossa fluida, per quanto leggermente rallentata. Si chiese, ancora una volta, se non fosse invece lui la persona di cui dubitare ed essere spaventati; sperò di non star impazzendo, di non aver reagito con quel mostruoso picco di cannibalismo in reazione ad un trauma troppo grande che l'aveva definitivamente reso qualcosa che non avrebbe voluto essere. Ogni sconforto sarebbe però arrivato ad affollargli la mente in un altro momento, arginati tutti con ondate di forza che spingevano Noah a resistere, a non lasciare che quelle precarie dighe cedessero lasciandosi così travolgere dalla mareggiata dei suoi pensieri più nefasti. «Dovrebbe esserci la luna piena e... ti va, Noah? Non staremo via molto.» Annuì di nuovo, e senza neanche pensare di coprirsi, Noah agguantò l'ultimo pezzo di torta rimastogli nel piattino e se lo portò alle labbra, dirigendosi così a passo rilassato verso la porta. Invitò Joon a seguirlo pur non sapendo dove si trovasse la porta d'ingresso, e lo lasciò passare avanti dopo averlo visto indossare il cappotto nei pressi dell'entrata. Noah si posò solamente una coperta sulle spalle, come se non volesse offendere Joon in qualche modo non coprendosi e rendendolo quindi più preoccupato. Forse sarebbe uscito senza se fosse stato solo, ma non oberare Joon di curarlo anche di un raffreddore gli sembrò il minimo che potesse fare. Si addentrarono quindi nella foresta, i cui contorni notturni, per quanto misteriosi e selvaggi, non intimidirono Noah, bensì lo affascinarono. Camminava lentamente, immerso in un silenzio che lo avvolse con la stessa potenza di una melodia attentamente composta, passo dopo passo. Dietro di loro le luci dalla casa illuminavano una parte del percorso, l'altra invece rischiarata dalla luce della luna, che proprio come aveva accennato Joon, era piena ed alta nel cielo ormai. Dopo qualche metro, Noah sentì quasi di poter svenire in quell'istante; era vivo. Lo era davvero. Sentiva l'odore delle radici e della terra umida riempirgli le narici, invadergli i polmoni e raffreddarli con l'aria fredda che lo lambiva ed entrava in circolo nel suo corpo caldo. Sentiva il frinire dei grilli, il cinguettare dei pochi uccelli ancora in volo ed il fruscio delle fronde accarezzarsi lambite dal vento. Allora si fermò. Si sfilò le pantofole e piantò saldamente i piedi per terra, lasciando che tornassero alla terra da cui erano usciti, mentre una mano andò a cercare il tepore di quella di Joon, stringendola in una lieve presa finchè non vi affondò, scivolando con le dita tra le sue proprio come aveva fatto nella sua lotta per emergere dal terreno. Lasciò che invece fosse il tocco vivo dell'essere umano che l'aveva salvato ad inondargli il palmo, ed infine strinse. Poteva sentire il battito del suo cuore arrivare dalla sua pelle alla propria, invitandolo a lasciarsi scivolare la coperta dalle spalle per sentire tutto quello che poteva, affamato di vita proprio come lo era stato, in altre forme, prima. Un passo, poi un altro, e Noah sollevò lo sguardo verso il cielo, ne interrogò le stelle che scintillando si offrivano al suo sguardo in un impagabile regalo. Poi, scendendo, quel panorama trovò la sua naturale continuazione nei meandri dei rami intrecciati in forme notturne, ed infine nei lineamenti di Joon, ora di fronte a lui. Noah lo osservò per qualche lungo secondo, e mentre quel volto gentile tornava ad appannarsi sotto un velo di lacrime, Noah sollevò la sua mano nella propria per portarsela al petto. Voleva che Joon lo sentisse, che fosse testimone insieme a lui della vita che entrambi erano riusciti a riportare alla luce. Poi si avvicinò, e cingendogli le spalle con un braccio lo tirò verso di sè, abbracciandolo di nuovo, stavolta con più sicurezza. Sapeva quanto entrambi in quelle ore avessero dato e preso, eppure non aveva idea di cosa ciò avrebbe significato nel futuro. Poteva essere sicuro solo di quella stretta, della solidità del corpo di Joon vivo contro il proprio altrettanto funzionante, del cielo sopra le loro teste e della terra sotto ai loro piedi, pronti a camminare ancora un altro po' nel freddo della notte Besaidiana. Salvami dal nulla che sono diventato.
     
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    "Mi piace tanto Bobo, è gentile come te." Nel leggere quelle poche e semplici parole tratteggiate su un foglio di carta da parte del più giovane, Joon non poté che abbozzare un sorriso, incapace di comprendere se l'avesse fatto per via dell'imbarazzo, della timidezza o per genuina gratitudine - la sua intenzione era proprio quella di farlo sentire a suo agio e, nel ricevere una conferma, si sentì stranamente appagato, come se finalmente potesse rilassarsi un po'. Quando intercettò lo sguardo bagnato di Noah sul suo viso, allora si rivolse a lui, mentre l'espressione pacatamente sorridente si faceva più calorosa e su entrambe le guance comparivano due fossette che caratterizzavano spesso le curve dei sorrisi più sereni. Quindi tornò a parlare, sperando che con la proposta di uscire di casa per poter fare due passi all'aria aperta i due potessero condividere quella peculiare serenità che solamente la natura era in grado di regalargli alle volte; gli piaceva perdersi consapevolmente nel mezzo del bosco, abbandonarsi ad esso per poi venir restituito alla realtà con addosso qualcosa di diverso, che non avrebbe mai immaginato di poter portare con sé. Delle volte erano dei funghi, altre volte del muschio, più spesso delle riflessioni su domande che non avrebbero potuto aver risposta - e pensare che era stata proprio una di quella a permettergli di essere lì, di fronte a Noah, per proporgli di andare ad alzare gli occhi verso la Luna insieme. «Ti si è aperto lo stomaco...» Commentò, più fra sé e sé che rivolto al giovane, contento di vederlo consumare un pezzetto di torta alla carota. Gli andò dietro, quasi naturalmente, come se avesse dato per scontato il fatto che Noah conoscesse già la strada verso l'uscita (quando l'unica che gli aveva indicato, forse un po' teatralmente, era stata una delle finestre che si affacciavano verso l'esterno). «Ah, già...» Mormorò sovrappensiero, avendo compreso come l'altro stesse aspettando che fosse il proprietario di casa a mostrargli la via verso l'uscita. «Di qua.» Aggiunse poco dopo, scoraggiato da quel suo slancio di fiducia e di accoglienza, immaginando di aver fatto una figuraccia.
    Vagamente perso nei suoi pensieri, scese le scale senza davvero prestare attenzione ad ogni singolo scalino fino a quando, sul punto di girarsi verso Noah per potergli comunicare chissà che, mancò l'ultimo e si sentì privato della terra sotto i piedi per qualche secondo. Reagì con rapidità, pur in modo tremendamente rumoroso, piantando i piedi per terra e scampando così ad una caduta certa. Si guardò attorno, un po' allarmato, ma riuscì ad individuare con la coda dell'occhio solo Bobo che tornava in tutta tranquillità alla sua regale cuccia. Si portò l'indice di fronte al naso e, pigiandoci contro, chiese inutilmente all'altro di non fare troppo rumore: sapeva benissimo che il signor Roald li aveva sentiti entrambi, di sicuro dopo il baccano generato da Joon, tuttavia gli parve opportuno ricordare a Noah le regole di quella fuga rocambolesca. Scosse la testa, rassegnato alla propria goffaggine, lanciando un'occhiata di sfida ai propri piedi scalzi. In poco tempo furono pronti a varcare la soglia di casa ma, resosi conto che Noah non avesse acchiappato nessuno dei cappotti appesi all'ingresso - ma invece una coperta, probabilmente di proprietà di Bobo, utile dopo le uscite in cui venivano colti dalla pioggia, Joon lo acchiappò per la maglietta. Lo tirò all'indietro e, con briga fraterna, si occupò di metterlo bene al caldo. «Oh, no, no. Aspetta. So che sei stato decisamente più freddo poco fa... ma, ecco. Così farai stare più tranquillo anche me.» Dopo un po', fermatosi a guardare Noah una volta chiusa la zip del cappotto, si rese conto delle sue stesse parole, scivolategli via dalle labbra senza che potesse registrarle davvero: era stato così attento prima, e ora si lasciava andare al suo umorismo oscuro? Scosse di nuovo la testa. «Non pensarci, eh? Fai come se non avessi detto nulla... o provaci.» Borbottò stringendosi nelle spalle, vagamente in imbarazzo e senza avere il coraggio di chiedergli se lo trovasse ancora gentile dopo. «E... facciamo che puoi tenerla, se proprio vuoi.» Cercò di farsi perdonare, riconsegnandogli la copertina per coprirgli le spalle. Aprì quindi la porta d'ingresso e, poco tempo dopo, i due si addentrarono nel bel mezzo del bosco.
    Camminarono per un po', allontanandosi a sufficienza da casa tanto da poter vedere le poche finestre illuminate dall'interno venir inghiottite dalle fronde. Joon alzò molte volte lo sguardo al cielo, ricordandosi di evitare di fare ulteriori figuracce, e fissò la Luna, così come osservò la sua pallida luce farsi strada fra le foglie. Erano proprio le cicatrici a cui stava pensando poco prima. Spostò gli occhi verso Noah, mentre una luce lattiginosa ne accarezzava i capelli nerissimi - e il suo respiro si fece stranamente più calmo. Solo dopo del tempo Noah arrestò il proprio passo e Joon, che gli camminava dietro, si fermò di conseguenza; stava per chiamarlo, in modo da poterlo interrogare, ma senza permettere alla preoccupazione di avere la meglio su di sé: Noah doveva aver posato lo sguardo su qualcosa che l'aveva colpito o, forse, proprio come piaceva fare a lui, si era voluto fermare, mentre tutto il resto continuava a scorrere, facendosi attraversare dagli odori e dalle sensazioni che solo il bosco riusciva a donare. Chinò di poco la testa, stringendo le labbra, fino a quando non venne richiamato all'attenzione dai primi contatti con il giovane. «Noah... ?» Sussurrò, per poi preferire il silenzio. In quel momento, avvertì come non solo lui e Noah stessero trattenendo il respiro, ma l'intera realtà che li circondava: i grilli avevano smesso di frinire, gli uccelli si erano arrestati e perfino il vento, fattosi muto, disorientò Joon al punto di portarlo a chiedersi quanto tempo fosse passato. Solo quando si ritrovarono l'uno nelle braccia dell'altro, allora Joon si rilassò. Chiuse gli occhi, contento di poter condividere un contatto fraterno e sincero con l'altro, permettendogli di farsi quanto più vicino desiderasse; i palmi arrivarono ad aprirsi contro la schiena di Noah e, mentre schiacciava il lato del viso contro la tempia del più giovane, tornò ad ascoltare ciò che lo circondava. Il corpo magro di Noah era caldo, umano, il suo respiro regolare e presente. Quelle poche sensazioni lo convinsero del fatto che, a prescindere dall'oscurità della notte, avrebbe sempre voluto guidare Noah verso di sé, attraversando le fratture del giovane con la propria cerea luce.

    To see a world in a grain of sand
    And a heaven in a wild flower,
    Hold infinity in the palm of your hand,
    And eternity in an hour.

    Fin

     
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