Only in the dark can you see the stars

Helen & Catelyn

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    Secondo te Archer, ho una famiglia che mi sta cercando? Che mi vuole bene? si era fatto quella domanda un sacco di volte nella sua mente, non avendo mai davvero una riposta. Quel giorno era la prima volta, che lo chiedeva davvero a qualcuno, che non fosse la sua testa. Archer sapeva della sua storia e di quello che aveva passato, lui era diventata la persona più importante per lei, in così poco tempo e di lui si poteva fidare, poteva far vedere le sue debolezze senza vergognarsi. Una delle sue paure era, che in realtà dietro a quella coltre di buio, che era diventata la sua mente, in realtà non ci fosse nessuno ad aspettarla, nessuno a piangerla o a cercarla, che era sola e senza una famiglia.
    In realtà essere sola non le era mai dispiaciuto, le piaceva il silenzio e il non avere troppa gente intorno a se, ma non sarebbe durata per sempre questa sua convinzione e lei stessa lo sapeva. Era nella grande cucina del B&B, dove da un anno viveva e stava cenando con Archer, il proprietario, non che il suo confidente. La giornata era passata velocemente e tra poche ore, sarebbe dovuta andare al lavoro, non aveva molta voglia quella sera, ma le toccava. I troppi pensieri e gli incubi non la lasciavano mai, aveva bisogno del tempo per pensare oppure per svagarsi.
    Non posso rispondere alla tua domanda Helen lo sai...però spero che sia così, perché te lo meriti disse lui, sempre così dolce con lei. A guardarlo poteva fare paura, un omone alto e grosso, con una lunga barba e calvo, ma nascondeva un grandissimo cuore, che solo Helen conosceva.
    Non rispose, ma gli sorrise a sua volta, mentre si alzava dallo sgabello e metteva a posto, i pochi piatti sul lavello.
    Devo andare al lavoro ora, ci vediamo domani e grazie come sempre disse mentre usciva e si dirigeva in camera sua, per prepararsi.
    Non smetterò di indagare, promesso...per te stava dicendo Archer, mentre la guardava salire le scale, ma lei era già troppo lontana, per poterlo sentire.

    Stava lavorando da parecchie ore, il lavoro era tranquillo e non si era accorta, che aveva quasi finito il turno.
    Parlare con Hobi e Leo due ragazzi, che l’avevano aiutata ad ambientarsi e a capire come funzionava il lavoro, era sempre piacevole, la facevano svagare e ridere.
    Buonasera, vorrei una birra grazie ,le aveva appena chiesto un ragazzo, riscuotendola dai suoi pensieri.
    Arriva subito! disse, mentre andava a preparargliela. Aveva i suoi guanti di pelle alle mani, per via della sua abilità non poteva rischiare di toccare nessuno o farsi toccare, non sarebbe stato piacevole per nessuno dei due.
    Bevi ancora? Lo sai che dopo andiamo in un discoclub, non puoi ubriacarti ora! di sfuggita aveva sentito parlare una ragazza, che si era messa vicino al ragazzo di poco prima, facendo la finta arrabbiata.
    Ma no, lo sai che reggo benissimo l’alcool disse lui, dandole un bacio veloce sulla fronte e prendendo il bicchiere, che Helen gli aveva appena appoggiato sul bancone.
    Dove si troverebbe questo discoclub? Ero di spalle e vi ho sentiti parlare chiese ai due ragazzi davanti a lei. Non che le piacessero molto quei posti affollati e caotici, ma magari ne avrebbe approfittato per distrarsi e sperava, che la musica potesse essere più alta dei suoi pensieri.
    Oh, si trova qui vicino, vai sempre dritto e poi giri a sinistra, vedrai una grande insegna al neon le risorse la ragazza gentilente, poi trascinò via il suo ragazzo, che stava borbottando qualcosa.
    Mentre stava finendo il suo turno di lavoro, pensava e ripensava al da farsi, doveva andare, oppure era meglio rintanarsi nella sua stanza?
    Quando finì il turno salutò i suoi colleghi e andò a cambiarsi, per fortuna si era portata dietro qualcosa di carino.
    Helen vai, smettila di stare sempre sola e evitare tutti, prova a divertirti...non può farti male si disse mentalmente, per convincersi.
    Si vestì velocemente e si guardò in un piccolo specchio dello sgabuzzino. Si era sciolta i capelli, che erano leggermente mossi, si era ritoccata il mascara e il rossetto color carne.
    Era pronta e non poteva tornare indietro, quella sera anche se ci sarebbe andata da sola, si sarebbe divertita.
    Uscì e cercò di ricordare il percorso, che le aveva detto poco prima la ragazza all’Egon. Camminò per cinque minuti e si ritrovò davanti a una insegna coloratissima al neon. La gente entrava a grandi gruppi e la musica si poteva sentire da fuori. Si mise in coda e dopo dieci minuti entrò, guardandosi il timbro nero sulla mano. Dentro l’aria era viziata e c’era odore di fumo e alcool, la gente parlava ad alta voce e la musica sovrastava tutto. C’era molto caos, la gente ballava scatenata in mezzo alla pista, alcuni si scambiavano effusioni nei divanetti. Camminò in mezzo alla folla, andando diretta verso il bar. Non sapeva ballare e avrebbe fatto una brutta figura, magari prima avrebbe bevuto qualche drink, poi una volta brilla, forse si sarebbe buttata in pista. Rimase in piedi aspettando il suo turno e ordinò da bere qualcosa di freddo, perché lì dentro si stava davvero morendo di caldo. Non era mai entrata in una discoteca o almeno non se lo ricordava, quella era la prima volta in un anno da quando era arrivata a Beside. Si appoggiò al bancone con la schiena e guardò le persone davanti a lei, assaporando il suo drink e ascoltando la musica troppo forte, che le entrava nelle orecchie, come un trapano, ma non era male. Era triste andare in una discoteca da soli, ma Helen non poteva fare diversamente, non aveva nessuno. In lontananza si stava formando una piccola rissa, due ragazzi ubriachi stavano litigando per una ragazza, patetici. Rise da sola guardando la scena, mentre si stava toccando la collana, che non si toglieva mai e si voltò, ma mentre lo fece si ritrovò davanti una ragazza. Per fortuna non le fece cadere il drink per terra o non glielo aveva buttato addosso, perché se no quella serata non sarebbe partita con il piede giusto. Quella collana per lei era molto importante, non sapeva da dove provenisse o chi gliel’avesse data, ma si era svegliata con quella al collo e doveva per forza avere una storia. Una storia, che lei avrebbe scoperto a tutti i costi.
    Stai più attenta la prossima volta, non esisti solo tu disse un po’ acida, ma era fatta così e non se ne pentì. Era una bella ragazza, capelli molto scuri e occhi color ghiaccio, potevano ipnotizzarti quasi, ma non se ne curò. Se ci era rimasta male peggio per lei, la gente doveva imparare a camminare e guadare dove andava.
     
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    «Secondo te puzzo ancora di kimchi?» fece Cat, avvicinandosi a Leo con i capelli ancora bagnati, tutta chiusa nel suo accappatoio azzurro. Ogni volta che passava più tempo in quell'enorme frigorifero deputato alla conservazione di verdure fermentate, vuoi per sistemarlo o vuoi semplicemente per trovare qualcosa in particolare, sentiva che nemmeno con tre passate di shampoo quell'odore andava via dalla sua pelle. Per fortuna, a dire del suo coinquilino, non aveva nessun odore che non fosse di fiori e pulito. «Se lo dici tu.» Anche se non si sentiva ancora sicura, quasi come se le avesse penetrato la pelle: in realtà, era più probabile che ormai il suo naso fosse così abituato da sentirlo anche dove non c'era. Amava quelle maledette verdure però e non riusciva a farne a meno: non se le portava a casa solo per non appestare anche l'appartamento ed il loro di frigorifero che, oltre al kimchi, doveva contenere anche molto altro.
    «Ah, il pane l'ho messo sul tavolo in cucina. E' integrale, non ho trovato quello bianco.» disse dal bagno, prendendo da un mobiletto la spazzola per darsi una sistemata ai capelli. Di solito non ci metteva molto a sistemarsi ma quando doveva uscire la cosa poteva andar per le lunghe: c'era il trucco, il parrucco, la scelta dei vestiti, delle scarpe, della borsa... E poi c'era la prova sul balcone, per vedere se effettivamente rischiava di prendersi una broncopolmonite o se poteva uscire vestita in quello stato. Per quanto vivesse in Norvegia ormai da un po', non era ancora del tutto abituata a quel clima così rigido, ma almeno era arrivata la primavera, non poteva che migliorare.
    Alla fine optò per un vestito poco sobrio, fatto in paillettes nere con le maniche a tre quarti, vi abbinò una borsa a tracolla piccina e dello stesso colore e scelse come scarpe delle decolté nere con un cinturino alla caviglia: inutile dire che non mise le calze - detestava quelle color carne, si chiedeva spesso perché fossero ancora in commercio - e preferì indossare un giacchino corto ma pesante, che le tenesse caldo durante il percorso. I capelli li aveva lasciati sciolti, mossi come suo solito, ed aveva abbinato degli accessori dorati: non si era truccata molto perché, banalmente, era in un bel periodo per la sua pelle ed aveva deciso di lasciarla respirare quanto più possibile, preferendo un trucco leggerissimo sugli occhi - giusto il necessario - ed un semplice burrocacao. Beh, ci aveva messo meno del previsto. «Io vado. Sicuro che non vuoi venire?» chiese a Leo, ferma sull'uscio della porta. Aveva finito di lavorare, per una volta poteva anche seguirla per qualche evento, anche perché lei stessa non andava mai da nessuna parte. Quella sera i suoi compagni di università avevano decisa di invitarla a questa serata che si teneva al Bolgen, una rinomata discoteca di Besaid che spesso era teatro di begli eventi. Cat, in quel periodo, stava seriamente pensando di mollare gli studi: non ne poteva più di destreggiarsi fra i libri e il lavoro, era un continuo far solo quello che doveva e non quello che voleva. Poteva andar bene prima, quando cercava uno "scopo", ma in quel periodo era felice, si sentiva bene, aveva davvero tutto ciò che desiderava, per quanto forse, per i più, avere degli amici, un lavoro e qualcuno che tiene a te fosse la normalità.
    «A più tardi allora.» e così dicendo uscì di casa diretta verso il Bolgen che, per fortuna, non era distante. Cat camminava bene sui tacchi, era molto elegante e quando li indossava non sembrava mai un tirannosauro in piena crisi: ci teneva ad esser bella, la sua vanità glielo imponeva. «Caaaaat, ma come, vieni a piedi? Sali!» La voce di Gunnar la richiamò: la chiamava dalla sua auto, una grossa jeep di seconda mano che, nonostante fosse enorme, ospitava più gente di quella che avrebbe potuto contenere. Cat sorrise e si fiondò in auto: «Stavo già cominciando a rimpiangere l'idea di non aver preso un taxi come una vera signora.» ironizzò, sedendosi dietro e salutando chi conosceva. Non ci misero che pochi minuti a raggiungere il Bolgen: quella sera era davvero gremito di gente, non ne vedeva tanta da quando frequentava ambienti ben meno raccomandabili, diversi anni prima. Solo due, per gli altri, cinque per lei. Con le ragazze lasciò le giacche al guardaroba e poi si gettò in pista: se fossero state più formose, stile Cardi B, forse avrebbero fatto un effetto migliore nel tentare di ballare quella canzone, ma non aveva importanza, si stavano divertendo... E non se lo aspettava a dirla tutta. Con un sorriso sul volto, Cat, all'ennesima canzone decise di andare a prendersi un drink: strano ma vero, era lì da qualche ora e non aveva ancora toccato alcool. Come cambiano le persone.
    «Ciao, mi fai un Long Island?» chiese al barista una volta che fu arrivato il suo turno. Celere, il ragazzo le fece il cocktail richiesto e glielo porse: ne fece un sorso e, dopo aver lasciato i soldi alla cassa, si voltò per tornare dalle sue compagne di università. Fu una fortuna aver bevuto quel sorso, se non l'avesse fatto se lo sarebbe ritrovato addosso visto che una ragazza si voltò e le finì addosso: Stai più attenta la prossima volta, non esisti solo tu. «Potrei dirti lo stesso.» rispose, ugualmente piccata, senza neanche guardarla in viso, con ancora gli occhi sul drink per sincerarsi che non se lo fosse versato addosso. Era pure acida. Sollevò lo sguardo verso di lei e, prima di arrivare al suo volto, si soffermò sulla collana che teneva fra le dita: le era familiare. Cat ricordava tutte le cose che le piacevano, aveva una sorta di memoria di ferro per dettagli inutili come quello. Ricordava di quel ciondolo sia chi lo indossava, sia quando l'aveva visto, sia dove. Sentì una sorta di morsa allo stomaco e, senza nemmeno volere, bloccò il tempo tutt'attorno a sé: d'improvviso, un profondo silenzio riempì il Bolgen. Cat sollevò una mano, toccò quel ciondolo, lo guardò bene. Era lo stesso, lo stesso dei suoi ricordi. Alzò poi il volto e vide che a portarlo era la stessa persona dei suoi ricordi: «He...len?» disse, ma non la udì. In quel frangente, il tempo tornò a scorrere, e Cat teneva ancora la mano sulla catenina. La ritrasse di scatto. «Helen? Sei tu?» Poteva essere lei? Perché era a Besaid? Aveva così tante domande e così poca voce per potergliele fare tutte. Era cresciuta, cambiata, si era fatta più donna decisamente: nei suoi ricordi era poco più che una ventenne, una delle poche persone che, quando era in America, rendeva le sue giornate senza Ellie, la sua migliore amica, meno piatte. Veniva spesso alla casa famiglia, le aveva spiegato che faceva da volontaria, quindi era lì per dare una mano e per giocare con i bambini, alle volte l'aiutava anche con i compiti. Cat fece un passo indietro: non era lì per riportarla dai Norton? No, non poteva farlo, ormai era maggiorenne. Fu un pensiero sciocco, che tuttavia per un attimo la fece vacillare. «Perché sei a Besaid?» chiese poi, più ferma, con gli occhi fissi nei suoi che, nonostante fossero gli stessi che ricordava, le parvero solo pieni di confusione, come se davvero non avesse idea di chi fosse. Dopotutto, nella realtà, non erano passati che sette o otto anni da quando si erano viste e Cat non era che bambina paffutella.
     
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    La notte, quando chiudeva gli occhi, sognava spesso di una bambina con gli occhi di ghiaccio. Assomigliava molto alla ragazza, che le si era parata davanti con poco garbo. Nel suo sogno ridevano e scherzavano, giocavano insieme e si ripromettevano, che si sarebbero riviste presto. Sembrava, che avessero una certa armonia e che si volessero bene, erano come il buio e la luce, una bionda e l’altra mora, ma insieme si completavano. Poi il sogno così bello e reale andò a formarsi in un incubo, lei che correva verso la bambina dai capelli scuri, ma non la raggiungeva mai, lei piangeva e le gridava di aiutarla, di starle vicino, ma lei non sarebbe mai arrivata, cadendo in un buco nero. Spesso si era risvegliata tutta sudata, gridando un nome, lo stesso tutte le volte, lei sapeva che lo aveva urlato, come se quella bambina l’avesse conosciuta davvero, ma quando provava a ricordarlo, il nome le spariva dalla mente come in un lampo, svanendo velocemente. Non si era mai fatta troppe domande, non lo aveva mai raccontato neanche ad Archer, avevano troppe cose a cui pensare del suo passato e un incubo non significava nulla. A volte aveva provato anche a disegnarla su tela, le era venuta anche molto bene, ma era rimasta lì, impilata tra le migliaia di tele vecchie, pronte a essere buttate presto, non avendo un vero significato per lei. Aveva esaminato con cura la collana, che portava sempre al collo, con Archer l’avevano guardata e avevano provato a fare delle ipotesi, ma tutte senza una vera pista. Alla fine era una semplice collana, avrebbe potuto comprarla prima di entrare a Besaid o qualcuno di caro, avergliela regalata, ma non per forza doveva avere una storia.
    Ora si trovava lì, con una ragazza che sembrava così uguale a quella bambina sperduta dei suoi sogni, ma che sicuramente era solo un’altra coincidenza.
    La ragazza le rispose in malo modo, come aveva fatto Helen poco prima e non c’era da stupirsi, in fin dei conti era stata scorbutica nei suoi confronti e se lo meritava. Helen stava scuotendo la testa ridendo da sola, quella sera non voleva trovare da dire e sicuramente non lo avrebbe fatto con una ragazza, che sembrava uscita da un film delle Barbie, voleva divertirsi e non pensare a nulla. Sembrava così perfettina nel suo vestito attillato di paillettes nero, con quello sguardo da ragazzina viziata, che tanto odiava sulle persone. Era più piccola di lei di qualche anno e su questo non c’era dubbio, non si aspettava da lei delle scuse e neanche le voleva, si erano scontrate per sbaglio e per Helen era finita lì, non le avrebbe di certo chiesto scusa per il suo modo poco gentile di poco prima, non sarebbe stato da lei. Helen stava per andarsene avendo già dimenticato l’accaduto poco importante, ma si ritrovò all’improvviso, la ragazzina troppo vicina a lei e con una mano, a toccare la sua preziosa collana.
    Che cazzo fai? Ti ho per caso dato il permesso? disse con la voce alta, per sovrastare la musica. Non era da lei rispondere in tono così rude, ma non si doveva permettere di toccarla o addirittura di toccare le sue cose, chi si credeva di essere? Nel toccarle la collana, le aveva per sbaglio sfiorato il guanto nero, che aveva nelle mani e che le copriva metà braccia per sicurezza. Helen trattenne il fiato, per paura che avrebbe potuto succedere qualcosa di brutto, ma per fortuna non accadde nulla, ma se non avesse avuto il guanto? Avrebbe potuto vedere i suoi ricordi e lei non ci teneva particolarmente. Entrambe di scatto fecero un passo indietro, per riprendere la dovuta distanza di sicurezza e Helen riprese visibilmente una boccata d’aria, anche se lì di aria pulita ce n’era ben
    poca.
    Helen? Sei tu? la ragazzina la guardò negli occhi cosa, che fino a quel momento non aveva fatto, troppo intenta a squadrarle la collana. Helen la guardò stranita, come conosceva il suo nome? Sapeva chi era? Non ricordava di averla già vista lì a Besaid e neanche di averci parlato o di averle detto come si chiamava, per caso sapeva leggere la mente? Non c’era da stupirsi, se così fosse stato, ma non le sembrava...si vedeva che la conosceva. Il mondo le sembrò fermarsi letteralmente, per un istante. Si appoggiò al bancone con la schiena e chiuse gli occhi qualche secondo, doveva pensare a una qualsiasi ragione. Non poteva conoscerla, si era ritrovata a Besaid proprio per riiniziare la sua vita e capire il suo passato, lei non faceva parte di esso, oppure sì?
    Come scusa? Ci conosciamo per caso? le chiese confusa, mentre la guardava negli occhi. Stava cercando di guardare ogni dettaglio della ragazza, per provare a ricordare qualcosa, magari aveva un particolare, che le era sfuggito, avrebbe potuto magari aiutarla e capire come mai la conosceva. Forse l’aveva servita all’Egon pub una sera, lei non se la ricordava e aveva appena fatto una figura di merda, con una cliente abituale magari. Qualcuno del posto le aveva detto come si chiamava e ora era lì davanti a lei e per caso si erano rincontrate, poteva essere andata così...doveva essere così. Non c’era altra spiegazione o almeno Helen, non voleva sentirne altre. Aveva paura in quel momento. Avere la mente vuota come un foglio bianco l’aveva sempre spaventata, il non ricordare nulla, amici, famigliari, ma la paura che stava sentendo ora, era nuova. Magari aveva dimenticato qualcuno di importante e quella ragazzina sfacciata davanti a lei poteva essere quella persona, poteva appartenere al suo passato tenebroso e non ricordarlo. Più la guardava e più si rendeva conto di sentire qualcosa dentro di lei, come se anche lei l’avesse già vista, che avesse provato dei grandi sentimenti per quella ragazzina, ma che non riuscivano ad emergere, imprigionati come la sua mente. Le sembrava familiare, soprattutto gli occhi, azzurro ghiaccio, che la stavano guardando, come avevano fatto nei sui sogni. Erano molto simili a quelli di Helen, entrambe avevano occhi chiari e penetranti, ma quelli della ragazza erano molto più ipnotici.
    Perché sei a Besaid? e mentre e stava formulando la domanda, la vide andare indietro di qualche passo, come se ad un tratto avesse avuto paura di lei. Helen dal canto suo rimase immobile al suo posto, in piedi vicino al bancone, a dare sguardi disprezzanti a chi la spingeva nel passare, come se esistessero solo loro. Per fortuna era abbastanza coperta, perché se no sarebbe morta di troppi ricordi, messi insieme nella sua mente e lei non sarebbe stata in grado di sopportarli. Le sembrava un po’ una domanda impertinente la sua, neanche si conoscevano e già le faceva domande private, come se lei le avesse dovuto dare delle risposte.
    Allora partiamo dal presupposto, che non mi conosci e non sai nulla di me. Mi sembra una domanda un po’ impertinente dato, che neanche conosco il tuo nome e tu conosci il mio! Non sono tenuta a darti spiegazioni... disse questa volta un po’ in collera con lei. Quella ragazzina davvero era viziata a tutti gli effetti, non la conosceva e già si credeva di poter pensare di conoscerla. Non significa, che se sai come mi chiamo, allora puoi prenderti la libertà di pensare di conoscermi. Potrei farti la stessa domanda poi non credi? le disse, bevendo poi una bella sorsata del suo drink. Il ghiaccio si stava già sciogliendo dato, che quella conversazione stava durando anche troppo.
    Facciamo una bella cosa! Tu mi dici chi sei e come fai a conoscermi e io se avrò voglia, ti dirò quello che vuoi sapere, così possiamo salutarci in pace e ognuno per la sua strada. Ci stai? le chiese, questa volta in modo pacato e calmo. Era un modo per togliersela di torno, quella serata che doveva prospettarsi in solitaria e tranquilla, si stava dimostrando una seccatura e forse avrebbe fatto meglio ad andarsene a casa, invece di andare in un posto per ragazzini. Non che lei avesse chissà quanti anni in più, ma nel modo in cui si stava comportando la ragazza e come vedeva gli altri ragazzi intorno a lei, poteva dedurre di avere una mentalità nettamente superiore a quella marmaglia.
     
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    No, non le aveva dato il permesso, ma Cat non gliel'aveva nemmeno chiesto. La sua mano si era mossa da sola, spinta da un ricordo che, per quanto distante, era rimasto lì al sicuro per tanto tempo. Era davvero lei? La ragazza dei suoi ricordi? Si sentiva confusa, percorsa da sentimenti contrastanti che non riusciva a definire bene, non tutti insieme.
    Paura. La paura che potesse essere lì non come amica ma come fautrice di sventura, come una arrivata a lei per portarla indietro. Era un pensiero sciocco, ormai, volenti o nolenti, i Norton non potevano esser più nulla per lei: era cresciuta, era un'altra. Altro cognome, altro volto, altra età. Quanti anni avrebbe dovuto avere se solo non avesse avuto quella particolarità? Ah, Dio, non ci voleva nemmeno pensare. Non voleva sapere quanto sarebbe stata impotente nei confronti di quella maledetta casa famiglia che, di famiglia, non aveva che il nome.
    Affetto. Sentiva nitidamente riaffiorare i piccoli momenti felici che aveva passato con Helen, quei piccoli giochi che si era inventata per compiacere una bambina che non aveva niente. Ricordava quanto la rendesse felice, quanto alle volte le guance le facessero male per il troppo ridere. Forse, quel sentimento, era pari alla tristezza che provava ogni volta che la vedeva andar via. «Domani ritorni?» le chiedeva, ogni volta, con la speranza negli occhi che, nonostante tutto, non vacillava mai.
    Felicità. Era lei. Doveva essere lei. Voleva riabbracciarla e dirle tutto quello che non le aveva detto in quegli anni, spiegarle com'era cresciuta, chiederle se la signora Fitzpatrick le avesse detto di lei, del fatto che fosse scomparsa. Così tanti pensieri, così poco tempo per parlarne.
    Quando si agitava, Cat sembrava più acida del previsto. Non era sua intenzione, non lo faceva volontariamente, eppure qualcosa si muoveva in lei e come forma di difesa la faceva porre nel modo peggiore che potesse esistere. Neanche per un attimo pensò che, forse, avrebbe potuto semplicemente spaventarla essendo così diretta. Si sentiva ancora, nel profondo, la stessa bimba felice di vedere la sua sorella maggiore, o qualunque altra cosa fosse per lei Helen al tempo.
    «Non mi sto prendendo nessuna libertà.» rispose, ferma. Certo, avrebbe di sicuro potuto essere più gentile, ma non stava mentendo, e voleva che lo sapesse. «Io ti conosco... Ti conoscevo anzi, quand'ero bambina.» Chinò appena lo sguardo nel pronunciare queste parole, come se si vergognasse di quanto aveva fatto. Che poteva farci? Era la sua particolarità, il suo dono! Non aveva avuto nessuno che la crescesse, che le insegnasse come usarla, che le stesse vicino e le facesse capire che rimanere da soli in quel modo, che ostinarsi a fuggire dalla realtà e da tutto ciò che la circondava non fosse proprio una buona idea, anzi. Facciamo una bella cosa! Tu mi dici chi sei e come fai a conoscermi e io se avrò voglia, ti dirò quello che vuoi sapere, così possiamo salutarci in pace e ognuno per la sua strada. Ci stai? Cat sollevò di nuovo gli occhi verso Helen: era lei, ma allo stesso tempo non era lei. Non le aveva mai visto delle espressioni così dure. Nonostante fosse calma, almeno all'apparenza, era... diversa. Possibile che, nonostante fosse cresciuta, non si ricordasse minimamente di lei?
    «Va bene.» disse soltanto, indicandole il bagno delle donne, poco distante da loro: almeno lì avrebbero potuto sentirsi senza urlare. Mosse qualche passo, destreggiandosi in mezzo alla gente che le stava fra i piedi. «Cat, vieni?» le fu urlato da una sua compagna di università che stava ballando allegramente sulle note di Despacito, poco distante. Quel pezzo proprio non diventava fuorimoda. Cat scosse la testa, accennò un sorriso e poi sollevò una mano come a dirle "fra poco arrivo". Chissà quanto sarebbe durato quel "poco".
    Aprì la porta del bagno dove vi trovò una ragazza dai capelli ricci ed un vestito particolarmente attillato che si stava risistemando il rossetto: Cat, ignorandola, entrò all'interno di una toilette, salì con i piedi sul water e aprì la finestrella che stava in alto, scendendo poco dopo. Prese dalla borsa una sigaretta, la accese, poi si voltò verso Helen, osservandola con attenzione, come a sincerarsi - per l'ennesima volta - che fosse davvero lei: «Davvero non sai chi sono?» le domandò, questa volta più gentilmente, nella speranza che avesse cambiato idea. Forse Besaid cancellava i ricordi anche a chi veniva da fuori? Ma no, non era possibile, lei li aveva conservati tutti. Forse un'amnesia dovuta a qualche incidente? Ma questo non spiegava perché fosse lì. Cristo. Non ne aveva la più pallida idea.
    «Mi chiamo Catelyn. Quand'ero piccola venivi alla mia casa famiglia a fare volontariato... poi sono cresciuta.» Inspirò profondamente dalla sigaretta che si era accesa, rilasciando una nuvoletta di fumo scuro che raggiunse rapidamente il soffitto di quel bagno. Sperò che non ci fosse alcun allarme anti-incendio, anche se, di solito, non c'erano mai. «Sai, la questione delle particolarità e tutto il resto.» tagliò corto, non volendo darle alcuna spiegazione in merito. Non era pronta ad aprirsi a tanto, era pur sempre il suo potere e quella ragazza, per quanto così familiare, per quanto così simile a Helen, ad ogni sguardo le sembrava sempre più distante. «All'epoca avevamo poco più di dieci anni di differenza, per quello che ricordo.» Erano di più, ma Catelyn aveva ormai cancellato buona parte dei ricordi legati a quel periodo di tempo: le sporcavano la felicità, erano quelli a renderla infelice, a darle quel senso di perenne angoscia che, tempo addietro, le aveva fatto desiderare di porre fine ad ogni cosa. «Adesso, posso sapere perché sei a Besaid?» le chiese, con gli occhi fissi nei suoi, con la netta sensazione che, anche a quella domanda, non avrebbe avuto una risposta soddisfacente. Dopotutto, non ce ne doveva essere una davvero valida.
     
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    Io ti conosco... Ti conoscevo anzi, quand'ero bambina quelle parole, la fecero smettere di sorseggiare tutta tranquilla il suo drink. La musica, le persone, l’ambiente intorno a lei non esistevano più, c’erano solo loro due ora in un bianco quasi accecante, c’era silenzio nella sua mente, per la prima volta dopo molto tempo. Se era davvero così e la ragazza non stava mentendo e l’aveva riconosciuta significava, che poteva dirle chi era veramente, magari darle qualche indizio sul suo passato cancellato, magari dove era nata sarebbe bastato, per far evolvere le sue ricerche. Però sembrava troppo bello per essere vero, come poteva una bambina riconoscerla ora, che erano passati anni? E se si sbagliasse con un’altra persona? Però l’aveva chiamata per nome e non poteva essere una coincidenza. Troppe domande e niente risposte, doveva capire.
    Mi conoscevi quando eri bambina? Io...non ricordo disse stringendo gli occhi come per sperare, che bastasse quel gesto per ricordare e tornò tutto come prima, il rumore e le persone intorno a loro.
    Poi la ragazza senza nome e dagli occhi color ghiaccio, le indicò il bagno delle donne poco distante, da dove si trovavano loro. Aveva capito la sua intenzione, dovevano parlare di cose importanti, era meglio farlo senza tutto quel rumore e rimanendo da sole. La seguii in silenzio, con ancora il suo drink in mano, che era arrivato a metà. La ragazza fece un segno a un’altra lontana da loro in mezzo alla pista che ballava, era accompagnata e aveva degli amici che la stavano aspettando, sicuramente non ci avrebbero messo poco però. Una volta entrare, la musica per fortuna era quasi un lontano ricordo si sentiva, ma quasi ovattata. C’era una ragazza riccia, che si stava sistemando il rossetto e se ne andò quasi subito dopo averle viste. La ragazza davanti a lei entrò nel bagno, salì sul water e aprì la piccola finestra in cima, per far passare aria e si accese una sigaretta. Helen prima di farlo a sua volta guardò in alto per vedere se c’erano allarmi anti fumo, ma non c’erano, in discoteca non c’erano mai. Se la accese anche lei e ispirò lentamente. Non fumava spesso, non le piaceva molto, ma aveva sempre un pacchetto nella borsa. Fumava quando era nervosa o per rilassarsi, quando era in buona compagnia o dopo una bevuta. Si appoggiò con la schiena al muro del bagno, mettendosi di fronte alla ragazza, che aveva fatto lo stesso. Lo spazio era piccolo, ma erano entrambe piccole e magre e ci stavano benissimo.
    Davvero non sai chi sono? Mi chiamo Catelyn. Quand'ero piccola venivi alla mia casa famiglia a fare volontariato...poi sono cresciuta. Sai, la questione delle particolarità e tutto il resto. All'epoca avevamo poco più di dieci anni di differenza, per quello che ricordo disse lei in modo ora gentile e tranquillo, spiegandole ogni cosa o almeno in parte. Helen dal canto suo, rimase in silenzio per un tempo, che sembrò infinito. Stava guardando negli occhi la ragazza di cui ora sapeva il nome, Catelyn e per un secondo ricordò i suoi incubi strani. Della bambina con gli occhi di ghiaccio e delle sue risate, ma anche dei suoi pianti e quel nome...era nella sua mente e nel suo cuore lo sapeva, ma non riusciva a capire, che cosa le unisse. La sua mente premeva di farle vedere qualcosa, di farla ricordare, ma più si sforzava e più il buio l’avvolgeva e la portava sempre più in basso. Era devastante guardare una persona negli occhi e sapere che c’era qualcosa, un sentimento, un’emozione, ma non poterlo ricordare. Era sicuramente altrettanto dura dall’altra parte, vedere una persona cara non ricordarsi di te.
    La tua casa famiglia dov’era? chiese prima di ogni cosa, come se quella domanda potesse risolvere il mistero. Però almeno, avrebbe saputo dove indagare.
    Dalla sua breve spiegazione Catelyn aveva il potere del tempo, non sapeva bene Helen come lo aveva usato e come funzionasse, ma ora non sembrava poi così tanto più piccola di lei. Non sapeva come poteva essere successo, ma sarebbe stata una cosa che le avrebbe raccontato, se avesse avuto intenzione di farlo. Non era una persona che curiosava sulla vita altrui, non le importava e non era una guardona, anche se per via del suo potere poteva sembrarlo.
    Forse potrei... pensò un istante solo e poi sospirò, continuando a fumare. Non poteva toccarla e vederle i ricordi. Avrebbe potuto vedere qualsiasi cosa e non quello che davvero le serviva e poi non ne aveva il permesso, non si sarebbe mai azzardata a farlo.
    Catelyn...disse poi, come per imprimerselo nella mente, avendo paura di poterlo dimenticare.
    Piacere di conoscerti disse solo allungandole la mano libera guantata, se dovevano parlare era meglio fare le dovute presentazioni. Il suo nome lo sapeva già, non c’era bisogno di ripeterlo.
    Adesso, posso sapere perché sei a Besaid? ecco di nuovo la stessa domanda di prima, però formulata in modo diverso e più gentile. Prima si era sentita quasi accusata, come se lei non doveva essere lì a Besaid, ma in fin dei conti lei poteva stare dove voleva.
    Non posso raccontarle la verità...è una sconosciuta non so neanche chi sia stava pensando mentalmente a come muoversi, che cosa avrebbe dovuto fare?
    Non mi ricordo di te è vero...ma come non mi ricordo di molto in realtà disse iniziando a parlare tranquillamente, ma non la stava guardando negli occhi e quando lo faceva significava, che era in difficoltà. Sono a Besaid da più di un anno circa. Mi sono svegliata in un bosco, poco distante dalla cittadina, sporca di sangue e infreddolita, l’unica cosa che ricordavo, era il mio nome. Abito in un B&B poco distante da qui e Archer il proprietario, mi ha accolta come una figlia. Fine della storia! disse aspramente, era la prima volta che lo raccontava di nuovo e farlo era sempre un grande dolore. Non era bello ammettere a qualcuno, che la tua mente era come un foglio bianco, avrebbero potuto mentirti e prendersi gioco di te, facendoti credere cose non vere e lei non voleva caderci.
    Tu perché sei a Besaid? Spero che il tuo arrivo, sia stato migliore del mio disse, guardando il fumo bianco salire in alto e piano uscire dalla finestrella. Si era creata una cappa di fumo, che sicuramente l’avrebbe impuzzolita, ma non le importava, si stava bene lì, c’era abbastanza silenzio e erano sole.
    Com’ero?...Intendo da bambina...ero gentile e aiutavo gli altri? chiese per sdrammatizzare, ma anche per volerne sapere di più. Sperava di essere stata una brava persona nel suo passato, una ragazza gentile e buona. Ora non era tanto diversa, ma qualcosa in lei era cambiato, senza ombra di dubbio. Era diventata più forte caratterialmente, diffidente con tutti e piena di rabbia. Rabbia, per chiunque le avesse fatto quello o qualunque cosa fosse stata. Rabbia, per essere così impotente davanti alla verità, che magari era davanti a lei e non riusciva a vederla.
     
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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: abuso sessuale. Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico. Le azioni descritte non sono ad ogni modo condonate e sono diretta responsabilità creativa di chi ha realizzato tali contenuti.


    «Chicago.» rispose Cat, fissando la finestrella che troneggiava sopra di loro. Non ripensava a quei momenti da mesi, forse anni. Ogni volta che la sua mente vi si affacciava sentiva gli occhi umettarsi appena, contornarsi di un'emozione che non spesso li ornava. Chissà il suo tutore come stava, se era ancora vivo, se era stato denunciato, se era tornato a Chicago insieme a tutti gli altri. L'avevano cercata? Si erano preoccupati per lei? E la loro casa? Era ancora uguale?
    Le ricordava nitidamente quelle pareti, quelle piccole crepe nella sua stanza: stavano sul soffitto anche. La signora Fitzpatrick le aveva detto che non si sarebbero mai fatte niente, che erano solo rovinate dall'usura. Dietro al suo armadio, Cat ed Ellie avevano fatto dei piccoli segni di anno in anno: tenevano conto della loro altezza, l'avevano visto fare in un film dai genitori. Loro non li avevano, quindi avevano pensato di fare da sole: non c'era nulla di male, giusto? Eppure, nei suoi ricordi, il signor Norton un giorno si era arrabbiato molto per quel gesto, Ellie era rimasta con lui un'ora, chiusa a chiave nella sua stanza. All'epoca, nemmeno ne capì il motivo.
    Che ingenua.
    Inspirò una boccata dalla sigaretta che teneva tra indice e medio, voltandosi poi verso Helen: e lei cosa sapeva di quei giorni? Aveva idea di cosa accadesse in quella casa famiglia? Famiglia. Che parola singolare. L'unica famiglia che Cat avesse mai conosciuto non era che una facciata composta da un pedofilo, la sua ignara moglie ed il suo staff. Era scappata, li aveva lasciati soli, tutti, in quell'inferno nel quale non avrebbe mai avuto il coraggio di tornare. Helen, nonostante i timori della fanciulla, tuttavia non stava mentendo: era sincera, glielo si leggeva in viso, chiaro come la luce del sole. Non ricordava davvero niente di quello che era il loro passato, la fetta comune almeno. Si chiese come fosse possibile, se avesse subito qualche incidente, se la sua fuga, in qualche modo, potesse aver creato problemi anche a lei: non poteva esser possibile, se lo disse da sola, mentre alzava la mano destra per stringere quella di lei. «Piacere di rivederti.» le disse, ironizzando appena per una situazione che, in effetti, aveva poco di ironico. La mano di Helen era fasciata da un guanto: in discoteca? Non era proprio il massimo. Forse era diventata una maniaca dell'igiene in sua assenza anche se, in effetti, una tipa del genere nemmeno ci avrebbe mai messo piede in una sottospecie di fognatura come poteva essere una discoteca.
    Non mi ricordo di te è vero...ma come non mi ricordo di molto in realtà. Forse l'ipotesi dell'incidente aveva una certa logica. Helen le raccontò quel poco che sapeva, chi aveva conosciuto, chi l'aveva salvata: «Direi che non ti è andata poi così male.» fece, con un mezzo sorriso, forse un po' amaro, un po' invidioso, anche se neanche lei avrebbe potuto ammetterlo, nemmeno a se stessa. Era sciocco provare invidia verso qualcuno che non aveva nient'altro che il presente, eppure, in un certo qual senso, era partita da zero: aveva conosciuto qualcuno che aveva deciso di amarla, di volerle bene, di starle accanto e accoglierla nella propria vita, di essere la sua famiglia. Lei non aveva mai provato nulla di simile.
    Tu perché sei a Besaid? Spero che il tuo arrivo, sia stato migliore del mio. Fu spontaneo mettersi a ridacchiare: per poco, il fumo non le andò di traverso. «Scusami.» le disse, sincera, ancora con quel sorriso fin troppo amaro sulle labbra, una risata quasi nervosa. Migliore? Si poteva definire migliore la vacanza fatta in un luogo che le aveva mostrato quanta merda potesse esserci in un solo essere umano? Quanto male potesse fare non solo ad una bambina, ormai morta, ma anche ad una che ancora non si era affacciata al mondo. Se solo chiudeva gli occhi, alle volte, risentiva le sudice mani del suo tutore sul pigiama, sentiva i polpastrelli ruvidi accarezzarle la pelle, scivolare là dove nessuno senza il proprio consenso sarebbe dovuto andare. Gettò la sigaretta nel water e, rapida, ne prese un'altra, accendendosela: era la prima volta che lo faceva, di solito non sentiva il bisogno di fumare in quel modo, eppure le mani le tremavano. Si stava agitando. Non doveva, doveva rimanere calma. «La casa famiglia ha deciso di fare una vacanza qui. Sono scappata, ho usato il mio potere ed eccomi qui.» disse, alzando entrambe la braccia ed indicandosi. «Probabilmente per loro sono ancora una ragazzina di... Boh, forse dodici anni, tredici magari. Non ricordo.» Aveva perso il conto di quanti anni fossero passati, di quanto avesse bloccato il tempo, rimanendo sola, in quell'oblio, scandito solo da qualche droga, da qualche chiacchiera, sporadica. Chissà come aveva fatto a sopravvivere. Alle volte, se lo chiedeva. «Ne ho ventiquattro. Fra qualche mese, venticinque.» puntualizzò, voltandosi verso Helen che, occhio e croce, doveva avere poco più di lei. «E tu?» Era diventata bella però: non che non lo fosse quand'era bambina, anzi, ma all'epoca forse la guardava con gli occhi di chi guarda un adulto, senza davvero rendersi conto di cosa fosse la bellezza. Ricordava di aver associato quel ciondolo, quello che aveva al collo, al colore dei loro occhi: forse era stata lei stessa a dirglielo, era troppo piccola per avere un ricordo tanto nitido.
    Com’ero?...Intendo da bambina...ero gentile e aiutavo gli altri? Cat rimase con lo sguardo basso, la sigaretta alle labbra, parzialmente socchiuse, e ci pensò per un momento, prima di sollevare gli occhi a guardarla: «In realtà da bambina non ti ho conosciuta. La mia particolarità è un casino.» Però non era quello il momento di darle spiegazioni a riguardo: era troppo presto, non se la sentiva, non ancora. «Avevi sulla ventina d'anni, di preciso non lo so.» Era solo "grande" per lei, all'epoca. «Passavi tanto tempo con me. All'inizio mi sembravi anche un po' invadente, non capivo perché ti ostinassi a voler fare amicizia giusto con me, che me ne stavo più per conto mio.» Quando Ellie era via, Cat non se la sentiva di giocare troppo, quasi come se potesse farle un torto a divertirsi mentre lei non poteva farlo: se ne stava in camera sua, in silenzio, al massimo giocherellando un po' da sola oppure, per la maggior parte del tempo, dormendo. Quando Helen veniva, però, era tutto diverso: non riusciva a dirle di no, si impegnava troppo per renderla felice. «Quel ciondolo che hai al collo.» le disse, indicandoglielo, senza toccarlo questa volta. «Ce l'avevi anche all'epoca. Dicesti che assomigliava al colore dei nostri occhi, oppure lo dissi io. Non lo ricordo con certezza, ma ce l'avevi.» Abbassò la mano, facendola scivolare lungo il suo fianco. Stretta in quel vestito pieno di paillettes si sentiva davvero poco la bambina di allora, quella che si accontentava di poco, che non amava circondarsi di bei vestiti, che non passava ore ed ore davanti allo specchio per farsi bella. Si passò una mano fra i capelli, poi gettò il mozzicone di sigaretta nel water e tirò lo sciacquone, facendo per uscire da lì, passando accanto ad Helen: «Comunque, io lavoro al Banchan, il ristorante coreano che sta in centro. Se ti serve qualcosa, mi trovi lì.» Le parlò di spalle, senza voltarsi, arrivando fino allo specchio, da cui poteva vederla attraverso il riflesso: prese dal dispenser per le salviette un pezzetto di carta, se lo passò attorno gli occhi, tamponando quella lieve lacrima che non aveva avuto il tempo di scivolarle lungo le guance. Doveva smetterla di pensare ai Norton, a Chicago, a tutto. «Tu invece, dove stai lavorando?» le chiese, protesa verso lo specchio per sistemarsi. Accartocciò il pezzetto, poi si voltò verso di lei, poggiata al lavandino: «Giusto per sapere dove trovarti se invece dovessi aver voglia io di parlare o che.» Anche se, forse, le sarebbe servito un po' di tempo ed una chiacchierata con un amico prima di poterlo fare.
     
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    Chicago. Quell’unica frase la fece rimanere in silenzio, per alcuni minuti buoni. Sapeva dove si trovava, anche se in geografia non era mai stata particolarmente brava. Quella rivelazione era molto importante per lei, perché era a un passo dalla verità. Ora che sapeva dove si erano incontrare, poteva dedurre che fosse nata e cresciuta in quel posto. Dopo più di un anno, aveva delle prove concrete sulla sua vita e sul suo passato, non poteva mollare ora. La sua famiglia quasi sicuramente, abitava ancora lì e forse la stavano cercando da parecchio tempo. La sua paura era quella di scoprire, che in realtà nessuno la stava cercando, che era sola e lo sarebbe rimasta. Non voleva credere a quelle cose, voleva pensare positivo e non vedere solo nero. Era frustante non ricordare, non avere la più pallida idea di chi si è realmente. Vagare per una cittadina, che non ti appartiene e far finta che vada tutto bene, anche quando in realtà il mondo lo vedi senza colori.
    Almeno, ora so da dove far partire le mie ricerche disse buttando la cicca di sigaretta, dopo quella di Catelyn nel water e buttando anche lei l’acqua. Si era creata una cappa di fumo, ma piano piano stava sparendo, per lasciare il posto a un piccolo venticello fresco, che in quel posto e in quel momento non faceva male. Si era sempre chiesta dove era nata e cresciuta, se aveva fratelli o sorelle e che rapporto avesse avuto con i suoi genitori. Archer era sempre stato madre e padre per lei, fin da quando aveva perso piede in quel B&B. Era un uomo buono, altruista e l’aveva aiutata senza chiedere nulla in cambio, chi lo avrebbe mai fatto? Aveva visto la luce, dove lei vedeva solo oscurità, l’aveva aiutata a padroneggiare il suo potere e cercare di vivere una vita normale. Le aveva confidato il suo “segreto”, cioè che non si ricordava nulla del suo passato e neanche di chi fosse lei. Era doloroso, Helen soffriva terribilmente, anche se non lo dava molto a vedere. Non ricordare qualcuno che nella tua vita era stato importante, era un trauma da ambe due le parti.
    Catelyn intanto si era accesa un’altra sigaretta dal nervoso, si vedeva che raccontarle il suo passato era troppo doloroso. La ascoltò il silenzio, senza interromperla.
    La casa famiglia ha deciso di fare una vacanza qui. Sono scappata, ho usato il mio potere ed eccomi qui. Probabilmente per loro sono ancora una ragazzina di...Boh, forse dodici anni, tredici magari. Non ricordo. Ne ho ventiquattro. Fra qualche mese venticinque. E tu? le chiese, mentre la guardava. Helen non giudicava, anche lei fumava qualche volta e soprattutto quando era nervosa, tendeva a fumare troppo.
    Quindi sei stata per molti anni in una specie di limbo? Cioè hai fermato il tempo e sei cresciuta, mentre noi ci eravamo “bloccati”? chiese stupendosi del suo potere. Ognuno aveva un potere diverso lì a Besaid, bello o brutto, buono o cattivo. Helen non aveva mai approvato il suo e non le piaceva, sapeva che doveva conviverci, ma non le piaceva la sua abilità. Non serviva a niente, vedere i ricordi di altre persone a che cosa le sarebbe mai servito nella vita? Almeno lei aveva potuto scappare per un po’ e stare sola, fermare il tempo per decidere il da farsi. Anche se essere soli e rimanerci per troppo tempo, non avrebbe aiutato e non sapeva come quella cosa, l’avesse cambiata o plasmata nel tempo.
    Io ho ventisette anni, ne ho pochi in più di te... le disse, cercando di imprimersi sempre di più il suo volto e cercare di ricordare qualcosa, ma senza successo.
    Avevi sulla ventina d'anni, di preciso non lo so. Passavi tanto tempo con me. All'inizio mi sembravi anche un po' invadente, non capivo perché ti ostinassi a voler fare amicizia giusto con me, che me ne stavo più per conto mio. Quel ciondolo che hai al collo. Ce l'avevi anche all'epoca. Dicesti che assomigliava al colore dei nostri occhi, oppure lo dissi io. Non lo ricordo con certezza, ma ce l'avevi le disse, mentre la sorpassava e andava a guardarsi davanti allo specchio del bagno. Si toccò i capelli e Helen uscì dal bagno, affiancandola davanti anche lei a un’altro specchio. Non si guardava molto spesso allo specchio, non le piaceva guardarsi per troppo tempo, ma quella sera lo fece. Si contemplò e si guardò la collana, che aveva al collo e se la toccò istintivamente. Era una parte di lei, non se la toglieva mai, non sapendo davvero il suo passato, ma era l’unica cosa, che aveva da quella notte, che le appartenesse davvero.
    Ce l’avevo quando mi sono svegliata...non l’ho mai tolta da allora e mi sono sempre chiesta che storia avesse. Non so perché mi ostinavo a voler fare amicizia con te, ma se ero la stessa persona di ora, sicuramente c’era un motivo preciso! le disse soppesando le sue stesse parole. Non era una persona, che si avvicinava a qualcuno a caso, senza una vera ragione. Sicuramente c’era una spiegazione e l’avrebbe scoperta.
    In effetti...abbiamo gli stessi occhi o così mi sembra, a meno che L’alcool non inizi a fare brutti scherzi le disse, contemplando i suoi e poi quelli della ragazza.
    Erano molto simili, entrambe avevano quasi la stessa forma e lo stesso colore anche se quelli di Catelyn erano più chiari.
    Lavorava al Banchan un ristorante coreano in centro e le chiese dove lavorasse lei, se nel caso avessero voluto vedersi per parlare o altro. Sapeva qual’era il ristorante, ma non ci era mai entrata a mangiare.
    Lavoro all’Egon pub in centro, non lavoriamo poi così distanti, ci beccheremo in giro sicuramente le disse, mentre si sistemava i capelli dietro le spalle, faceva davvero caldo là dentro.
    Sai... iniziò un po’ titubante, indecisa se parlare o meno.
    Sogno spesso una bambina con i tuoi stessi occhi...più che un sogno è un incubo. La bambina piange e mi grida di rimanere con lei, di non lasciarla sola e io cerco di raggiungerla, ma lei si allontana sempre di più e io non posso fare nulla per lei. Mi sveglio la notte urlando un nome, ma non me lo sono mai ricordata... disse sospirando.
    Ti assomigliava, per questo quando ti ho guardata, mi sei sembrata familiare le disse, per poi appoggiarsi al lavandino con le mani. Sorrise e scosse la testa poi. È tutto così assurdo ed era vero, tutto era estremamente complicato, sperava che quella conoscenza, l’avrebbe fatta avvicinare di più alla verità.

    Scusa il ritardo!! :fiore:
     
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    Adesso sapeva da dove far partire le sue ricerche: Catelyn non avrebbe saputo dire se quello fosse un bene o un male. Lei, al contrario, non aveva mai avuto alcun interesse nel ritrovare la sua famiglia, a sapere chi fosse davvero. Non le importava che fine avessero fatto, non si era mai chiesta perché l’avessero abbandonata e perché si trovasse a vivere l’incubo che era stata la sua infanzia. Viveva e basta, prendendo per buono ciò che aveva dalla vita, imparando a crescere dopo giorno, batosta dopo batosta e, nel corso di quei 24 anni, ne aveva prese tante, dritte in volto, altre meno dirette ma altrettanto dolorose. Certo, non era la stessa cosa, almeno conosceva il suo passato, Helen non poteva vantare la stessa cosa. Doveva esser strano parlarle e scoprire che, contro ogni aspettativa, Cat sapesse più di quanto Helen stessa sapesse di sé: doveva sentirsi presa in giro e, a rifletterci, si rese conto che non era poi tanto fortunata come aveva inizialmente pensato. La fortuna c’era stata nel trovare qualcuno che si prendesse cura di lei, che quasi la adottasse – che ironia terribile – ma il non conoscere la propria identità doveva logorarla dall’interno.
    Quindi sei stata per molti anni in una specie di limbo? le chiese, comprendendo perfettamente, senza neanche che glielo spiegasse, come il suo potere funzionasse. Si sentì quasi pizzicare il collo per il fastidio, ma si limitò ad annuire: dopotutto, le credeva, e sentiva in un certo senso di potersi fidare, anche se non le andava di andare nei dettagli su quali che fossero le limitazioni di quell’assurda particolarità.
    Nel momento in cui le rivelò l’età si rese conto di quanto davvero fosse folle: nel mondo reale dunque erano passati tutti quegli anni dal loro incontro?! Quante cose erano cambiate da allora. Catelyn guardò la ragazza per un momento, mentre stringeva fra le dita la sigaretta che si era accesa: ora che non era arrabbiata, aveva la stessa espressione di un tempo. Ricordava nitidamente il suo sorriso e, ancor di più, ricordava la sua voce. Aveva letto in un libro che la voce è la cosa che prima viene rimossa quando qualcuno scompare, eppure lei l’aveva fatta sua: ne ricordava ogni sfumatura, ogni piccolo innalzamento vocale, forse perché era una delle poche che aveva piacere di ascoltare.
    Dinanzi agli specchi, la ragazza le spiegò che il motivo per il quale si era avvicinata a lei doveva esser ben preciso, perché non era una che faceva le cose a caso, tanto per farle, ma doveva aver agito secondo un determinato criterio: che motivo poteva mai avere per fare amicizia con una bambina disgraziata come lei? «Spero tu lo scopra, saresti la prima ad averne avuto uno.» le rispose, tirando fuori dalla borsa il mascara per potersi sistemare il lieve trucco che si era fatta. Non aveva nulla, all’epoca, se non un passato di affidi andati male ancor prima di lasciare l’orfanotrofio. A nessuno piaceva una bambina che piagnucolava pur di vedere la propria amica del cuore. Eppure, raccontava sempre il suo tutore, normalmente si comportava come un angelo.
    In effetti...abbiamo gli stessi occhi o così mi sembra, a meno che L’alcool non inizi a fare brutti scherzi. Proprio mentre Helen parlava, Cat notò a sua volta alcuni piccoli dettagli che avevano in comune: le loro immagini erano lievemente deformate – quel maledetto specchio andava di sicuro cambiato – però qualche tratto c’era, il primo dei quali, come le aveva fatto notare, era costituito proprio dai loro occhi. Il destino comunque, non aveva finito di giocarle scherzi strani: a quanto pareva lei era la Helen di cui le avevano parlato Hobi e Leo, la loro collega dell’Egon che, folle sfortuna, non aveva mai incrociato durante le sue capatine al pub. Questa volta, rise davvero di gusto. «Lavori col mio coinquilino e con uno dei miei più cari amici, rispettivamente Leo e Hobi.» fece, dissipando così ogni dubbio che potesse essere lì in missione o chissà quale altra idea folle che le stava venendo in mente. Con quello che accadeva a Besaid nulla poteva essere escluso ma le sembrò davvero folle che potesse sul serio essere una spia: nessuno poteva più toccarla, se l’era detto tanto tempo prima, quand’era scappata. Altrettanto folle, tuttavia, le parvero le parole di Helen: rimase ferma, in attesa, ascoltando con attenzione ogni cosa. Non poteva certo essere lei, dopotutto che assurdo impatto poteva aver avuto nella sua vita. Era solo una delle tante bambine che una volontaria vedeva: mica era l’unica casa-famiglia in cui andava. «Gli occhi blu non sono poi così rari.» fece, minimizzando ma senza cattiveria. Le sembrava solo strano che addirittura, nonostante i ricordi, nonostante non sapesse nulla di sé, potesse avere a cuore una bambina vista qualche tempo fa dall’altra parte del mondo. A quella caratteristica, Helen aggiunse anche che Cat le assomigliava e che, ad una prima occhiata, le era sembrata familiare in virtù di quello stesso incubo: «Forse stai ricordando qualcosa del tuo passato.» ipotizzò, alzando appena le spalle. «Onestamente non so molto di chi fossi al di fuori di quella casa. Posso fornirti l’indirizzo dell’epoca se ti interessa.» Aveva parlato senza pensare. E se avesse detto qualcosa di lei? No, calma, Cat. Calma. Ricordati che sei maggiorenne. Sospirò. Quella ferita, bruciava ancora, nonostante fosse ormai grande per davvero. «E’ chiaro che tu non dovrai dire loro d’avermi vista se dovessero trovarsi ancora lì. Non voglio che nessuno di loro mi veda, mai più.» e così dicendo fece per chiudere il discorso. Non voleva parlarne, non era pronta, non con lei, non in quel maledetto bagno sporco. Su una cosa però aveva ragione: era tutto davvero assurdo. «Io devo ritornare dentro.» disse, indicando la porta con il pollice. «Altrimenti mi danno per morta.» Assurdo ma vero, per una volta poteva usare quell’espressione senza crederci davvero: se solo quei ragazzi l’avessero conosciuta qualche anno prima, forse, avrebbero davvero temuto le fosse accaduto qualcosa. «Sai dove trovarmi se ti serve qualcosa.» mormorò, di spalle. «E io so dove trovare te.» aggiunse, con un leggero sorriso che Helen poté vedere solo di sbieco. Poteva starne certa, di sicuro, prima o poi, sarebbe tornata: dopotutto, il proprio passato, per quanto brutto, per quanto traumatico, esercita un triste fascino per ognuno di noi. Cat sperava soltanto che, la volta successiva, sarebbe toccato a lei scoprire qualcosa in più sul perché, quella ragazza, avesse avuto tanto a cuore una bambina che nessuno pareva voler amare tanti anni prima.
     
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7 replies since 24/3/2020, 13:48   211 views
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