Every crime destroys more Edens than our own

Frida & Eden

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    Tamburellò con le dita contro la stoffa dei suoi pantaloni scuri mentre, nervosamente, sollevava e abbassava la punta del piede, facendo tremare la gamba a quei movimenti. La pazienza non era mai stata una dei suoi punti di forza. Tendeva spesso a farsi guidare dall’istinto, a non riflettere troppo prima di agire, ma in alcune occasioni, come quando si trovava a lavoro, nel suo vero lavoro, sapeva che quell’attesa per lei tanto odiata, che la cura dei dettagli, l’attenzione ad ogni più minuscola cosa era fondamentale. Quindi chiudeva gli occhi, inspirava profondamente e poi cercava di espellere insieme all’aria anche tutti i suoi pensieri e le sue preoccupazioni, nel tentativo di svuotarsi da qualunque cosa e poter svolgere al meglio il suo compito. Attirare le attenzioni di suo padre e ottenere i suoi favori era sempre stato il suo obiettivo, sin da bambina, e Frida non si sarebbe fermata fino a che non avesse ottenuto ciò che voleva. Era sempre stata testarda, un treno ad alta velocità che viaggiava privo di freni con il rischio di schiantarsi da un momento all’altro. Forse era per questo che detestava tanto i nuovi arrivati, i nuovi impiegati come talvolta li chiamava suo padre. Temeva che potessero brillare più di lei, oscurare la luce che aveva acceso con così tante fatica per cercare di ergersi sul palcoscenico della sua vita. Le retrovie le erano sempre state piuttosto strette e si era impegnata anima e corpo per avere una posizione di maggior rilievo, per dimostrare di avere un valore così elevato da renderla insostituibile. Non accettava di essere seconda, di non essere la migliore. E il lato più oscuro per lei della loro organizzazione era sempre stata quella parte di famiglia che si trovava a Oslo. Non aveva mai capito davvero come doveva considerare quelle persone. La famiglia era sempre stata tutto per loro, eppure quel concetto per Oskar non aveva mai avuto i limiti del legame di sangue. Famiglia era quella che ci si sceglieva, quella di cui ci si poteva fidare, e i parenti di Oslo non avevano mai risposto a quella definizione. Per lei poi, che non aveva mai potuto varcare i confini della città a causa della sua strana particolarità, quelle persone non erano altro che ombre da cui tenersi alla larga, qualcuno di cui non si sarebbe mai potuta fidare perché non poteva conoscerli e studiarli come avrebbe desiderato. E per questo motivo, le persone che arrivavano dalla capitale, quelli che venivano mandati dal resto della famiglia a lei non erano mai piaciuti. Aveva sempre il sospetto che avessero qualcosa da nascondere, che fossero lì soltanto per distruggerli, per far si che si riunissero davvero al resto del gruppo, senza più lavorare in autonomia. Il fatto poi che fosse suo fratello Nils a trattare con Oslo il più delle volte la rendeva ancora più sospettosa per via dell’astio che c’era sempre stato tra i due nella loro corsa verso la vetta.
    Non sopportava che qualcuno potesse scuotere l’equilibrio che era venuto a crearsi nel suo microcosmo, fatto di moltissime ombre e pochissima luce. Sapeva che accogliere nuove persone nella loro organizzazione era fondamentale se volevano sopravvivere, visto che le perdite purtroppo erano spesso all’ordine del giorno, ma il fatto che fosse necessario non doveva per forza comportare che a lei dovesse piacere. Non fidarsi mai di nessuno, guardarsi sempre le spalle, erano questi gli insegnamenti più importanti che Oskar le aveva dato e che lei portava sempre con sé, senza dimenticarli mai. Doveva stare attenta, doveva avere tutto quanto sotto controllo, se voleva davvero continuare a vivere in quel mondo, perché nessun passo falso era mai stato ammesso nella sua famiglia. Forse era per questo che tanto si era impuntata sul nuovo arrivato, sponsorizzato da Oslo e non riusciva a darsi pace sul suo conto. Sembrava capace, intelligente, molto reattivo, eppure lei continuava a guardarlo storto, sforzandosi di trovare in lui un difetto, qualcosa, qualunque cosa potesse darle il diritto di non farselo andare a genio. Forse la verità era che era soltanto spaventata che lui, così calmo e sempre pronto a rispondere agli ordini, potesse scavalcarla agli occhi di suo padre. Le capitava raramente di temere uno dei nuovi arrivati eppure il dubbio e la paura si era instaurati velocemente in lei dopo aver sentito alcuni racconti sul suo lavoro. Non capiva come facesse Pedro ad andare d’accordo con lui e si impuntava sul non fidarsi della sua parola e continuare a tenerlo nel suo mirino. Probabilmente era proprio per farla stare più tranquilla che Oskar le aveva chiesto di portare Eden con lei quella sera. Forse se lo avesse visto all’opera dal vivo, se avesse potuto testarlo di persona, si sarebbe acquietata un minimo e avrebbe smesso di tormentare suo padre con discorsi contro di lui. Neanche il vecchio si fidava, visto che lui non si fidava mai davvero di qualcuno, ma voleva capire se fosse solo un vezzo quello di sua figlia o se ci fosse qualcosa di più profondo, qualcosa a cui doveva davvero prestare attenzione.
    La macchina scura su cui viaggiava accostò nei pressi del retro della Tana del Bianconiglio, emettendo un leggero sibilo mentre i freni stridevano e la vettura si faceva più silenziosa. Gettò uno sguardo fuori dal finestrino dai vetri oscurati che aveva a pochi centimetri dal volto e i suoi occhi si ridussero a due fessure nel notare che l’uomo non era ancora all’esterno dell’edificio. Alzò gli occhi al cielo, scocciata da quella puntualità mancata che avrebbe potuto fargli guadagnare un punto o due. A nulla ovviamente valse il fatto che pochi istanti dopo la figura bionda dell’uomo uscì dal retro per poi entrare furtivo all’interno della vettura, lei lo aveva già catalogato come ritardatario, anche se si trattava solo di un minuto. -Sei in ritardo. - disse infatti soltanto, senza rivolgergli neanche un saluto, mentre il suo sguardo verde si spostava verso di lui, con un leggero movimento del capo ad accompagnarlo. Rimase a fissarlo, come un felino che osservava alla sua preda, in attesa del momento più corretto per colpire. Sperava che avesse una buona spiegazione per quei quarantasette secondi di ritardo. -Puoi andare. - disse poi, rivolgendosi all’autista, addolcendo appena il tono nei suoi confronti prima di riportare la sua attenzione sull’uomo che sedeva solo a un metro da lei. Non gli aveva detto quale sarebbe stata la meta del loro viaggio, non si fidava abbastanza di lui per dargli troppi dettagli prima del tempo. E se si fosse fatto beccare? Se fosse stato chiamato a venderli per aver salva la vita? No, meglio non rischiare. Il capannone ai margini della periferia dove si sarebbero recati distava soltanto venti minuti da dove si trovavano e quello era un tempo più che sufficiente per dargli qualche altra informazione in più. -Il signor Haugen ha raggiunto il termine ultimo per i suoi pagamenti. - spiegò, senza troppi giri di parole, per poi rivolgergli una lunga occhiata, aspettandosi che capisse da solo tutto ciò che stava dietro quelle brevi informazioni. Dopotutto sapeva che avrebbe dovuto portare con sé qualche arma, ne aveva discusso qualche giorno prima velocemente in una pausa dal lavoro all'interno del locale di suo padre. -Ci occuperemo della questione. - continuò ancora, curiosa di sapere quelle che potevano essere le sue idee in proposito, le sue proposte, prima che l’ora giungesse. Ovviamente lei sapeva quale era l’unico modo di portare a termine una cosa come quella, ma era curiosa di sapere come Oslo chiudesse i suoi affari, se avevano qualcosa di interessante da trasmetterle o se erano soltanto gli idioti che lei aveva sempre creduto.
     
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    Essere stanchi era qualcosa che non ci si poteva permettere nel suo lavoro, figurarsi in una vita come la sua. Eppure sentiva la stanchezza attaccata alle ossa rosicchiarle dall'interno, come alle prese con un'orda di dannati roditori. Non ricordava un giorno, negli ultimi sette anni, nel quale avesse dormito a lungo o semplicemente bene, un secondo per abbassare la guardia e rilassare i tendini. No, Eden era sempre sull'attenti, anche quando gli altri dormivano. Sopratutto quando gli altri dormivano. Se l'era sempre cavata in qualche modo, il corpo si abitua alle privazioni ma non smette mai di esigere, come l'uomo che sogna una vita migliore o il bambino che chiede ancora latte. È l'istinto di volere di più e di meglio dopo anni di rifiuti. Avrebbe voluto cedere, Eden, lasciarsi libero di riposare, libero di non pensare. Pur volendolo forse non avrebbe saputo come fare, ormai così invischiato in quel loop distruttivo da non ricordare altro. E allora andava avanti senza sosta, Eden, stoico nonostante nascondesse sotto il viso stanco, invecchiato, ma imperturbabile tutto lo stress di quella missione suicida. In effetti, da un pezzo si sentiva alla stregua di un kamikaze pronto ad esplodere. Certe notti, quando era steso sul materasso senza struttura, confondeva il cuore per il ticchettio di una bomba appesa al collo. Per questo aveva tagliato i ponti con tutti, per questo preferiva restare solo. Doveva esserci solo lui al momento dello scoppio, non avrebbe più permesso ad altri di pagare per i suoi errori.
    Chiuso nel bagno sul retro del Bianconiglio, l'alta figura di Eden era riversa sul lavandino e intenta a buttare acqua sul viso dalle mani raccolte a coppa. Dopo qualche secondo, il cervello diede l'ordine alle vertebre di comprimersi e lo specchio lanciò all'uomo un riflesso gocciolante, il viso tirato e le occhiaie profonde di una persona che dovrebbe fare check-in una casa per la cura del sonno. Doveva riprendersi. Fuggì la spietata visione chinandosi a raccogliere più acqua. La schizzò sulle guance e sulla fronte, per poi premere i pollici sulle palpebre chiuse e sentire gli occhi muoversi al di sotto come insetti in trappola. Impazziti. Era così anche per lui?
    Il freddo dell'acqua combinato alla pressione delle dita attenuò il mal di testa, e quando aprì gli occhi la luce sopra lo specchio non l'accecò come quando era entrato. Dei sottili capillari ancora infrangevano la sclera, macchiando il bianco col rosso, ma se non altro i muscoli sembravano rinvigoriti e la mente era tornata al solito candido silenzio. "Bene." Pensò mentre asciugava mani e viso con tovaglioli di carta e lasciava perdere l'altro sé nello specchio. Ora poteva tornare a pensare bene, e Dio solo sa quanto necessitasse di essere lucido nell'operazione che stava per compiere.
    Frida non era poi questa gran chiacchierona ma, pur non sapendo molto a riguardo, Eden le aveva girato intorno abbastanza a lungo da sapere che non poteva trattarsi di nulla di buono né, tantomeno, di facile. Con un ultimo sospiro aprì la porta e, una volta all'esterno, nessuno avrebbe mai detto che Eden avesse una sola preoccupazione sulla faccia della terra. "Dammit." Si era reso conto del tempo che passa solo dopo aver lanciato uno sguardo al polso, dove giaceva un orologio dall'aria vissuta. Quanto era stato rinchiuso lì dentro? Percorse a grandi falcate un corridoio largo e ben illuminato, uno di quelli aperti al pubblico, svoltando poi a sinistra per infilarsi in un altro ben più stretto e ombroso che portava sul retro. Fu da lì che uscì all'aperto socchiudendo appena gli occhi per schermarsi dal sole, notando la macchina nera che aspettava a qualche metro di distanza. Il capo era già arrivato.
    Continuò ad avanzare puntando dritto verso l'auto, uno sguardo a destra e a sinistra per assicurarsi che non ci fossero occhi indiscreti e poi aprì la portiera. Nel piegarsi per entrare avvertì il calcio dell'arma spingere contro il gomito da sotto la giacca, un secondo dopo Eden incrociò lo sguardo verde-azzurro di Frida. Salutò con un cenno del capo quella ventisettenne che, invece di sposarsi e mettere su famiglia, gestiva uno dei più proficui traffici dell'intera nazione. Non gli serviva chiedersi cosa le fosse capitato nella vita per finire con un destino così diverso dalla maggior parte delle sue coetanee. Aveva passato anni a leggere fascicoli, informazioni e a investigare su di lei, su tutti loro, ancor prima di mettere piede a Besaid. Il cuore gli imponeva di provare pietà, l'istinto invece di stare ancora più attento. -Sei in ritardo. - "Buona giornata a te! Il sole brilla nel cielo, si prospetta una mattinata ineguagliabile", Aveva voglia di risponderle sarcasticamente. "Non succederà più." Fu invece tutto quello che disse, il tono privo di qualsiasi inclinazione, concedendosi solo il piacere di non scusarsi o spiegarsi ulteriormente. Altri avrebbero cominciato a snocciolare ragioni, scuse, pretesti per il fantomatico tempo in più che la principessina Sandström aveva dovuto attendere, ma non Eden no, lui non avrebbe aggiunto altro.
    Non vi era la certezza su cosa accadesse in quella testolina così giovane ma, alla sola idea che la curiosità su cosa avesse fatto in quei 47 secondi la divorasse, Eden quasi accennò un mini sorriso. Quasi.
    Se avere gli occhi di Frida puntati contro lo disturbava, Eden non lo diede a vedere. Erano anni che si allenava a non mostrare il minimo segno di nervosismo, sopratutto quando aveva a che fare con la figlia del pezzo grosso criminale a cui dava la caccia. Un cenno, una parola, uno reazione, persino un sospiro più lungo del solito e la missione poteva andare in fumo al battito delle sue ciglia. Erano anni che il dipartimento rincorreva quei traffici finanziando operazioni su operazioni, raid su raid, entrati ben presto a irrorare le file dei cospicui tentativi falliti da parte della polizia, statistiche non proprio lusinghiere che i capi di Eden volevano a tutti i costi rovesciare. Quella su cui si trovava al momento era una delle ultime piste che i superiori erano intenzionati a seguire, ed era anche quanto di più vicini fossero mai stati dall'incastrare i Sandström, una volta e per tutte.
    Come previsto, non era niente di facile o piacevole ed era sicuro si trattasse di un test, una sorta di esame per metterlo non solo alla prova, ma per capire se ci si potesse davvero fidare di lui. L'unica figlia femmina di Sandström senior si era rivelata una bella spina nel fianco. Poco incline alle chiacchiere e ai sorrisi, Frida non donava la sua fiducia praticamente a nessuno. Fino a qui tutto okay, non si era aspettato niente di diverso anzi, per certi versi sembravano persino somigliarsi. Tuttavia, non si sforzava neanche di nascondere la differenza di comportamento che riservava a Eden, l'estraneo arrivato da Oslo per cui sembrava nutrire un'antipatia particolare. Aveva messo da conto anche quello, entrare nelle grazie di ognuno di loro era forse la parte più complicata di tutta l'operazione, ma doveva ammettere che con Frida si stava rivelando più difficile del previsto. Niente che non potesse risolvere, naturalmente, ma qualcosa di cui avrebbe volentieri fatto a meno. Non era stata quindi una sorpresa sapersi convocato per un lavoro, erano pari a zero le probabilità che quella fosse una piacevole gita fuori porto per conoscersi meglio. Quando la macchina si mosse Eden non potè far a meno di notare il tono leggermente più dolce riservato all'autista, una figura che per lui rimase nell'ombra e di cui poteva intravedere solamente la punta della testa e il riflesso nello specchietto di un paio di occhiali da sole, scuri tanto quanto i vetri dell'auto. Non doveva essere amico di Frida, ma averla dalla sua avrebbe reso le cose più semplici. Lo preoccupava l'idea di cosa avrebbe dovuto fare per ottenere quella tanto difficile fiducia. "Di quanto ritardo parliamo?" Chiese riferendosi ai pagamenti del signor Haugen, di cui quel giorno non avrebbe voluto vestire i panni neanche per tutto l'ora del mondo. Nonostante gli occhi puntassero fuori dal finestrino, Eden l'aveva ascoltata con attenzione. Era una di quelle persone che studiano anche quando sembrano non guardare. Di nuovo tornò a strisciargli in pancia la sensazione di essere nel mirino, un topo in laboratorio di cui si osserva la reazione a un test. Lui, Eden, l'avrebbe passato o avrebbe fallito?
    -Ci occuperemo della questione. - In quel momento distolse lo sguardo dalla strada sfrecciante per puntarlo di lato, su Frida. Quello che temeva stava per accadere. Ancora una volta riuscì a non mostrare alcuna emozione, lo sguardo era torbido e la mente in piena lavorazione. Sapeva cosa volesse dire occuparsi di qualcuno nel loro gergo, fra i bassifondi e gli angoli ricolmi di criminalità. Fino a quel momento gli erano stati assegnati scambi semplici a cui doveva presenziare piuttosto che agire. E ora quello? Era una prova per vedere come avrebbe reagito, per accertarsi che avesse la stoffa e ci si potesse fidare. Una parte di lui era raggiante, quella era la prima smossa rilevante dopo mesi di zero passi in avanti. L'altra parte però non riusciva a togliersi dalla testa la sensazione che la pistola al fianco quel giorno pesasse di più. Alzò la mano sinistra sfiorando la giacca con le lunghe dita per accentuare la forma dell'arma che portava addosso. "Con una Glock alla testa ti risolvo più questioni di Gandhi." Tornò a rilassare la mano ma lo sguardo invece rimase su di lei, come ad avvalorare l'intenzione delle sue parole. Era quella l'idea che Frida si era aspettata? Non poteva tergiversare, non poteva mostrarsi accondiscendente o debole. Reattivo, intelligente, obbediente ma anche spontaneo, forte, senza scrupoli, era quello il personaggio che Eden si era creato in quella vita, la seconda, e non poteva tradirlo. Non quando era così vicino all'obiettivo.
    Fingeva bene, Eden, e riuscì a nascondere il disgusto sotto lo strato di bugie ispessite dal tempo. Di certo sperava di non dover ricorrere davvero all'arma. Quando l'auto rallentò fino a fermarsi, Eden capì che la loro destinazione era il grande capannone sulla destra. Non c'era mai stato e non sapere cosa aspettarsi lo rendeva inquieto. Che fosse una trappola per lui? Frugò nella mente alla ricerca di qualcosa che potesse essere andata storta, un dettaglio che avrebbe potuto mandare all'aria la sua copertura. Non ne trovò. Attesero qualche secondo in auto, l'uomo che fissava il perimetro della tenda con sguardo indagatore. "Non mi interessa sapere chi è, ma sarebbe utile conoscere qualcosa a riguardo per far leva su di lui. Ha famiglia questo signor Haugen? Un lavoro, magari. Moglie, cane, gatto, bambini?" L'angolo del labbro si sollevò appena mettendo in mostra un canino. Dal di fuori il disgusto poteva essere associato allo schifo prova nei confronti di quello sconosciuto che aveva osato rubare loro, in realtà era causato dall'idea di dover anche solo minacciare un uomo con il suo bene più grande, la famiglia. A mascella contratta, Eden continuava a scrutare fuori dal finestrino in attesa di una risposta. Dopotutto, era un bravo soldato.

    Nel ritrovarsi dentro, il capannone non era poi diverso da quello che si era immaginato. Un grande spazio con ai lati armadi, panche e cassaforti piene zeppe, ne era sicuro, di armi e denaro. Qualche tavolo sbilenco e un paio di sedie convogliavano lo sguardo verso l'interno dove, al centro di tutto, c'era quello che doveva essere Mr. Haugen. Eden posò lo sguardo su di lui. Pur essendo grassoccio, l'uomo sembrava minuscolo in mezzo a un paio di tizi nerboruti e dalla faccia poco amichevole. Sarebbe stata davvero dura decretare il vincitore dei "ceffi meno raccomandabili" tra gli individui di quella stanza. Li studiò rapidamente, individuando armi, punti deboli e punti di forza, prima di tornare a rivolgere la propria attenzione al malcapitato. "Si accomodi." La voce profonda di Eden riverberò tra i tendaggi, e per un secondo pensò all'espressione spaventata con cui Mia l'aveva guardato l'ultima volta. Eden si mosse quasi in automatico, con le dita intorno allo schienale accostò una sedia all'ometto, spingendola contro il retro delle sue ginocchia per costringerlo, senza troppe cortesie, a sedersi. Tornato al fianco di Frida, Eden attese che il capo conducesse i giochi.
    Era prono a proteggerla da qualsiasi cosa e, anche, a fare qualsiasi cosa gli venisse chiesta.
     
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    Frida non si era mai chiesta come fosse avere una vita normale, avere degli amici, poterli portare a casa, presentargli i propri genitori, parlare di ciò che accadeva nella sua vita con tranquillità. Non era mai andata a studiare a casa di uno dei suoi compagni di scuola, forse era stata a qualche festa di compleanno, più per mantenere la facciata piuttosto che per reale interesse. A lei gli altri bambini non erano mai piaciuti molto. li guardava attenta, pronta a difendersi in caso di attacco. Avevano iniziato a guardarli in modo strano quando avevano visto che se uno dei gemelli sbatteva anche l’altro si faceva male e avevano iniziato a definirli strambi. Frida aveva sempre odiato quella parola e più di una volta era venuta alle mani con gli altri bambini, nel tentativo di fargliela ingoiare, sperando che rimanessero soffocati nel farlo. Era nata in una famiglia sbagliata, dove la dimostrazione dell’affetto avveniva soltanto affidando compiti sempre più importanti all’interno dell’organizzazione che Oskar chiamava famiglia. Più eri bravo e più ti mettevano in pericolo per capire quanto valevi, se si poteva davvero contare su di te. Forse in effetti quella ragazza dai lunghi capelli scuri non sapeva neppure che cosa fosse davvero una famiglia, la sua versione ne era una copia distorta, i cui contorni sfumati andavano a mischiarsi a qualcosa di molto più marcio e scuro che grondava sangue e potere da tutte le parti. Suo padre aveva cercato di insegnarle che la famiglia non era una questione di sangue, di DNA, ma era quella che ti copriva le spalle, soprattutto nei momenti peggiori. Erano le persone che avrebbero dato la vita per te e che ti avrebbero protetto sempre, anche quando non c’era più nulla da fare. Per lei invece l’unica vera famiglia era sempre stata suo fratello, l’altra metà che faceva battere il suo cuore e che la teneva aggrappata alla vita, al mondo. Perché se la sua esistenza non fosse stata legata con un filo incredibilmente sottile a quella di Anders probabilmente si sarebbe fatta ammazzare molto prima. Troppo impulsiva, vendicativa e irascibile, avrebbe senza dubbio finito con il combinare qualche guaio un po’ troppo grosso se non avesse dovuto preoccuparsi anche di un’altra vita oltre alla sua. Avrebbe fatto qualunque cosa per preservare quella di lui. Ed era così che aveva imparato ad essere più cauta, a pianificare, a non buttarsi nella mischia a meno che non fosse strettamente necessario, a preservare la sua esistenza.
    Mosse appena il capo di lato nell’osservare salire un altro uomo all’interno della sua auto, senza degnarlo neppure di una parola gentile. Non le piaceva fraternizzare all’interno dell’ambiente di famiglia non se non era certa di potersi fidare. Ci metteva anni ad abbassare le difese, a rivolgere un sorriso, un piccolo complimento e a volte questo non accadeva mai. Le persone di cui sapeva di potersi fidare davvero, all’interno dell’organizzazione, si potevano contare sulle dita di una mano, ma anche con loro se mai avesse scoperto che facevano il doppio gioco o che la loro lealtà non era assoluta, non avrebbe avuto alcuna pietà. Preservare la sua vita e quella di Jan, era questa l’unica cosa che la muoveva, spingendola ad essere sempre più selettiva, sempre più attenta. Il nemico stava nell’ombra, ti osservava pronto a colpirti quando eri più vulnerabile, Oskar glielo aveva insegnato bene. Suo padre era un uomo paranoico e incredibilmente calcolatore e crescere a stretto contatto con lui l’aveva in qualche modo fatta diventare una sua copia per certi aspetti. Lei e Nils si erano sempre combattuti il ruolo di figlio prediletto, cercando di mettersi in mostra, di essere impeccabili in ogni occasioni, ma quanto entrambi gli volessero bene davvero quello era tutto un altro paio di maniche. Come si faceva, dopotutto, ad amare davvero qualcuno che non ti aveva mai amato? Dal lato di suo fratello maggiore, tuttavia, non poteva sapere che cosa frullasse nella sua testa, visto che non avevano mai avuto un buon rapporto e non si erano mai conosciuti davvero. Per quanto ne sapeva era anche possibile che lui ci tenesse davvero, che si fosse sentito messo da parte quando i gemelli e poi la più piccola erano arrivati, come se loro gli avessero rubato qualcosa che era suo di diritto.
    Eden le rivolse un leggero cenno con il capo, una forma di saluto probabilmente a cui però lei non rispose, mettendo invece subito in chiaro le sue mancanze. -No, ne sono sicura. - gli disse, quando lui promise che non ci sarebbe più stato alcun ritardo da parte sua. Una velata minaccia, o forse una semplice constatazione, lo riteneva un uomo intelligente, che non faceva mai due volte lo stesso errore. Le sarebbe piaciuto essere più abile nel farsi degli amici, poter allentare la tensione, poter stare tranquilla, ma la verità era che non si sentiva mai davvero al sicuro. Temeva che, se avesse sottovalutato qualcosa, anche il più piccolo dei dettagli, il mondo che stava tentando faticosamente di tenere insieme sarebbe caduto in una marea di piccoli pezzi, impossibili da ricomporre. Continuava a trattenere il respiro per paura che un singolo movimento avrebbe potuto farla crollare. Non era una bella vita la sua, lo sapeva, ma era che l’unica che avesse. Rimasero in silenzio entrambi per un certo tempo, a misurare le distanze tra loro, studiandosi come se fossero stati due felini rinchiusi in una gabbia, senza alcuna possibilità di uscire. Non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce ma in effetti c’era una cosa di Eden che le piaceva: sapeva stare in silenzio, non aveva lo spiacevole desiderio di riempire ogni attimo con le parole, giusto per allentare la tensione. Altri invece non facevano che parlare e parlare, convinti che in quel modo si sarebbero resi un po’ più simpatici ai suoi occhi, se si fossero fatti conoscere chiacchierando di qualunque cosa. Aveva bisogno di quiete e di concentrazione quando doveva ragionare su ciò che stava facendo ed essere disturbata da chiacchiere senza capo né coda la faceva imbestialire. L’uomo seduto al suo fianco invece parlava sempre e soltanto quando era necessario, per fare domande pertinenti e rispondere a ciò che gli veniva chiesto, senza aggiungere nulla di più. Se solo non fosse venuto dritto dritto da Oslo forse le sarebbe persino piaciuto. Ma quando c’era di mezzo l’altro lato della famiglia, quello che non aveva mai avuto modo di conoscere davvero, non potendo uscire da quella cittadina per via della sua particolarità, Frida sembrava non voler proprio ascoltare. Detestava ciò che non poteva studiare con i propri occhi, ciò che non poteva comprendere.
    -Circa due anni. - rispose, alla sua domanda relativa alle tempistiche. Per l’esattezza erano 47 mesi e 12 giorni, ma non fu così precisa. A lei piaceva tenere il conto con estrema attenzione, ma si limitava a dare delle quantità arrotondate quando le veniva chiesto, era certa di essere l’unica a cui interessavano quei minuscoli dettagli. Le sembrava un tempo piuttosto ragionevole per poter pretendere i loro soldi, oppure qualcosa di più. Si mostrò tranquillo quando, tra le righe, gli fece intuire quale sarebbe stato il loro ruolo quella sera. Non notò neppure un minuscolo cambiamento sui lineamenti del suo visto, come se lui già se lo aspettasse e fosse preparato all’idea. Immaginava che persino lui sapesse che non avrebbe potuto limitarsi a piccoli scambi per sempre, non se intendeva davvero restare. L’accenno di un sorriso inarcò appena verso l’alto gli angoli delle sue labbra quando lui fece riferimento alla sua pistola, senza tuttavia dire neppure una parola di risposta. Di una cosa era certa: o lui avrebbe portato a termine il suo compito quella sera, oppure la pistola che aveva nel fianco sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe visto. In un modo o nell’altro si sarebbe dimostrata una serata produttiva. -Certo che ha un lavoro, altrimenti che senso avrebbe avuto prestargli dei soldi se non c’era alcuna possibilità che li restituisse? - gli domandò, con aria un po’ piccata, serrando appena le palpebre. Pensava forse che a loro interessasse soltanto eliminare le persone? Arricciò il naso per un momento, combattuta tra l’idea di andare avanti e quella di farlo riportare indietro e dire a suo padre che non le era piaciuto affatto. Serrò appena la presa della mano contro il lato dello sportello, prendendo un respiro leggermente più profondo prima di parlare di nuovo. Doveva mantenere la calma, dargli una possibilità. -Gestisce una piccola impresa che si occupa di sistemi di sicurezza. - spiegò, piuttosto velocemente, con un leggero sospiro. Era palese che non fosse affatto felice. -Non ha una famiglia. Vive da solo. Niente moglie, né figli, neppure compagne o compagni occasionali. Non ha sorelle, né fratelli e i suoi genitori sono morti qualche anno fa. - proseguì quindi, descrivendo il triste quadro della vita del signor Haugen. Una vita sprecata a rincorrere l’idea di fare carriera, di diventare un uomo famoso e potente, che gli aveva lasciato in mano invece soltanto un pugno di mosche. -Ha uno stupido gatto, Mr. Pickles, una bestiaccia orribile. - aggiunse ancora, senza neppure tentare di mascherare l’espressione schifata sul suo volto. Quella bestia spelacchiata non si poteva neppure definire gatto secondo lei, eppure quell’uomo lo adorava.
    Ancora qualche minuto e poi, finalmente, raggiunsero il capannone dove li attendeva il loro ospite. Scese dalla macchina senza neppure attendere che l’autista le aprisse la portiera, per poi percorrere con ampie falcate lo spazio che la separava dall’interno dell’edificio. Il fresco della sera le sferzò i capelli e il volto mentre premeva la mano sulla maniglia, lasciando che l’odore di chiuso e di polvere le invadesse le narici, proprio sulla soglie. Sorrise al pensiero che Agnes avrebbe sicuramente storto il naso davanti a simili odori. All’interno li attendevano già alcuni dei loro uomini, insieme alla figura tremolante e un po’ preoccupata di Mr. Haugen, che sembrava non sapere neppure dove guardare. Eden si mosse accanto a lei, superandola e andando a prendere una sedia, che offrì all’uomo, senza dargli la possibilità di rifiutare. Si voltò a guardare l’uomo più alto del gruppo, l’unico con cui avesse mai avuto a che fare prima, iniziando a stritolarsi le mani con aria preoccupata. -Io... io posso spiegare. - iniziò, sperando di ricevere un po’ di supporto, puntando il suo sguardo dritto verso di lei. Essendo l’unica donna del gruppo probabilmente infondeva un po’ meno timore, sperava che, almeno lei, avrebbe potuto comprenderlo. -Ho soltanto bisogno di un po’ più di tempo. Qualche giorno. - tentò, lottando per ottenere ancora qualche attimo di quella vita sprecata che lentamente si stava lasciando alle spalle. -Qualche giorno Ralph? - domandò lei, con una punta di divertita curiosità nella voce, mentre lo guardava dritto negli occhi, lasciandosi andare ad un sorriso che non prometteva nulla di buono. -E esattamente come pensi di trovare i dodici miliardi mancanti in qualche giorno? - domandò, seriamente curiosa di sentire quale scusa fosse pronto a inventarsi quella volta, come avrebbe tentato di guadagnare tempo. -E’.. è arrivato un grosso ordine la scorsa settimana, sto per concludere un affare. Io.. ve lo assicuro. - piagnucolò, la voce sempre più tremante, lo sguardo che si muoveva rapido tra le figure, alla ricerca di un punto di fuga, di uno spiraglio di qualunque tipo. Frida inclinò appena il capo, pronta ad aggiungere qualcosa, ma una fitta lancinante al braccio la bloccò, facendole irrigidire tutti i muscoli. Sentì qualcosa di caldo scorrere lungo il suo braccio, per poi osservare alcune gocce di sangue cadere sul pavimento.
    Serrò la mascella in un’espressione furibonda, mentre faceva un passo indietro. L’uomo di fronte a lei iniziò a strepitare e a urlare che non era stato lui, che non le aveva fatto nulla di male. -Sta zitto. - gli disse secca, il furore nello sguardo mentre gli puntava addosso i suoi occhi chiaro, zittendolo all’istante. -Occupatene tu. - disse, rivolgendosi a Eden per poi superarlo e raggiungere alcuni uomini alle sue spalle. Tirò su la manica, scoprendo un taglio lungo il braccio sinistro. Sapeva che cosa lo aveva provocato, ma non aveva idea di che cosa stesse succedendo. -Trovalo. - affermò, seria come forse non era mai stata, mentre guardava dritto negli occhi il più anziano del gruppo, le fiamme che ancora divampavano nel suo sguardo. -Fammi sapere dov’è e che cosa gli è successo. Subito. - terminò, con un tono che non ammetteva repliche, osservandolo uscire dal capannone prima di offrire il braccio ad un altro di loro affinchè le desse una mano a pulire la ferita e a medicarla. Si guardò indietro, per osservare che cosa Eden stesse facendo, cercando di concentrarsi su di lui e su quello che stavano facendo mentre un turbine di emozioni si agitava dentro di lei all’idea che suo fratello fosse in pericolo.
     
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    Da tutta la vita Eden faceva quello che gli si veniva chiesto, zittendo la parte umana di lui che lo voleva da qualche altra parte, magari col figlio, lontano da tutto quello. La verità è che Mardröm era un buon soldato o almeno si costringeva ad essere tale, riuscendo al 90% nell'impresa di zittirsi e, insieme a lui, mettere a tacere la bestia che covava dentro. Seguendo degli ordini Eden riusciva a calibrarsi, avere un obiettivo ben delineato lo aiutava a non cedere al buio e liberare la paura che, assopita da qualche parte nel suo cervello, si annidava stretta in spire strangolatrici. Era brutto quando prendeva il sopravvento, quando seguendola Eden reagiva d'impulso e le cose andavano a rotoli. Come col pregiudicato che aveva quasi ammazzato durante un interrogatorio, back in Santa Fè. Era stato a tanto così dal perforargli il cervello con le ossa del suo stesso naso.
    Era infatti sempre molto semplice credere che fosse finita, che Ruèn fosse solo un brutto pensiero lasciato al freddo nel frigorifero; era troppo facile lasciarsi andare alla felicità credendo che essa bastasse a...che bastasse, punto. C'era cascato in passato, Eden, e quell'errore di giudizio gli era costato la moglie e il figlio. Aveva allora capito che la felicità, l'amore e le cose belle in generale andavano centellinate come del cibo buonissimo ma che fa male, e aveva quindi giurato a se stesso di non cedervi mai più completamente. Anche se tardiva, la diagnosi era stata chiara e non lasciava dubbi: avrebbe combattuto contro la sua stessa mente per il resto dei suoi giorni. Le medicine aiutavano ma. da quando era arrivato in città, sentiva il respiro di Ruèn farsi leggero come chi sta sul punto di svegliarsi e tornare in superficie. Quello non era il momento giusto per rischiare neanche in minima parte, per questo l'uomo aveva richiesto a se stesso ancora più rigore e sempre meno distrazioni, propositi messi già a dura prova dal ritorno inaspettato di Beth e Timmy, presentati sui gradini di casa sua come riemersi dalla nebbia di un passato che Eden provava in tutti i modi a nascondere. Per il loro bene, non per il suo. E poi c'era Mia, un'incognita attraverso cui l'uomo sembrava non riuscire a non addentrarsi. Più tutto di quella faccenda gridava allo stop, più tutto di quella storia lo attraeva.
    Si era buttato sul lavoro per cercare il focus quasi perduto, per rincasellarsi al proprio posto e fare quel che doveva essere fatto. L'operazione in corso aveva bisogno di una svolta, Debbie aveva bisogno di informazioni utili da passare ai suoi superiori e l'uomo era determinato a fornirgliele, costasse quel che costasse. Ordine, comandi, obbedienza: non c'era e non doveva esserci nient'altro. Il problema girava intorno al fatto che avesse due entità che richiedevano da lui cose diverse, creando quella torbida confusione che un po' lo preoccupava. Da una parte Debbie e la polizia, in perenne lotta contro quel crimine che Eden stava aiutando a debellare; era quello il suo scopo e Boyd la sua vera identità. Più gli anni passavano però, più gli sembrava che Eden prendesse il sopravvento su Boyd, dimenticando a volte da che parte stesse davvero, un po' come Ruèn - e quindi la malattia- aveva preso possesso di lui in passato. E se quella confusione di identità, principi e morale non fosse altro che l'ennesimo stratagemma di Ruèn per controllarlo? Per ora era sempre stata buia, fredda e spaventosa, ma Eden sapeva che la malattia era capace di annidarsi anche nei posti più impensati, quelli illuminati, nascosta o camuffata ma in piena vista e alla luce del giorno.
    Non era quindi proprio sicuro che quella vita lo aiutasse poi davvero, ma per fortuna non gli lasciava molto tempo per pensare, sopratutto quando Frida era nei paraggi. Se con Anders stava attento, con lei Eden doveva raddoppiare la guardia.
    Per questo la tenne con discrezione sott'occhio anche senza risponderle, convinto che lei stesse facendo esattamente lo stesso. Aveva fatto un buon lavoro, Eden, guadagnandosi bene o male la fiducia dei più nell'organizzazione. E con lei? Ce ne era ancora di strada da fare ma, così sperava Eden, quel compito si sarebbe rivelato utile a tale scopo. Roger that. Fu con voce pacata che Eden rispose mentre, gli occhi chiari persi un secondo fuori, rifletteva sulle implicazioni che due anni di debiti comportavano per chiunque fosse il malcapitato, capendo ben presto che i suoi timori erano fondati. Se riuscì a non dar nulla a vedere dopo l'implicita notizia che molto probabilmente avrebbe dovuto uccidere qualcuno, non c'era nessuna chance che Eden reagisse al tono scocciato e ai capricci di una ragazzina, neppure di Frida. Fu infatti con zero emozione che Eden la guardò rispondergli piccata, neanche le avesse calpestato un piede o puntato una pistola alla faccia. Gli sarebbe tanto piaciuto farlo. Fu un pensiero improvviso e preoccupante che Eden scacciò strizzando gli occhi per un istante, la bocca storta di lato in un mezzo tic arrabbiato. Magari fra voi c'è di mezzo un brutto breakup e ora vuoi fargliela pagare. Avrebbe tanto voluto dire mai ingoiò il rospo, limitandosi a scrollare le spalle e aggiungere poco entusiasta "Era pour parler", prima che gli snocciolasse addosso la questione. Nell'apprendere che, gatta a parte, fosse un uomo completamente solo Eden si ritrovò a trarre un immaginario sospiro di sollievo. Era già difficile torturare e uccidere qualcuno, farlo sapendo di lasciare indietro un orfano e una vedova avrebbe reso quell'incubo solamente più profondo. Un vita di merda insomma. Commentò a discapito dei veri sentimenti che in quel momento provava, lontani anni luce dall'ironia e dall'insensibilità che stava invece ostentando alla ragazza. Nascondere era ormai come respirare, un gesto naturale.C'è qualcosa o qualcuno che non reputi orribile? Genuina curiosità. Gli uscì spontaneo dire sentendola riferirsi a Mr. Pickles. Comunque anche io sono più una dog person. Aggiunse distrattamente, magari se si fosse impegnato a essere più socievole si sarebbe sciolta un pochino anche lei. Quando scesero dall'auto, l'uomo accolse l'aria fredda comunque con sollievo, come se condividere per troppo tempo un posto ristretto con Frida gli fosse stato sconsigliato dal medico curante. Sistemata la giacca pesante sulle spalle, l'uomo seguì la figura minuta calpestare il terreno come una sparachiodi incazzata, chiedendosi per un breve secondo se non avesse dovuto procurargli pena, Frida, piuttosto che fastidio. Proprio come lui, infatti, la ragazza non aveva scelto il luogo in cui nascere e crescere, ed era difficile che Eden arrivasse a giudicare qualcuno. Tuttavia gli risultava difficile provare compassione per lei persino in quel momento in cui, di spalle e sola di fronte a un capannone in mezzo al nulla, con i lunghi capelli al vento sembrava uno stelo piccolo ma cocciuto.
    All'interno della struttura c'era aria di polvere, di chiuso e qualcosa che ricordava sudore, ma anche così Eden non diede segni visibili di disturbo. Mr. Haugen sembra un ometto insulso, di quelli pronti a tutto pur di fregare il sistema, ma non per questo meritava di morire. Dopo averlo costretto a sedersi, Eden si piazzò di lato con le braccia strette al petto e gli occhi fissi e attenti. Si espresse in un fischiò quando sentì la cifra effettiva che l'uomo le doveva. Come cazzo ci sei finito con dodici milioni in debito Mr. Haugen? Si chiese l'uomo a cui però non fu dato altro tempo per pensare. Retrocedendo il viso di Frida aveva infatti assunto un'espressione dolorante e furibonda, e Eden d'istinto compì un passo in direzione del poveraccio che giurava di non aver niente a che fare con quell'attacco. Alcune gocce scivolarono dal braccio della ragazza al suolo lasciando tutti interdetti, Eden aprì la bocca per chiederle qualcosa ma lei fu più veloce e gli intimò di pensare all'uomo sulla sedia, girandosi poi prima di venire attorniata dai suoi dipendenti. Assottigliando lo sguardo Eden la osservò sibilare loro qualcosa, capendo a stento che lei volesse trovare qualcuno. Ma chi? Di fronte a un bivio, Eden seguì l'istinto. Restare indietro e ascoltare gli avrebbe fornito un'informazione forse vitale per l'operazione, obbedirle sarebbe forse servito ad entrare finalmente nelle sue grazie e, magari, avrebbe persino potuto salvare quell'uomo. In un attimo gli fu addosso, la sinistra era volata dentro la giacca a stringere la pistola con cui sparò un colpo preciso alla gamba dell'uomo che si mise a urlare come un forsennato, ripiegandosi su se stesso. Chino su di lui, Eden dava le spalle a Frida coprendo la figura dell'ometto quasi completamente. 'Sta fermo, se ti agiti è peggio. Ora ascoltami bene Ralph: lo vedi tutto questo sangue? È la tua arteria femorale che ti sta portando al creatore. Se smetto di fare pressione morirai nel giro di qualche minuto, ma se ti aiuto e a lei piace la tua risposta forse vedrai la prossima alba. Mi capisci? Ora ti faccio una domanda e voglio che tu mi risponda con le testa, nient'altro. Ce li hai un quarto dei soldi ora? Qualsiasi cosa di valore? Niente? Stava rischiando grossissimo ma, tra le urla e gli altri ceffi concentrati sul braccio di Frida, Eden parlò a bassa voce e velocemente senza che ci fosse possibilità che fosse sentito. Sperava di riuscire a temporeggiare e dare a quel poveraccio qualche giorno per salvarsi la pelle. La mente del biondino correva a centoventi chilometri orari mentre, la canna della pistola ancora premuta sul foro d'entrata per bloccare l'emorragia, si staccava dall'orecchio dell'uomo e dai capelli gli tirava indietro la testa per guardarlo in faccia. Da dietro sembrava lo stesse in qualche modo torturando, e che si stesse divertendo a farlo. L'idea era riuscire in qualche modo a risparmiarlo quel giorno per poi portarlo dalla loro parte, dalla polizia, con la promessa di inserirlo nel programma protezioni testimoni se avesse fornito loro qualche informazione. A Debbie non sarebbe piaciuta l'idea, né tantomeno ai suoi superiori, ma cosa poteva fare? Per un momento ebbe chiaro nella mente chi fosse e quale fosse il suo ruolo, sentendo la sua vecchia "identità" per una volta lucidissima. Era suo dovere provare a salvare una vita. Piangeva copiosamente, Ralph, muco e lacrime si mischiavano e univano sulla sporgenza del labbro come in una minuscola piscina, traballante mentre scuoteva pianissimo la testa. Eden schioccò la lingua. Dannazione. Ehi tu, che aspetti? Fallo. Uno degli uomini era uscito seguendo gli ordini di Frida, quindi doveva essere stato l'altro a parlare, pensò Eden chiudendo gli occhi per un istante mentre inspirava profondamente ma senza far rumore. Mi dispiace. Pensò riaprendoli nell'istante esatto in cui il corpo riprendeva a muoversi per tornare eretto. Cercò di pensarlo forte, come per provare a raggiungere quello sconosciuto che stava per morire per mano sua. Lasciò la ferita che riprese a sanguinare copiosamente ma non si allontanò da Ralph: da vicino sarebbe stato più emotivamente difficile per Eden farlo, ma così avrebbe evitato che troppo sangue esplodesse tutt'intorno. Gli sembrava in qualche modo di dovergli quell'inutile stronzata.
    Se prima il vero Eden era più chiaro di quanto non fosse mai stato negli ultimi sette anni, in quel momento le tenebre erano tornate a serpeggiare dagli angoli, li avevano riempiti e avanzavano verso e dentro di lui oscurando tutto il resto, per confondere lui e i suoi ideali di nuovo con il buio. Il suo inconscio -e malattia - stavano cercando di proteggerlo da qualcosa che altrimenti non sarebbe riuscito a fare, figurarsi sopportare. Eden non vedeva al buio ma Ruèn si. Dopo avrebbe fatto i conti con le conseguenze di quello che stava per fare, una volta nel silenzio della sua casa; ora non c'era spazio per niente. Con la canna premuta al centro della sua fronte, il colpo che Eden sparò fece crollare la testa di Mr. Haugen sul suo petto. Fu una sentenza silenziosa, un po' per via del silenziatore, un po' perché insieme alla luce erano spariti anche i rumori. Quando Eden abbassò l'arma, la mano che la sistemò al suo posto tremò con leggerezza, quello l'unico segno visibile dello stress psicologico a cui si stava impedendo di cedere. Guardò con occhi freddi quel corpo, accorgendosi solo ora del reale silenzio che era calato nel tendone ora che le urla erano cessate. Inspira, espira, inspira, espira. Ritrovata l'abilità motoria Eden si girò, avanzando di qualche passo verso Frida per voltare le spalle a Mr. Haugen, una leggera sensazione di nausea alla bocca dello stomaco. Stai bene? chiese riuscendo a mantenere un tono neutro, preferendo concentrarsi sul braccio di lei piuttosto che su altro. Anche se le tenebre facevano paura, in quel momento erano l'unica cosa a proteggerlo da sé stesso e dai sensi di colpa, non poteva cedere. Che è successo? Non sembrava stesse mentendo...Ralph. Accennò al braccio di Frida, riferendosi alla promessa di Mr. Haugen di non essere stato lui ad attaccarla. pronunciare quel nome costò a Eden enormemente. Si trattenne dal puntualizzare non sono stato neanche io, puntare il discorso su di lui non era una cosa che avrebbe sopportato in quel momento. Sperò che le tenebre continuassero a invadere tutto, distinguendo però tra esse alcune che non sembravano provenire da lui. Stava provando paura anche lei, in quel momento? Eden cercò di concentrarsi su quello, distinguendo nel buio un nero diverso dal suo, quello di Frida. E allora in quel momento si ritrovò a provare una parte di quel terrore, che sapeva di preoccupazione e timore. Non per se stessa, per qualcun altro. Aggrottò lievemente le sopracciglia interessato, e tre piccole rughe gli incresparono la fronte. Si sentiva sempre in colpa nello scoprirsi addosso un'angoscia non sua. Persino in quel momento, persino con Frida, Eden si sentiva in torto. Distolse lo sguardo dagli occhi incandescenti di lei per abbassarli momentaneamente sul braccio come a proteggersi, come se la ragazza potesse percepire anche il suo passato e le sue paure. Chi stai cercando di localizzare? Le chiese allora, tornando a sollevare il mento per affrontarla. Voleva aiutarla, nonostante tutto.
    Bisogna non voltarsi indietro per nessuna ragione, non prolungare i cattivi sogni col raccontarli.
     
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    Frida era sempre stata brava a seguire gli ordini di Oskar: tenere gli occhi aperti, occuparsi delle questioni spinose, dare l’esempio a chi lavorava per loro. Sapeva come reprimere i sentimenti, come tenersi distante dalle persone e studiarle per cercare di coglierne i lati grigi, le debolezze, per poter poi sfruttare quei dettagli a suo vantaggio. Quello in cui non era mai stata brava, invece, era mettere Anders al secondo posto, concentrarsi su una missione o su qualunque cosa stesse facendo, se in lui c’era qualcosa che non andava. Erano sempre stati un’unica cosa, sin da quando, appena nati, avevano emesso insieme il loro primo respiro, come se la vita di uno non potesse iniziare senza quella dell’altro. Una vita unica regolata da due differenti battiti cardiaci che, regolarmente, tornavano a sintonizzarsi sullo stesso ritmo. Era semplice fingere che quel legame non esistesse quando tutto andava bene, quando le emozioni di suo fratello restavano sopite dentro di lui, troppo lievi per raggiungerla; ben diverso era invece farlo quando dentro la sua stessa mente lei riusciva solo a sentire la paura di lui, l’urgenza di fuggire, di mettersi in salvo. Per questo storceva sempre il naso quando suo padre le comunicava che sarebbero stati in due posti diversi, nello stesso momento. Non diceva mai nulla però, sapeva che non era consentito opporsi, doveva soltanto annuire e mandare giù il rospo, così come era sempre stato, così come sarebbe sempre stato, a meno che... Aveva iniziato a sviluppare il desiderio di strappare quelle catene che l’avevano sempre tenuta ancorata a Oskar, desiderare una vita diversa, dove avrebbe potuto scegliere. Ma quello non era il momento né il luogo per pensare a determinate cose. Avrebbe fatto meglio a tenere d’occhio l’uomo che aveva davanti, che suo padre le aveva chiesto di controllare. Sapeva che lei, tra tutti, sarebbe stata quella più restia a fidarsi di lui, perché Frida non voleva mai fidarsi di nessuno, non davvero. Solo in pochi erano riusciti a sciogliere parte della corazza di ghiaccio di cui si era circondata negli anni, per non mostrare la paura che si agitava anche dentro di lei. Era un’emozione umana, per quanto lei cercasse di opporsi e di tenerla ben lontana da sé. Aveva bisogno di rimanere concentrata, di pensare razionalmente, di essere pronta a reagire davanti a qualunque problema, non poteva permettersi passi falsi, o suo fratello Nils le avrebbe soffiato il posto, questo era poco ma sicuro. Fortuna che Victoria di quelle faccende familiari non si era mai preoccupata, aveva sempre cercato di tenersene alla larga, troppo buona per poter sopportare le atrocità che invece lei aveva imparato a mandare giù sin da bambina. Certe volte era invidiosa di lei, della luce che sembrava emanare, della dolcezza con cui osservava il mondo dalla sua posizione privilegiata. Chissà come sarebbe stata la sua vita se da piccola anche lei avesse cercato di tenersi distante da Oskar, di costruirsi un proprio piccolo angolo di mondo, lontana da tutto il resto. Non avrebbe potuto scoprirlo, dopotutto indietro lei non sapeva tornare.
    Osservò di sottecchi Eden mentre gli dava qualche dettaglio in più sull’uomo che avrebbero dovuto incontrare di lì a pochi minuti e per quale motivo ci sarebbe stato bisogno del loro intervento. Lei tendeva a cercare di conoscerli il meno possibile: non si poteva provare pietà per qualcuno che non si conosceva, dopotutto, molto più difficile era se si iniziava a stringere un legame, ma lei se ne guardava bene. -Si, qualcuno c’è. - rispose soltanto, quando Eden le chiese se ci fosse qualcuno di cui avesse un’opinione un po’ più felice. Se le avesse chiesto di fare dei nomi probabilmente il primo a cui avrebbe pensato sarebbe stato Anders, visto che suo fratello aveva sempre avuto un posto prioritario nel suo cuore, poi c’erano Agnes e Pedro e pochi altri amici che non aveva la fortuna di vedere troppo spesso. Non si lasciò andare a quelle rivelazioni però, era certa che Eden già conoscesse almeno alcuni di quei nomi e che la sua fosse stata una battuta, più che una vera domanda. Dopotutto loro due non avevano mai neppure provato a stringere un rapporto, visto che lei gli aveva sempre dato le spalle in tal senso. Fu però quella sua affermazione sull’essere più una dog person a colpirla, visto che in effetti non si era mai posta certe domande su di lui. -Ah si? - domandò quindi, la voce più tranquilla ora, quasi più calda mentre gli poneva la prima vera domanda normale della loro collaborazione. Pensandoci bene in effetti non riusciva ad immaginarlo con un animale a quattro zampe accanto a lui, non avrebbe saputo dire che animale gli avrebbe attribuito, se qualcuno glielo avesse chiesto. -I cani mi piacciono ad esempio, è da qualche anno che ne ho uno. - aggiunse poi, poco prima che l’auto si accostasse vicino al capannone per farli scendere. Chissà, magari se avessero avuto qualche altro minuto a disposizione gli avrebbe persino mostrato una foto di Astor, o forse no, nessuno avrebbe potuto dirlo con certezza.
    All’interno del capannone il signor Haugen tremava, non soltanto per il freddo, ma anche per la paura. Sapeva ormai che non gli restava più molto tempo, doveva giocarsi le carte migliori che aveva se sperava di sopravvivere e, da quanto aveva visto Frida, non era mai stato dotato di buone carte. Gli avrebbe però dato una possibilità di tentarci, una sola, prima di decidere che cosa farne di lui. Avevano iniziato una interessante conversazione sui metodi in cui avrebbe potuto reperire la somma che gli doveva, ma un dolore lancinante al braccio la fece fermare, mentre alcune gocce di sangue colavano dal suo braccio, imbrattando il pavimento, che già non veniva lavato da tempo. Avrebbero dovuto ripulirlo, al meglio, non voleva lasciare tracce del suo passaggio lì. Era molto probabile però che ci sarebbe anche stato ben altro da ripulire se Ralph non avesse trovato qualcosa da dire, qualcosa di davvero brillante visto che ormai la sua mente aveva iniziato a viaggiare altrove, preoccupata. Se prima aveva creduto di avere un certo tempo per mettere alla prova Eden e terminare quella faccenda, quel taglio improvviso sul braccio le aveva messo addosso una certa urgenza. Si voltò, mentre Ralph iniziava a urlare qualcosa per cercare di discolparsi da quanto era appena accaduto, facendola soltanto irritare di più. Sapeva che non era colpa sua, altrimenti non avrebbe avuto neppure l’occasione di aggiungere un’altra parola. Vide Eden muovere un passo verso di lei, probabilmente sorpreso da quel cambio repentino, o forse preoccupato dall’idea di aver commesso qualche errore, visto che Oskar l’aveva inserito nel gruppo delle sue personali guardie del corpo. Non gli diede il tempo di dire nulla però, intimandogli di pensare a Ralph mentre lei lo superava per raggiungere qualcuno alle sue spalle. Avrebbe dovuto osservare le mosse di Eden con attenzione, ma la verità era che non le importava più nulla dell’uomo su quella sedia, non se suo fratello era in pericolo, chissà dove, chissà con chi. Si sforzò di guardare verso Eden mentre uno dei suoi iniziava a medicarle il braccio e un altro usciva dal capannone, in cerca di informazioni. Sentì uno sparo e delle urla, ma quello che riusciva a percepire davvero erano soltanto dolore, paura, agitazione, voglia di correre lontano da quel posto, diretta chissà dove. Sapeva che quelle emozioni non erano del tutto sue e cercò quindi di respingerle, di infondere un briciolo di calma nella testa di Anders, ma le emozioni forti avevano sempre avuto il sopravvento sulle altre, non erano mai riusciti a comandare quel flusso che scorreva dall’uno all’altro. Guardava Eden, ma non lo stava vedendo davvero. Fu infatti l’uomo che la stava medicando a spronarlo, una volta che ebbe terminato di controllarla, visto che il biondo non sembrava voler concludere l’affare. Lei invece stava soltanto cercando di fare mente locale, di ricordare quello che Jan le aveva accennato sulla sua missione. Le veniva in mente soltanto un posto, dall’altro lato della città, difficile da raggiungere in poco tempo, ma avrebbe dovuto quanto meno fare un tentativo, perché non sarebbe stata in grado di rimanere ferma ad aspettare notizie da parte sua.
    Fu un secondo sparo a riportare la sua attenzione all’interno di quel capannone, mentre mentalmente si malediceva per quella perdita di concentrazione. Fanculo si disse, ci sarebbero state altre occasioni per osservarlo, per conoscerlo, quella non era la sera adatta. L’uomo che aveva mandato all’esterno tornò con un’espressione seria, quasi preoccupato. -Non sono riuscito ad avere notizie, non.. - iniziò, ma lei lo zittì con un secco cenno della mano e lo sguardo che gli intimava di non continuare oltre, non se voleva evitare di peggiorare ulteriormente la sua situazione. Perché lei non ammetteva mai un no come risposta. -Non era questa la risposta che volevo. - soffiò, soltanto, continuando a fissarlo con uno sguardo contrariato e furibondo. Erano sempre andati d’accordo sino a quel momento, ma c’erano delle cose che potevano farle cambiare completamente idea su qualcuno e suo fratello era proprio una di quelle. Eden si mosse nella loro direzione, chiedendo qualche informazione sul suo stato di salute. -Sì, sto bene. - rispose, ma era evidente che non fosse così, anche se cercava con tutte le sue forze di mascherarlo, di nascondere il dolore, la paura. -Lo so che non è stato lui. - rispose, visto che l’altro per un momento sembrava averci pensato davvero, come a volerlo tranquillizzare su quella faccenda che invece era il cuore pulsante del caos che si agitava dentro di lei. Le sarebbe piaciuto che si fosse trattato di Ralph, tutto sarebbe stato molto più semplice. Sembrava turbato Eden, lui che certamente non poteva comprendere che cosa fosse accaduto davanti ai suoi occhi, visto che ancora nessuno gli aveva spiegato il rapporto speciale che esisteva tra i gemelli, quella connessione che nessun medico aveva saputo spiegare. Erano semplicemente nati così, una delle tante stranezze di quella città. -E non temere, nessuno ti accuserà di non aver fatto bene il tuo lavoro, questo non avresti mai potuto prevederlo. - puntualizzò, cercando di essere un po’ più gentile nei suoi confronti, per la prima volta. Prendersela con lui dopotutto non l’avrebbe aiutata a stare meglio, non quella sera. Perché lui, tra tutti, era l’unico a non aver commesso alcun errore. Si voltò di nuovo verso gli altri due, la calma che sembrava aver ritrovato nel parlare con Eden venne invece spazzata di nuovo via dalla rabbia che ribolliva ancora sotto la superficie. -Ripulite questo casino. Subito. - disse, guardandoli in maniera piuttosto decisa e diretta, muovendo un passo verso l’uomo che aveva parlato poco prima, portandosi dritta di fronte a lui. Nonostante la fatica e la paura non avrebbe comunque abbassato la testa. L’orgoglio, quello non l’avrebbe mai abbandonata. -Fai in modo che sia il tuo lavoro migliore. - sibilò, come a fargli intendere che nessun altro errore sarebbe stato accettato quella sera, per poi allungare la mano, chiedendo silenziosamente le chiavi di una delle auto con cui erano arrivati.
    Prese un profondo respiro prima di riportare l’attenzione sull’unico biondo del gruppo, che sembrava attendere nuove istruzioni, come se qualunque cosa sarebbe successa da quel momento in avanti quella sera fosse anche affar suo. Neppure lei poteva negare che un po’ di aiuto le avrebbe fatto comodo, sentiva il braccio ferito tremare e la testa le esplodeva per la stanchezza. Non era sicura di riuscire a guidare, ma lei non era mai stata in grado di chiedere aiuto e non avrebbe iniziato quel giorno, non con lui.-Chi sto cercando non sarà un tuo problema questa sera. - rispose, ma il suo tono non era scocciato o irritato come lo era di solito quando gli rivolgeva la parola. Forse per la prima volta il biondo avrebbe potuto cogliere una certa arrendevolezza nella sua voce nel dargli quella che non era altro che una semplice informazione. -Quello che sto andando a fare non è una missione autorizzata e non ti farà guadagnare dei punti agli occhi di mio padre. - aggiunse quindi, dandogli una spiegazione un po’ più chiara di quello che voleva dirgli. Quella era una cosa personale, nulla di più. La verità era che Eden si sarebbe ritrovato a scegliere tra far incazzare Oskar perché l’aveva seguita in una missione non autorizzata, o farlo incazzare di più perché l’aveva lasciata andare da sola, chissà dove, visibilmente instabile, senza neppure tentare di difenderla. -Il tuo lavoro è finito, puoi andare a casa, Eden. - mormorò, quasi come un soffio, rivolgendogli poi un leggero cenno con il capo prima di riprendere a muoversi, diretta verso la zona delle auto. Barcollò nel muovere quei primi passi e dovette fare un certo sforzo per mantenere l’equilibrio e cercare di andare dritta. Quella non era affatto un’idea intelligente, lo sapeva, ma quel pensiero non l’avrebbe comunque fermata. Fece giusto in tempo a muovere qualche passo instabile prima che il rumore di altri passi alle sue spalle la raggiungesse. Si voltò di lato, scorgendo la figura di Eden che si muoveva sicura al suo fianco. Sospirò, con aria piuttosto scocciata, riprendendo a guardare dritta davanti a sé. -Sbaglio o ti avevo detto di tornare a casa? - chiese, senza guardarlo, mordendosi il labbro mentre nella sua testa cercava di valutare quale delle opzioni fosse la migliore. Costringerlo a fare dietro front, perché le lasciasse affrontare i suoi problemi da sola, oppure permettere che la seguisse, dando così molte più chance di riuscita a quello che stava cercando di fare. Serrò la mascella mentre lo osservava di sottecchi per un momento, prima di sbuffare. -Anders. Sto cercando Arders. Stiamo, se hai davvero intenzione di seguirmi. - aggiunse poi, voltandosi solo in quel momento a guardarlo, dritto negli occhi, come a volergli chiedere una risposta sincera e diretta. Quella era l’unica occasione che aveva: prendere o lasciare.
    Attese una risposta da parte sua prima di lanciargli le chiavi che aveva stretto in mano sino a quel momento e indicargli una vettura scura. - Credo di non riuscire a guidare. Puoi farlo tu? - chiese, visibilmente in difficoltà nel chiedere una cosa simile, prima di aprirsi la portiera da sola a infilarsi all’interno della vettura, con un mugugno sofferente. Aveva bisogno del suo aiuto, ma questo non voleva dire che ne avrebbe chiesto più del dovuto. -L’uscita per Bergen, dall’altra parte della città, lì da qualche parte dovrebbe esserci un ex edificio industriale abbandonato. - spiegò, cercando di sciorinare velocemente tutte le informazioni che aveva a disposizione perché potessero partire quanto prima. Non era molto, ma era pur sempre un inizio. -Al momento è l’unica cosa che so. - mormorò, con un filo di voce, piuttosto amareggiata nell’ammettere di non avere molto tra le mani. Probabilmente una volta arrivati lì avrebbero trovato soltanto delle tracce e nessuno di vivo ad attenderli. Era lontano, sarebbero scappati tutti prima del loro arrivo, ma aveva almeno bisogno di vederlo con i suoi occhi, di sapere che Anders non era più lì, che era al sicuro.

    Edited by 'misia - 17/1/2021, 16:53
     
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    A ogni scossa della macchina e a ogni curva presa male, Eden serrava i denti un centimetro in più alla volta, reprimendo la voglia di colpire l'autista alla nuca e prendere il suo posto. Avrebbe risparmiato a tutti del mal di stomaco. A pelle sento di non appartenere ai pochi eletti. Ribatté senza l'ombra di rammarico, riferendosi alla cerchia di persone per cui Frida provava altro che ribrezzo, almeno a quanto diceva lei. Cosa provasse per loro, poi, era tutta un'altra faccenda che a Eden non interessava realmente, incagliato nel tentativo di farsi piacere solamente perché costretto dal proprio lavoro. Per quanta pena potesse suscitargli quella ragazzina catapultata troppo giovane in un mondo di merda, era consapevole che quella stessa ragazza si era macchiata di crimini orribili e che, se messa nella giusta situazione, non avrebbe esitato a piantargli una pallottola nella fronte. Quindi no, se non fosse stato per la missione non avrebbe scelto Frida come compagna di bevute, e non ci avrebbe pensato due volte a sbatterla dietro le sbarre con tutto il resto di quella combriccola di gente che credeva di vivere sopra la legge. L'unico che avrebbe avuto problemi a incastrare era Pedro, quel latino che nell'ultimo anno era riuscito a far breccia nella rete di salvataggio in cui Eden si avvolgeva, diventando alla stregua di un migliore amico per lui. Un cazzo di hermano. Pensò scrocchiando una nocca conto il dito. Era un problema, lo sapeva, un problema di proporzioni bibliche che avrebbe scatenato guai altrettanto grandi. Saperlo lo faceva incazzare, perché era sempre colpa sua se le cose si mettevano di merda: così bravo a schermarsi da tutti e poi c'erano quelle due tre persone del cui affetto non riusciva a fare a meno e per cui arrivava a fare vere follie, come entrare nelle loro vite. Già, coinvolgere qualcun altro nella sua vita era la pazzia più grande di tutte, triste non è vero? Eden lo sapeva, allora perché permetteva che accadesse? Per egoismo. Con quella rivelazione Frida lo portò via dai suoi pensieri, forse l'unica gentilezza che gli avesse fino a quel momento mai rivolto. Con occhi e mento indirizzati ora verso di lei, cercò di immaginarla alle prese con un cane a cui magari donava anche affetto. Razza e nome? Chiese allora, le sopracciglia inarcate sopra i prismi azzurri delle iridi luminose. Il mio si chiama Merlin, è un pastore tedesco nero. Non ci metteremo a scambiarci foto dei nostri animali domestici, tranquilla. Però fa piacere sapere di essere d'accordo su qualcosa, noi due. Pensarla affettuosa con qualcuno lo sbigottiva, faceva anche la vocina acuta nel salutare il cane una volta giunta a casa? Nel pensarlo quasi gli scappò da sorridere, ma l'ennesimo scossone dell'auto troncò il movimento sul nascere, mentre la spalla e il fianco di Eden aderivano e spingevano fastidiosamente contro lo sportello, il corpo che seguiva la curva a gomito presa malissimo dall'uomo al volante. Quando i piedi aderirono finalmente al suolo, il biondo respirò profondamente mentre, sbattendo la portiera senza troppi complimenti, diceva abbastanza forte per farsi sentire anche attraverso il vetro semi abbassato dell'autista. "Quand'è il tuo compleanno Frida? Ti regalo un nuovo autista." Jesus Christ.

    Poteva solo presagirlo, Eden, che le cose successe quel giorno avrebbero segnato quelli a venire come le x sul calendario che dal muro lo fissavano, una minaccia a grafia tremolante inchiodata male sulla parete altrimenti spoglia del capannone, proprio sopra il capo reclinato dell'uomo. L'uomo che aveva appena ucciso. Chissà a chi era venuto in mente di appendere un calendario in un luogo come quello, chissà cosa contavano quelle sbarre a pennarello nero, quale speranza non vedeva l'ora di raggiungere chiunque le avesse disegnate. Forse quella di fuggire, vista la trappola in cui si trovavano. Con lo sparo ancora nelle orecchie e il buio a macchiargli la visuale periferica, Eden cercò in tutti i modi di concentrarsi su altro per non crollare, focalizzando l'attenzione sul dolore di Frida per tagliare momentaneamente fuori il suo senza andare in frantumi davanti agli altri.
    Nonostante dicesse il contrario, si vedeva che Frida stesse tutto tranne che bene, con quel braccio ora fasciato alla alla bell’e meglio e il sangue che già combatteva per impregnare il bendaggio. In qualche modo Eden non riusciva a guardare nient'altro che quella macchia scura, una goccia che voleva invadere quel mare di garza bianca, come se osservarla lo aiutasse a restare con la mente nel buio, nel male, e a non uscirne.
    Perché una volta fuori si aspettava di sbriciolarsi al minimo accenno di tramontana. Dentro quindi doveva restare, nel bozzolo di orrore, nell'intorpidimento mentale e fisico che gli impediva di pensare lucidamente al fatto che avesse appena ucciso un uomo. Ci era andato vicino prima di allora, ma non era mai arrivato a togliere la vita a qualcuno. Pensava a questo e nel mentre cercava di non farlo, ascoltando solo in parte il primo pezzo di conversazione tra Frida e gli uomini, per tornare con i piedi per terra e gli occhi sul viso di Frida solo quando gli si rivolse." L'unica cosa che mi preoccupa al momento è che questo, qualunque cosa sia, non ti riaccada di nuovo." Rispose quasi meccanicamente, accennando al braccio e al sangue che aveva perso. Sapeva che Oskar non sarebbe stato contento di quello che era successo e forse se la sarebbe presa con lui per non averlo impedito, ma quello che Eden aveva per la testa in quel momento era evitare che quell'attacco invisibile riaccadesse di nuovo. Non era sicuro di cosa fosse successo, ma era evidente che Frida qualche idea doveva averla a riguardo, visto il modo in cui aveva cercato di localizzare la posizione di qualcuno. C'era sotto molto di più di un semplice attacco, avvertiva la paura di Frida farsi urlo dentro la sua stessa testa, un grido spaesato e silenzioso che solo loro due potevano sentire. Era sempre a disagio quando sentiva le ansie altrui addosso, aveva la sensazione di spiare le loro debolezze senza poter davvero fare niente per aiutare. La fronteggiò con lo sguardo tanto serio da formare un nodo rugoso fra le sopracciglia. "Ma forse inizierai a capire di poterti fidare di me. " Raggiungere il padre e la sua approvazione era lo scopo dell'intera missione, tuttavia entrare nelle grazie della più giovane era uno step fondamentale che sentiva di non poter saltare. Rimase immobile a fissare il punto in cui prima c'era stata lei, qualche secondo di recupero in cui far sbizzarrire i pensieri e valutare possibilità, rischi e conseguenze di una scelta. Pensò a come il padre di Frida si sarebbe infuriato, no matter cosa facesse da quel momento in poi Eden. Se non l'avesse seguita sarebbe stato nei guai per averla lasciata sola in quello stato, al contrario invece avrebbe partecipato a una missione non autorizzata dall'alto e potenzialmente pericolosa. Che poi in realtà non c'era mai stato davvero un dubbio per lui, appena l'aveva sentita parlare aveva già deciso che l'avrebbe seguita. Allora ruotò il collo sulla sua asse di dischi impilati come CDs, puntando le iridi chiarissime sulle spalle coperte del capo che arrancava, visibilmente in difficoltà. Quando la vide barcollare, Eden accennò un movimento con le braccia come a volerla prendere prima che cadesse, il riflesso involontario di un'anima oscurata ma in fin dei conti buona, come le ombre delle nuvole che vanno e vengono su un cielo altrimenti azzurrissimo. Per fortuna non la sfiorò, non credeva che Frida avrebbe preso bene quel tentativo di aiuto da parte sua, ma si limitò ad affiancarla camminando con lei verso la macchina, fuori dal capannone. "Si, lo hai detto. Ma sbaglio o ho il compito di proteggerti? Permettimi di aiutarti, ne hai bisogno." Le camminava vicino senza che spalla o braccio la toccassero, ma era pronto a prenderla se le fossero mancate le forze. Era così, Eden, non si avvicinava mai troppo ma non era neanche mai troppo lontano, pronto a scattare qualora vi fosse stato bisogno di lui. Era bravo, in quello. -Anders. Sto cercando Arders. Stiamo, se hai davvero intenzione di seguirmi. - Si era fermata di botto e così aveva fatto l'uomo, che ricambiava lo sguardo strano di Frida chiedendosi se quello fosse il momento decisivo di tutta quella storia, l'istante che in ogni racconto segna un punto di svolta nel rapporto tra due protagonisti. Decise di voler credere che fosse così, quindi rispose con serietà." ti seguo", mentre afferrava al volo il mazzo di chiavi stringendole fra le dita un po' ruvide di chi ha sempre lavorato sodo per campare. Annuì solamente alla richiesta di guidare, un minuscolo cenno del capo mentre una mano passava rapidamente fra i capelli con l'intento di portarli indietro, al loro posto. Una volta entrambi in macchina, Eden accese il motore con le ruote che stridevano sulla ghiaia e il capannone che si faceva sempre più lontano.

    Insieme alla struttura, Eden si lasciò dietro Mr. Haugen e i suoi occhi che lo guardavano spalancati, due biglie traslucide piene di paura. Si concentrò sul respiro accelerato di Frida al suo fianco e sulla macchia di sangue che, l'aveva notato solo con le mani sul volante, svettava sulla manica della giacca proprio all'altezza del polso, cercando di mantenere il buio dentro il più a lungo possibile. Pensò a cosa gli aveva detto la ragazza, al fatto che stessero cercando Anders e a come fosse possibile che lei sapesse esattamente dove andare, come se avesse personalmente visto l'ubicazione del fratello. "Al momento è l’unica cosa che so." aveva detto Frida, un indizio che confermava l'idea che l'uomo si era fatto di tutta quella faccenda. Perché se c'era qualcosa che aveva finito per imparare durante quell'anno passato a Besaid era che, se non c'era una spiegazione razionale, doveva trattarsi di una supernaturale. Staccò una mano dal volante, quella con il bordo macchiato di sangue, per non vedersela sempre davanti e per tastare la giacca alla ricerca delle sigarette. "È ok fumare qui dentro?" Spostò lo sguardo lateralmente nello specchietto sulla sinistra, mentre incastrava fra le labbra la parte del filtro per maneggiare con l'accendino, che lasciò sulla coscia in attesa di una risposta. Qualora fosse stata positiva, l'avrebbe accesa aprendo leggermente il finestrino, l'abitacolo pregno dell'odore di tabacco e carta bruciata. "Allora..." iniziò tamburellando con l'indice della destra sulla pelle che rivestiva il volante. "È un'altra cosa che vi lega? " Non sentì ci fosse il bisogno di specificare a chi o a cosa si riferisse, l'argomento era decisamente alla stregua di un elefante seduto sui sedili posteriori. "Qualunque cosa ferisca uno, l'altra subisce lo stesso?" Sentiva ancora la paura di Frida infestare l'abitacolo e mischiarsi al fumo della sigaretta, era una delle preoccupazioni più profonde che degli altri avesse mai sentito su di sé. Se le sue supposizioni erano giuste, capiva perfettamente perché la loro famiglia volesse mantenere il segreto. Lui stesso poteva immaginare uno o due modi per usare a suo favore quella scoperta, figurarsi cosa avrebbe potuto significare per i Sandström se fosse caduto in mani più sbagliate di quelle di Eden. Quella famiglia aveva un sacco di nemici da cui difendersi, la legge era solo uno di essi e anche forse quello più frustrante in cui schierarsi perché, giocando almeno in parte secondo le regole, c'era bisogno di molto più tempo per ottenere risultati concreti. Se fosse stato un mafioso qualsiasi, avrebbe premuto il grilletto e risolto la questione in metà degli anni che stavano invece impiegando con quelle indagini.
    Quel genere di pensieri lo preoccupavano, non avrebbe dovuto neanche avvicinarsi a loro, eppure ogni giorno che passava si facevano sempre più frequenti nella sua mente, come se il biondo stesse decisamente dimenticando chi fosse veramente. "Io sento la paura delle persone come fosse dentro di me. " Disse con un tono di voce più basso, quasi fosse una confidenza. Non era sicuro di quanto sapessero di lui, probabilmente solo quello che la polizia aveva fatto in modo che di lui rimanesse, ma continuò a spiegarsi ugualmente. Una confidenza per una confidenza, così si costruiva un rapporto. "Non mi è sempre chiara forma e origine, ma con un minimo di deduzione di solito riesco a farmi un'idea. Avverto la tua preoccupazione, Frida, ed è decisamente profonda. Riesci a capire cosa dobbiamo aspettarci, una volta lì?" Avevano attraversato l'intera città e preso l'uscita di Bergen, e Eden rallentò l'andamento della macchina tenendo d'occhio il ciglio della strada per non perdersi l'edificio di cui aveva parlato Frida. Individuarlo non fu difficile vista la sua mole, e l'uomo accostò per fermare la vettura nello spiazzo lì davanti. "Vado dentro per primo, con quel braccio sei un bersaglio troppo facile. Se muoio io non conta nulla, se fossi tu a morire beh, ci rimetterei la testa. Stammi dietro, ok? " Eden estrasse immediatamente l'arma, avanzando per primo verso e dentro l'edificio conscio del fatto che quella poteva benissimo essere una trappola. L'idea gli era venuta in mente durante il tragitto, ma aveva deciso di non parlarne perché sarebbe stato comunque inutile. Avevano deciso di andare e sarebbero arrivati fino in fondo. Con i nervi a fior di pelle ma stabili, Eden spalancò la porta con un calcio e il rumore frantumò il silenzio come una pallottola fa contro un vetro. Il locale era quasi spoglio quanto il capannone dove Frida teneva alcuni ostaggi e elargiva sentenze di morte, l'aria che dava era proprio di quelle che non promettevano nulla di buono. "È vuoto, ma non troppo tempo fa c'è stato decisamente qualcuno qui." Disse dopo aver ispezionato lo spazio, indicando con gli occhi una macchia scura ai piedi di una delle tante colonne che reggevano quel posto. Piegò le ginocchia per abbassarsi sui talloni, allungando poi un paio di dita per tastare il pavimento. Quando le risollevò, erano macchiate di qualcosa di colore quasi nero. Portò indice e medio vicino alle narici. "Sangue." Confermò storcendo il naso, pulendosi poi le dita sui pantaloni all'altezza della coscia. Si alzò muovendo qualche passo nei dintorni, gli occhi puntati al suolo alla ricerca di indizi, due fessure ormai sottilissime che scrutavano il circondario. Uscì per qualche minuto fuori per osservare anche l'esterno in prossimità dell'edificio, dove trovò le estremità di una fune spezzata a seghetto da qualcosa di affilato, che porse a Frida una volta tornato di fronte a lei. "C'è segno di colluttazione lì giù, sembra che qualcuno abbia messo su una bella lotta e, forse, sia riuscito a scappare. Fuori ci sono segni di quattro pneumatici e delle impronte di scarpe che vanno in direzioni diverse, oltre che a dell'altro sangue. La mia teoria? Anders è corso a piedi da qualche parte nel bosco. Cosa vuoi fare? " Era talmente assorto da quelle scoperte da non aver notato subito lo sguardo di Frida. "Andavo a caccia con mio padre, back in America." In effetti aveva perlustrato la zona come se stesse cacciando un animale, quindi si spiegò scrollando le spalle, mentre le pupille nerissime venivano di nuovo attratte dal maldestro bendaggio intorno a braccio di Frida, dove ormai il rosso si era mangiato quasi tutto il bianco della fascia. Posso? Nel dirlo aveva mosso un passo in avanti, le mani già tese per aiutarla. Bastò quel movimento di troppo perché la ragazza si ritraesse velocemente, come a far tornare il solito divario tra loro. "Si potrebbe mettere peggio per te se non ti fai aiutare. " Disse candidamente, le mani in alto a palmo aperto come se fosse un nemico e dovesse dire, silenziosamente, vengo in pace. Lentamente abbassò le dita per portarle alla cintura, che prese a slacciare mentre diceva, di nuovo, "posso?" avvicinandosi a lei per essere d'aiuto. "Non è grave ma è abbastanza profonda, bisogna fermare il sangue. Questo farà un po' male. Sei pronta? " Aveva allacciato le estremità della cintura intorno al braccio di Frida, appena sopra la ferita, ed era pronto a stringere con forza. Aiuterà ma servono dei punti. Disse deciso. "Se chiami qualcuno possono pensarci loro a cercare tuo fratello, io ti porto a casa." Anche se era sicuro che avrebbe prima o poi messo tutti loro dietro le sbarre, Eden non avrebbe lasciato che le succedesse qualcosa. Non quel giorno, non con lui.
     
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    No, effettivamente Eden non apparteneva alla ristretta cerchia delle persone che non le andavano a genio, ma non lo disse ad alta voce. Non perché la preoccupasse ferirlo, ma perché immaginava che non ce ne fosse affatto bisogno. Arricciò il naso per qualche istante quando lui le chiese qualche informazione in più sul suo cane, come a soppesare quello che avrebbe potuto dirgli, forse preoccupata che anche solo quei piccoli dettagli potessero rivelarsi un problema, una debolezza. Poi, dopo qualche secondo di silenzio, si decise a parlare. -Astor, è un Dogue de Bordeaux. - disse quindi, guardandolo appena nel dire quelle parole, come a voler cercare di intercettare una reazione, qualunque minuscolo dettaglio potesse farle intuire che cosa stesse pensando. Alcune volte invidiava Pedro per la sua capacità di leggere nella mente delle persone, di sicuro lo aiutava a capirle. Avrebbe potuto chiedergli di permetterle di copiarla qualche volta, ma preferiva non farlo, se non era necessario per qualche missione. Quando però Eden rivelò il nome del suo animale e che era un pastore tedesco alla sembrò rilassarsi appena, come se quelle parole da sole fossero bastate a convincerla che non stesse mentendo. Sapeva ovviamente che poteva essere una menzogna, che chiunque poteva dire quello che voleva senza che fosse necessariamente collegato alla realtà, ma sapeva anche che non avrebbe avuto senso mentire su un argomento, su cui altri colleghi avrebbero potuto darle conferma o smentita. Faceva quasi strano sapere di avere qualcosa in comune con quell’uomo che lei aveva preferito odiare sin dal primo momento. Si voltò di nuovo verso l’esterno dell’auto, ragionando su quel dettaglio che le sembrava così assurdo. -Uhm? - chiese, stranita, quando l’altro le domandò la data del suo compleanno, per poi aggiungere che le avrebbe regalato un nuovo autista. Lei sorrise, questa volta in maniera più sincera, mentre tratteneva quasi una leggera risata, scuotendo la testa. -Il 10 novembre. - disse allora, mentre finalmente l’auto accostava. Forse Agnes e Pedro avevano ragione, forse Eden non era poi così insopportabile come lei voleva credere.
    L’interesse per quel test di cui Eden era il soggetto principale comunque scemò velocemente. Si era recata lì insieme a lui per studiarlo, per carpire qualche informazione sul suo conto dal modo che aveva di comportarsi, muoversi. I silenzi, le esitazioni, erano quelle cose di solito a spiegarle molto su chi la circondava, ma quella sera la sua attenzione era rivolta altrove. Dopo i primi minuti in quel capannone, trascorsi a comprendere se il loro amico avesse o meno la possibilità di saldare il suo debito, tutto mutò radicalmente quando suo fratello venne colpito da qualcosa, o forse da qualcuno. Sentì una certa collera iniziare a divampare dentro di lei al pensiero che lui fosse lì fuori, chissà dove e che qualcuno non avesse svolto bene il suo lavoro. Ingoiare il rospo e fingere di stare bene era quello che avrebbe dovuto fare, ma non ci riusciva. Aveva bisogno di avere informazioni su Anders, di sapere dove fosse e con chi, quindi ordinò a uno dei suoi di recuperare quelle notizie il prima possibile. Eden sembrò preoccupato dell’accaduto e che la cosa potesse accadere di nuovo e lei emise un leggero sbuffo. -Non potresti impedirlo se ricapitasse, non qui. - disse soltanto, senza spiegarsi, mentre cercava di domare la collera e trovare un briciolo di tranquillità. La sua rabbia dopotutto non avrebbe aiutato né lei né suo fratello e aveva bisogno di spegnere le sue emozioni, così da poter sentire meglio quelle dell’altro e cercare di capire se stesse bene. Intenzionata a risolvere la cosa da sola invitò quindi Eden a tornare a casa sua, visto che il suo unico compito di quella sera era già stato svolto. Frida barcollò in avanti, spossata, cercando di raggiungere una delle macchine parcheggiate di lato rispetto al capannone, mossa all’istinto più che dalla razionalità. Perché se si fosse fermata a pensare lucidamente avrebbe intuito di non essere in grado di reggere un viaggio in totale solitudine, ma non era mai stata una a cui piaceva ammettere di non poter fare qualcosa, piuttosto ci provava comunque, con il rischio di combinare guai ben più grossi.
    Si morse la lingua quando l’altro, dopo averla seguita, le fece presente che dopotutto uno dei suoi ruoli era quello di proteggerla. Non apprezzava il fatto che suo padre le avesse messo intorno tutte quelle persone, per lei era come dirle che pensava che non fosse in grado di cavarsela da sola. Non riusciva a leggere il lato premuroso di quel gesto, quello di un padre che forse in fondo teneva davvero ai suoi figli, anche se non lo aveva mai dato a vedere. Si limitò quindi a un leggero mugugno, mentre continuava a camminare, sentendo la presenza di lui al suo fianco. Si teneva a una distanza di sicurezza, né troppo lontano, né troppo vicino, una presenza che dava sicurezza senza risultare opprimente. Spiegò velocemente quello che sarebbe stato il loro obiettivo, poi gli passò le chiavi della macchina, andando a posizionarsi nel posto davanti accanto a quello del guidatore. Se non fosse stata così disorientata avrebbe trovato quasi divertente quella faccenda: per quella sera un nuovo autista glielo aveva procurato davvero.

    Chiuse gli occhi per un istante, mentre l’altro metteva in moto e iniziava a guidare verso la zona della città che gli aveva indicato. Una parte di lei era convinta che quel viaggio non sarebbe servito a nulla e che non avrebbero trovato alcuna traccia di ciò che stava cercando, ma non poteva permettersi di non provare neanche. Aveva bisogno di sapere che lui stava bene, che era al sicuro. Non aveva mai accettato il buon grado il fatto che Oskar li dividesse, raddoppiando le loro possibilità di avere delle complicazioni. Si chiedeva se sottovalutasse il loro legame, se sopravvalutasse le loro capacità, o se semplicemente non gli importasse affatto. Non aveva mai osato chiedere, sapendo che una domanda come quella, troppo diretta e accusatoria, l’avrebbe messa in cattiva luce e lei voleva evitarlo in tutti i modi. Eppure quei pensieri continuavano a ribollire dentro di lei, alimentando un fuoco che ormai era divenuto impossibile da estinguere. Fu il movimento della mano dell’altro che si spostava dal voltante per raggiungere qualcosa nella sua tasca a riportarla con la mente all’interno dell’auto, prima delle parole di lui. Non si sentiva mai al sicuro, in nessun luogo, quindi tendeva sempre ad analizzare i movimenti degli altri per poter anticipare un attacco. Cercava di mostrarsi tranquilla, irreprensibile, ma non lo era poi davvero. Annuì quando si rese conto che si trattava soltanto di un pacchetto di sigarette, tastando nella tasca del suo giubbotto per trovarne una a sua volta, senza riuscirci. -Ne dai una anche a me? - domandò, guardandolo per un momento, per poi riappoggiarsi al lato del sedile, mantenendo una posa un po’ scomposta, con il busto e la testa ruotati di lato per poterlo osservare meglio. Accese la sigaretta a sua volta, aprendo appena il finestrino per poter espellere l’aria all’esterno e non trasformare l’abitacolo in una ciminiera. Serrò appena la mascella nel sentirlo domandare qualcosa su lei e Anders, sul legame che li univa e sulla loro particolarità, ma avendo accettato di farsi aiutare non poteva pretendere di non ricevere alcuna domanda da parte sua. Si chiese per un istante che cosa intendesse con “altra cosa”, quale fosse la prima delle cose che doveva unirli. Che avesse capito qualcosa? Oppure semplicemente voleva intendere oltre al legame di sangue? Non domandò, per evitare di suscitare in lui il dubbio che potesse esserci qualcosa di più. -Per semplificarla, sì. Se lui viene ferito, vengo ferita anche io. - rispose brevemente, giusto per chiarire quel suo primo dubbio e spiegare perchè avesse immediatamente pensato ad Anders quando aveva ricevuto quella ferita del tutto immotivata. Raddrizzò appena la schiena, facendosi più attenta, quando lui, forse per metterla più a suo agio, iniziò a parlarle della sua particolarità. Era sempre stata curiosa di sapere che cosa fosse in grado di fare, ma non aveva mai tentato di scoprirlo con la forza, cercando di copiare la sua particolarità senza che neppure lui se ne accorgesse. Si era sempre tenuta alla larga da lui per quanto possibile, quindi avere quelle prime informazioni su di lui, che non fossero soltanto i suoi legami con il gruppo di Oslo, era per lei una grande novità a cui non voleva certo rinunciare. Riabbassò lo sguardo poi, con un sospiro, quando lui precisò che sentiva la sua paura e che sembrava anche piuttosto importante. -No, non posso vedere con chi occhi di Anders, se è questo che mi stai chiedendo. - rispose, con una leggera scrollata di spalle, voltandosi di nuovo verso l’altro. -Sapevo della posizione del capannone perché me ne ha parlato ieri, non perché io possa sapere dove si trovi. - aggiunse, iniziando a dare qualche spiegazione in più sulla strada particolarità che lei e suo fratello si erano ritrovati. -Condividiamo le emozioni e i problemi fisici, in parte è come se l’essere gemelli ci avesse reso un’unica persona divisa in due corpi, ma con dei pensieri ben distinti. Per fortuna l’unico che può sentire cosa mi passa per la testa è Pedro. - aggiunse, con una nota vagamente divertita nella voce. Era difficile per lei parlare di quella parte di sé, di quel legame con suo fratello, ma stava provando a dare davvero un’occasione all’uomo alla guida ben sapendo che, se mai l’avesse tradita, non avrebbe esitato un istante a mettere fine alla sua esistenza. Non era semplice guadagnarsi la sua fiducia, ma perderla sì.
    -E’ anche possibile che parte della paura che hai sentito in questo tempo non fosse del tutto mio. Le emozioni forti si riflettono dall’uno all’altra, è stato difficile imparare a tenerle un po’ bada. - continuò, mentre la sua mente si lasciava andare a qualche ricordo di se stessa bambina e delle difficoltà che avevano riscontrato. -Ora, ad ogni modo, sembra essersi calmato. Sento la preoccupazione affievolirsi un po’. E’ arrabbiato, ma sembra calmo, non so se riesco a spiegarmi. - disse, rendendosi conto di quanto quel suo discorso potesse risultare confuso. Non era brava con le parole quando si trattava di esprimere sentimenti, emozioni. Sapeva come parlare se era necessario, cosa dire per fare in modo che le persone pensassero di potersi fidare di lei, cosa dire per farsi sottovalutare così che chi aveva attorno abbassasse la guardia, ma se si trattava di mettersi a nudo davvero, di togliere tutte le maschere, allora non riusciva più a trovare le parole. -Non sta correndo, o sentirei il mio cuore battere più veloce e percepirei la sua stessa fatica. E non ha perso i sensi, o lo avrei fatto anche io. - continuò, cercando di dare tutte le deduzioni più semplici, quelle per cui non aveva bisogno di pensare troppo. Non era il momento di lasciarsi andare a grandi confessioni o rivelazioni mentre velocemente l’auto raggiungeva la meta stabilita, per poi rallentare in prossimità del capannone e avvicinarsi a esso in maniera un po’ più furtiva. Gli scoccò un’occhiataccia quando lui le fece notare che con il braccio ferito sarebbe stata un bersaglio facile e che se le fosse successo qualcosa lui ci avrebbe comunque rimesso la testa. -Non mi piace chi gioca a fare l’eroe. - sussurrò, un po’ seccata, evitando però di controbattere troppo. La stanchezza data dalla ferita che ancora bruciava sul suo braccio non le permetteva di rispondere con il solito astio. Si posizionò quindi dietro di lui, rimanendo appena a un metro di distanza, estraendo la pistola a sua volta, per poterlo coprire in caso ci fosse stato ancora qualcuno all’interno. Immaginava che essendo passati diversi minuti non ci fosse più nessuno a cui chiedere delle spiegazioni quindi non la sorprese troppo trovare il capannone buio e silenzioso. Lo seguì, passo dopo passo, mentre Eden ispezionando ogni angolo di quella enorme stanza quasi vuota, individuando una macchia di sangue sul pavimento. Serrò appena la mascella, preoccupata che potesse trattarsi di quello di suo fratello e pensando quindi di dover immediatamente mandare qualcuno per ripulirlo, per evitare di avere qualche problema. Lei continuò a muoversi all’interno del capannone, mentre lui uscì all’esterno per qualche minuto, ispezionando anche l’area circostante. Frida prese il telefono tra le mani, fissando lo schermo come se sperasse così di vederlo squillare, senza risultato. Lo rimise in tasca quando l’altro tornò nella sua direzione, con in mano una corda spezzata. La guardò confusa, non aveva idea di cosa potesse voler dire. -No, dubito che mio fratello sia corso da solo. Non era da solo, non aveva un piccolo gruppo e se si fosse affaticato correndo lo avrei fatto anche io. - disse, abbastanza sicura nei toni, visto che in tutta la serata non si era mai sentita come durante una corsa. -Forse chiunque abbia fatto fuoco, sorprendendoli, poi ha cercato di scappare a piedi. - suggerì lei, cercando di osservare la questione da un altro punto di vista, uno ben più fortunato per i suoi uomini. -Come hai fatto a capire quelle cose? - domandò, indicando l’esterno con un cenno del capo, dove lui aveva individuato tutte quelle tracce al buio. Assottigliò quindi lo sguardo, facendosi più attenta, quando le disse che andava a caccia con suo padre, quando viveva in America. -In America? - domandò, abbastanza sorpresa di sentire una cosa come quella. Come aveva fatto un americano a finire a Oslo? E perché il resto della famiglia aveva deciso di assumerlo? Dovevano esserci parecchie cose che non sapeva sul suo conto e questo non la faceva sentire per niente tranquilla.
    Scostò il braccio quando l’altro si avvicinò, interrompendo velocemente il flusso dei suoi pensieri. -Sto bene. - ribattè, piuttosto secca, notando lo sguardo sin troppo serio dell’altro. Non le piaceva che gli altri le facessero delle ramanzine, tanto meno se si trattava di qualcuno con cui generalmente non aveva un buon rapporto. Sapeva che lui aveva ragione, ma questo non voleva dire che lo avrebbe ammesso con la stessa tranquillità con cui lui stava parlando. Eden sollevò le mani in aria per un momento, sotto lo sguardo ancora fisso e attento di lei che non perdeva neppure un movimento. Sospirò rumorosamente, iniziando a capire che quel tizio doveva essere persino più testardo di lei quindi, dopo aver alzato gli occhi al cielo per un istante, scocciata da quella situazione in cui lei stessa era andata a cacciarsi portandoselo dietro, gli rivolse un leggero cenno di assenso con il capo. Strinse il pugno dell’altra mano lungo il fianco e serrò la mascella mentre lui stringeva la cintura attorno al suo braccio, appena sopra la ferita, affinchè smettesse di sanguinare. Non aveva neppure notato che il bendaggio si stava tingendo di sangue, presa com’era da altri pensieri. -Lo so. - gli disse, soltanto, tornando a guardarlo, quando Eden precisò che le sarebbero serviti dei punti. Tendeva a sottovalutare sempre il suo stato di salute, soprattutto quando le questioni vertevano intorno a suo fratello, ma in tutti quegli anni aveva imparato a capire che cosa servisse in situazioni come quelle. -Vuoi dirmi che sai fare anche quello? - domandò, con aria quasi sarcastica, visto che ancora non aveva trovato qualcosa in cui l’uomo non fosse bravo e la cosa le dava un po’ fastidio. Aprì la bocca per ribattere con qualcosa di stupido a quella sua offerta quando sentì il cellulare iniziare a vibrare nella tasca dei suoi pantaloni. Lo prese velocemente, notando il numero di uno degli uomini che erano stati insieme a loro nell’ora precedente. -Dimmi. - disse soltanto, mentre dall’altro lato l’uomo iniziava a parlare, raccontandole brevemente quello che aveva scoperto. -E’ tornato? Come sta? - chiese, aspettando delle brevi risposte tra una domanda e l’altra, mentre lentamente si faceva via via sempre più calma. -Digli che appena lo vedo lo prendo a calci. - fu l’ultima cosa che mormorò, prima di chiudere la chiamata, senza aspettare una risposta dall’altro. Si lasciò andare ad un sospiro liberatorio, andando poi a riporre il telefono nella tasca. -Mio fratello e gli altri sono tornati alla base. - spiegò, anche se immaginava che Eden doveva averlo già capito da quel poco che aveva sentito. -Possiamo andare a casa. - aggiunse, più perché sapeva che era l’unica cosa che gli restava da fare, che perché lo volesse davvero.
     
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