Adrenaline has always been my thing

Beat x Debbie

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    Certi giorni gli sembrava di avere un vuoto da riempire, o forse era lui a non riuscire a trattenere niente dentro, come se da qualche parte ci fosse una perdita tra le assi del suo scheletro. Quei giorni era meglio passarli in silenzio, e il posto migliore per trovarlo era in alto, sui tetti e le fiancate degli edifici, col vento e il rumore dissipato del traffico lontano sotto i suoi piedi. Aveva mandato un messaggio a Skipper, vediamoci in alto, ok? Diceva il Nokia 3310 che ronzava come il motore di una piccola barca, mentre Beat riprendeva la partita a snake lasciata a metà per digitare quella mezza riga. Steso a pancia in su sul letto, con le casse dell'impianto stereo che sparavano decibel di tecno a tutto volume, il ragazzo non dovette attendere molto prima di ricevere risposta, proprio mentre il suo serpente si bloccava lampeggiando veloce sullo schermo. Si era mangiato la coda. Uno schiocco di labbra e Beat era già in piedi, la maglietta bianca stropicciata alzata un po' sulla schiena, lì dove il il corpo aveva scavato la propria impronta nel materasso, di peso. Spense la musica e uscì dalla stanza e dal suo disordine esplosivo, facendo il suo ingresso nell'area comune per molti anni condivisa con il suo migliore amico e ora, purtroppo, anche con la sua ragazza. Attraversò lo spazio quasi scivolando sulle suole, veloce nello scoprirlo vuoto e contento di non dover incrociare nessuno. Un piede sulla porta e la sigaretta già all'angolo della bocca, spenta, un rumore di porta che si apriva e un respiro forse stupito, femminile, a cui voltandosi rispose con un semplice -ci vediamo dopo.- Forse. Non lo disse ma lo sapevano tutti, che Beat scompariva per riapparire chissà quando, chissà dove, chissà in che condizioni. Arretrando spinse con il culo la porta di casa, aprendola per farsi risucchiare fuori, il bagliore di un sorriso da stregatto sul volto.
    Respirava l'aria invernale come si trattasse di cibo, sentirla invadere i polmoni faceva bene e male allo stesso tempo, come tutte le cose che valevano la pena in quella vita. Si affrettò verso il punto in alto, il palazzo che avevano adottato come quartier generale per gli incontri del gruppo parkour era una struttura vecchia ai margini della città bene, sulla linea di confine immaginaria che la divideva dalla periferia con i muri scrostati, i murales mozzafiato e le insegne spente, dondolanti come gambe fuori uso a strapiombo nel vuoto. Non stava scritto da nessuna parte, nessun cartello, nessuna insegna, nessuna piazza divideva il centro dai sobborghi, solo lo stesso marciapiede che da linea retta ad un tratto si incrinava, affondava nell'asfalto, perdeva pezzi come se una bomba fosse esplosa proprio in quel punto e nessuno se ne ricordasse. E così succedeva alle case, alle vetrine, a tutto sembrava mancare o essersi incrinato qualcosa, persino le piante erano più grigie, meno accudite. A Beat quella differenza piaceva da matti, forse si riconosceva in quel paesaggio urbano disallineato, in dislivello, in quelle tegole che sembravano sempre sul punto di cadere senza però mai farlo.
    Girato l'angolo vide Skipper, il ragazzo alto e biondiccio lo aspettava contro una parete lurida, stravaccato contro come se vi fosse sdraiato verticalmente. Era ora. Il biondo si staccò dal muro, alto e secco come un grissino con la scoliosi. Ho bisogno di volare, che dici Skippy?
    Lo salutò così Beat, l'ultima delle tre sigarette fumate durante il tragitto finì a terra, sotto la punta della scarpa. Quella domanda poteva avere due significati, nel loro mondo: dammi qualcosa, qualsiasi pillola, o saltiamo. Visto che si trovavano all'ingresso di quel palazzo, il biondo parve capire a cosa si stesse riferendo perché guardò in alto, verso il cielo bitorzoluto di nuvole nere che il vento trascinava a fatica. Tre minuti fa è passato un elicottero federale. È di cattivo auspicio. Sentenziò senza tentennamenti, come fosse una cosa qualunque da notare la domenica mattina. - E io che pensavo che pioggia e pavimento bagnato fossero un cattivo presagio per chi è sul punto di zompare da un tetto all'altro della città, Che coglione. - Il viso di Beat si spezzò nell'ennesimo sorriso laterale, un minimo accenno che sembrava sempre prendere per il culo, poi si sfregò le mani fra loro per scaldarle e superò Skippy, entrando nell'edificio dopo avergli menato una pacca bella forte sulla schiena.- Auf geht's - Andiamo.


    Oscillava tra i palazzi un po' come gli equilibristi, rincorrendo nei salti quelle forti emozioni di cui si sentiva altrimenti privo, trovandole per un po' tra vuoto e cemento su cui atterravano le nike nere. Sotto un cielo sempre più nero, Beat seguiva il numero dieci enorme sulla maglietta scura di Skippy, le braccia aperte perpendicolari per mantenere l'equilibrio su un cornicione strettissimo, il baricentro un filo a piombo sui piedi tanto svelti da sembrare distratti. Non lo erano in realtà, Beat su quei tetti era attento a cosa calpestava, molto di più di quando era in basso. Atterrò leggero sulla sporgenza più vicina dopo un salto di almeno tre metri, il brivido di pochi secondi di volo era la cosa che negli ultimi giorni aveva sentito di più, a parte quando c'era Lys. Con lei nelle vicinanze infatti, il suo cuore tornava a battere veloce come non succedeva da tanto, portandolo a credere che le emozioni che provava fossero davvero le sue e non quelle di qualche sconosciuto incontrato per caso e per caso sfiorato, assorbendone gli stati d'animo.
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    Si sporse col busto oltre l'angolo, un triangolo acuto formato da vuoto e mattoni in cui la punta del suo piede stava appena, a un millimetro dal precipizio. Era tutto piccolissimo da lassù. Le macchine e i semafori solo minuscole luci accese e spente, le persone dei puntini tutti uguali con dei problemi qualsiasi, amplificati dalla quantità di ossigeno sopra le loro teste. Tra le strade a volte Beat si sentiva infatti schiacciato, come se l'atmosfera lo calpestasse rendendo tutto più pesante. In alto si sentiva quasi come con la musica o come quando ballava, con una metà di mondo in meno a comprimergli le vertebre per cercare di piegarlo, per tenerlo fermo a terra con le ginocchia sulla faccia. Per questo faceva quel che faceva, Beat, così viveva come se stesse sempre sfuggendo da qualcosa, sempre di corsa sembrava incapace di fermarsi, impaurito che la gravità potesse prima o poi acciuffarlo per spezzarlo. Saltò di nuovo, il petto contro le ginocchia e la mani sopra di esse, una palla umana che volava tra un edificio all'altro come una scheggia impazzita. Pochi secondi ci vollero finché atterrasse, ma in quei centosessanta attimi Beat ebbe la sensazione di camminare coi piedi fra le nuvole gassose. L'urto col suolo fu più duro di quanto avesse previsto, i denti tremarono sui loro nervi mentre incassava il colpo con ogni muscolo e tendine del corpo, cercando di mantenere l'equilibrio e non cadere. Con l'impatto arrivò anche l'altro suono, come un lamento distante ma abbastanza vicino da farlo preoccupare. Alzò lo sguardo e vide Skippy indicare qualcosa vero l'alto, seguì la traiettoria del suo indice bianco albino e vide l'elicottero volare tra due grattacieli lontani, un grande uccello del malaugurio. Stava per dire qualcosa, Beat, per liquidare la visione con una risata strafottente delle sue, ma da qualche parte dietro di lui una porta si aprì liberando delle voci concitate che lo raggiunsero subito, mettendolo in allarme. C'era un tizio dall'altro lato, un uomo alto e grosso che sembrava appena uscito da un campo d'addestramento militare, indossava la divisa della polizia e stava urlando loro qualcosa, mentre qualcun altro urlava a lui qualcos'altro dalla radiolina che teneva in mano. Mi dispiace, palazzo sbagliato. Sollevò le spalle e sorrise, Beat, accennando con gli occhi al baratro che divideva i due tetti, un salto di almeno cinque metri che non c'era verso il tizio riuscisse a fare, non con quella massa da gladiatore. Allora ci fu un secondo in cui Skippy, Beat e il troll si guardarono a vicenda e poi le porte, loro, le porte, loro, le porte, prima che ognuno scartasse di lato con uno scatto spacca tendini.
    E la fuga iniziò.
    Beat faceva strada per le scale, caracollando tenendosi con una mano al cornicione mangiava due tre gradini alla volta, nella speranza di riuscire ad arrivare giù prima dell'altro, che nel palazzo accanto stava facendo la loro stessa cosa. Aveva il cuore un po' ovunque, Beat, lo sentiva battere all'impazzata quasi come il fiato pesante di Skippy sbatteva sulle sue spalle, ogni tanto una bestemmia a pochi passi di distanza da lui lo colpiva sul collo sudaticcio. Quanti piani dovevano scendere? Dieci? Quindici? Non era neanche sicuro di dove fossero, niente di quelle scale antincendio riusciva a dargli un indizio, il muro bianco e grigio scorreva troppo veloce di fronte ai suoi occhi per riuscire ad afferrarne qualcosa che non fossero crepe e estintori rosso fuoco. L'avevo detto che era un cattivo presagio! Sputacchiò Skippy alle sue spalle, proprio mentre svoltavano l'ultima rampa di scale e si scontravano con la porta d'acciaio, spalancandola verso l'esterno che dava su un vicolo. L'allarme suonò, percorrendo come una scossa le vertebre di Beat una a una, in tutta la loro lunghezza. Di qua! Strattonò l'amico per la manica, convinto di averla quasi scampata, ma Skippy si liberò scartando di lato, indirizzandogli un fuck you stonato prima di dirigersi di corsa nell'altra direzione. Fece in tempo ad allargare le braccia, Beat, quando con la coda dell'occhio vide il lembo di una divisa dai colori fin troppo famigliari. Allora ingoiò fiato e riprese la fuga, ruzzolando giù per una via finché il piede non si incastrò in qualcosa e il ragazzo perse quasi l'equilibrio, che mantenne per circa i cinque secondi successivi, visto che poi qualcuno lo centrò in pieno, atterrandolo. - Ehi ehi- scheisse mann! Con la guancia contro l'asfalto, Beat smise quasi subito di fare resistenza, il ginocchio di qualcuno piantato al centro della schiena e il braccio torto all'indietro. -Ok ok mi arrendo, vacci piano amico, così può bastare. - Disse con una smorfia di dolore, la mascella contatta all'inverosimile. Faceva un male cane. La persona si chinò su di lui allentando la pressione del ginocchio fra le scapole, e allora un ciuffo di capelli lunghi gli sfiorò la guancia mentre si rimetteva in piedi, i polsi ora ammanettati dietro la schiena. -Debbie?! - Voltava il collo, Beat, ma solo quando fu di nuovo in posizione eretta riuscì a girarsi col corpo e ad avere conferma delle sue preghiere. -Debs! Sono felice di vederti, ti trovo bene! Ti avrei chiamata uno di questi giorni per berci un caffè, ci credi? È da troppo che non ci vediamo, dobbiamo raccontarci un sacco di cose. Quel caffè? Andiamo ora, che dici?- Le sorrideva, la guancia e il mento un po' arrossati lì dove avevano sfregato contro l'asfalto. Si girò appena, porgendo verso di lei le mani coi palmi stretti e all'insù per via delle manette, uno speranzoso tentativo di farsi liberare seduta stante. In fondo si conoscevano da una vita, loro due, sapeva che Beat non era il peggiore dei criminali di Besaid. Non era neanche uno di qullii se è per questo, si limitava a mettere musica troppo alta al Bolgen, a qualche violazione involontaria di proprietà privata durate gli allenamenti e a un uso personale e "modesto" di stupefacenti. Insomma, un bravo cittadino. Pensò velocemente a quali accuse volessero buttargli addosso per averlo placcato a quel modo. In che diavolo di edificio avevano fatto trespassing? Gli venne in mente che, se non se la fosse cavata così, gli avrebbero trovato certe pillole e un po' di fumo addosso. Abbandonò le braccia sulla schiena, piegandosi un po' all'indietro per riprendere fiato e stirare le vertebre. Socchiuse gli occhi mordicchiando il labbro inferiore, la bocca ora una linea piatta sotto gli occhi seri dell'amica di infanzia. -Quanto sono grossi i guai in cui mi sono cacciato, Debs?- Double scheisse. Si guardò intorno con gli occhi un po' vacui, come se cercasse qualcuno che non era Skippy. -Dimmi almeno che Al non è qui.- Si sarebbe messo a pregare in tutte le lingue del mondo, davvero, pur di non dover affrontare il fratello in quel momento.
     
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    Continuava a ripeterselo Deborah mentre correva, per cercare di sciogliere i nervi. Aveva smesso di recarsi al parco per correre, lì dove lei e Taylor si erano incontrati la prima volta e si erano dati appuntamento per quelle successive. Si era tenuta lontana da qualunque posto potesse riportarle alla mente il suo volto e alcuni ricordi di loro, insieme. Bastava un momento di distrazione per sentire di nuovo lo stomaco stringersi in una morsa e la voglia di prendere il telefono per contattarlo e assicurarsi che lui stesse bene. Erano diverse settimane oramai che non si sentivano, anche se finalmente aveva trovato la forza di dirgli che non erano le rivelazioni che lui le aveva fatto ad averla allontanata, ma qualcosa di molto più pericoloso e difficile da accettare. Non voleva trascinarlo nella spirale negativa in cui lei era andata a infilarsi da quando aveva iniziato a scavare nel caso dei suoi genitori. Sentiva di essere vicina a delle risposte, le persone che li avevano minacciati dovevano lavorare per gli stessi che avevano organizzato l’incidente stradale in cui i coniugi Hagen avevano perso la vita. Aveva smesso di sperare di poter dimostrare che non era stato un semplice caso, di poter mandare i colpevoli in carcere, ma voleva almeno ottenere delle risposte, sapere che cosa era successo davvero e perché li avevano voluti morti. Aveva bisogno di chiudere quel cerchio per poter andare avanti con la sua vita, per gettarsi tutto alle spalle e finalmente ricominciare. Eppure, qualcosa le diceva che non sarebbe comunque stata soddisfatta, neppure in quel caso. Dopo tutti quegli anni, dopo tutte le domande e le ricerche, forse nulla avrebbe potuto colmare quell’assenza, il vuoto che aveva continuato a scavare al suo fianco, affinchè nulla riempisse.
    Si era sempre guardata attorno con circospezione da quando aveva iniziato quella sua personale crociata, eppure nelle ultime settimane il suo nervosismo era aumentato vistosamente. Bastava un rumore a farla sussultare ed estrarre la pistola che portava sul fianco mentre era in ricognizione. Molti suoi colleghi le avevano chiesto se andava tutto bene, se ci fosse qualcosa di cui voleva parlare, ma si era sempre chiusa nei suoi silenzi, minimizzando il tutto con qualche sciocca battuta tratta dai film, come aveva sempre fatto. Cercava di fingere che tutto fosse normale, che nulla fosse cambiato, ma non ci riusciva. Continuava a sentirsi osservata, anche se quella macchina dai vetri scuri non si era più fatta vedere da quando quei tizi avevano raggiunto lei e Taylor per minacciarli. Di quelle persone non ricordava altro che la voce, filtrata appena dai passamontagna che avevano tenuto sul volto per tutto il tempo. Non era semplice riconoscere qualcuno dalla voce, non si poteva inserire un ricordo all’interno di un database e utilizzarlo come traccia audio. Poteva solo ascoltare ogni passante della città con estrema attenzione, ma sapeva che la sua memoria nei giorni si sarebbe fatta via via sempre più falsata e allora chiunque sarebbe assomigliato a quegli uomini, anche se con loro non aveva nulla a che fare. Ci aveva provato però, i primi giorni, incapace di arrendersi senza almeno provare. Poi aveva iniziato a tenere un profilo basso, più del solito, anche se il sangue le ribolliva nelle vene. Un po’ di palestra o magari tirare qualche pugno contro un sacco da boxe le avrebbero fatto bene, invece continuava a correre e a correre, sperando che questo bastasse a farle schiarire la mente. Doveva cercare di riprendersi, di ricominciare a pensare lucidamente, oppure sapeva che avrebbe finito con il combinare qualche sciocchezza. Faceva persino fatica a dormire, ricontrollava la porta e tutte le finestre più e più volte, per verificare che fossero ben chiuse e che nessuno potesse coglierla di sorpresa nel cuore della notte e poi, quando finalmente riusciva a infilarsi sotto le coperte, trascorreva ore a fissare il soffitto. Pensava a Taylor, alla paura che provava per lui. Stava bene? Gli era accaduto qualcosa? Quanto ancora sarebbe andata avanti quella storia?
    Accelerò il passo, lasciandosi andare ad un respiro molto rumoroso mentre cercava di scacciare tutti quei pensieri che continuavo a susseguirsi senza sosta. Doveva stargli lontana, era la cosa giusta da fare, non poteva cedere. Guardò l’orologio, aveva solo un’ora prima di entrare in servizio, doveva darsi una mossa.

    Sbuffò mentre aspettava che il pivello che gli avevano assegnato quel giorno si decidesse a raggiungerla nel parcheggio della Centrale. In tutti quegli anni aveva sempre apprezzato avere a che fare con i nuovi arrivati, essere una guida per loro nel primo periodo, mentre quel giorno avrebbe solo voluto tenersi lontana da tutto e da tutti. Si scostò dalla macchina soltanto quando lo vide arrivare, stretto nella sua divisa, con un sorriso appena accennato sul volto mentre la guardava con aria un po’ preoccupata. Lo fissò, squadrandolo con una certa attenzione. -Se mi fai aspettare di nuovo ti faccio trascorrere il resto del mese in ufficio. Sono stata chiara, Briggs? - domandò, mantenendo lo sguardo su di lui solo per pochi istanti, prima di salire al posto di guida. L’altro si precipitò all’interno del veicolo, troppo euforico all’idea di poter affrontare finalmente la sua prima uscita per farsi smorzare l’entusiasmo da lei. Si prospettava una serata tranquilla da quanto le aveva detto il suo capo. Avrebbero dovuto controllare un palazzo nei pressi della periferia, un vecchio edificio abbandonato all’apparenza, ma che da qualche ricerca era risultato essere un luogo di incontro per alcuni scambi di droga. Erano settimane ormai che i loro sospettati non si facevano vedere e avevano quindi pensato che fosse il momento buono per andare a dare un’occhiata, alla ricerca di qualche prova. Non si sarebbero portati dietro un novellino per qualcosa di più serio, ma quello era solo un controllo di routine, anche se aveva chiesto alla squadra di prestare attenzione a ogni più piccolo dettaglio. Erano in quattro, per potersi coprire le spalle in caso ci fosse stato qualche ospite indesiderato, tutti divisi in coppie. E ci sarebbe stato un elicottero a sorvegliare la zona, per dare loro le prime indicazioni e anche per offrire copertura se le bande fossero arrivate. Le dispiaceva che non ci fosse Ali con lei quel giorno, anche se due musi lunghi sarebbero stati troppi in un’auto sola.
    Mantenne il silenzio per tutto il viaggio, osservando la strada dritta davanti a sé. Osservava ogni auto e ogni persona come se fossero stati pericolo, malgrado si sforzasse di non farlo. Poteva stare tranquilla, se avesse avuto qualcosa da temere era sicura che Eden avrebbe trovato il modo di dirglielo, la avrebbe aggiornata. Era quel pensiero che usava per concentrarsi e inspirare a fondo. Eden, il collega per cui aveva avuto una cotta per anni e che ora invece era l’uomo per cui batteva il cuore di Mia. Ancora non aveva avuto modo né il tempo di occuparsi anche di quel problema. Accostò poco distante dall’ingresso, scendendo dall’auto insieme a Jordan. Conosceva il nome dell’uomo anche se evitava di usarlo per creare un clima un po’ più distaccato tra di loro. I sei agenti si rivolsero un cenno con il capo, rimanendo in silenzio, dividendosi i vari ingressi al piano terra. Lei e Jordan presero le scale di emergenza e iniziarono a salire piano per dare un’occhiata sul tetto. Il rumore dell’elicottero rendeva tutto molto più ovattato, quasi distante. Poi si spostò lentamente, muovendosi per il quartiere, così da avere un’immagine più chiara di tutta l’area. Li ringraziò mentalmente, con il mal di testa che aveva quel giorno sarebbe stato impossibile concentrarsi con quel baccano. Fece giusto in tempo ad affacciarsi verso il tetto che qualcuno la richiamò alla radio dando l’allarme. -A tutte le unità! A tutte le unità! Sospettati all’interno! - disse McAdams, piuttosto turbato, per poi iniziare a correre, dimenticandosi persino la radio accesa. Debbie guardò velocemente sul tetto, non riuscendo a individuare nessuno, poi guardò Briggs. -Tu, con me. Non ingaggiare, non sparare a meno che non sparino per primi. Se vedi qualcuno usa la radio. - ordinò, per poi iniziare a scendere di corsa le scale, scavalcando da una rampa all’altra una volta giunta alla metà degli scalini per fare più in fretta. Atterrò finalmente sul marciapiede, notando qualcuno voltarsi appena verso di lei, per poi iniziare a scappare lungo una stradina un po’ stretta. Accelerò, indicando al suo partner di quel giorno di prendere una strada leggermente diversa, così da bloccarlo più avanti se lei non fosse riuscita a fermarlo. Era veloce, ma non aveva intenzione di lasciarsi battere così, non quel giorno. Approfittò quindi di un momento di incertezza del ragazzo per raggiungerlo e cercare di neutralizzarlo, accompagnandolo verso il pavimento, stando attenta a non tenere il corpo troppo vicino a lui, così che non potesse colpirla. Lo sentì pronunciare qualcosa in una lingua che sul momento non riuscì a riconoscere. -Che cosa stai dicendo? - mormorò quindi, un po’ scocciata, mentre teneva un braccio di lui piegato dietro la schiena e un ginocchio su di essa per impedirgli di alzarsi o muoversi. Cambiò linguaggio, chiedendole di arrendersi. Fu la smorfia di dolore sul volto di lui a farle allentare leggermente la presa. Forse era stata un po’ troppo irruenta, forse stava iniziando a fare quella serie di errori che aveva temuto. Ammanettò i suoi polsi prima di spostare definitivamente il ginocchio e aiutarlo a rialzarsi. Non si era ancora concentrata sul suo viso, troppa presa dal chiedersi se gli avesse davvero fatto male quindi il suo nome, pronunciato dal ragazzo, fu come una secchiata d’acqua gelida sul volto. Mosse un leggero passo indietro, mentre continuava a stringere un braccio di lui con la mano e ascoltava i suoi tentativi di farsi liberare e andare a prendere un caffè insieme, come ai vecchi tempi. -Beat, che diavolo… - iniziò, prima che la voce di un altro collega la raggiungesse dal fondo della stradina, mentre l’uomo si muoveva verso di loro. -No, non rispondere, non dire niente fino a che non arriviamo in centrale. - disse ancora, spostando il braccio sulla sua spalla per invitarlo a voltarsi e dare le spalle al collega. Ci aveva davvero pensato, per un momento, a fargli qualche domanda veloce e lasciarlo andare, se soltanto non fossero stati raggiunti così in fretta. -Dipende. Spero davvero che tu non abbia nulla a che fare con questa storia. - mormorò, abbassando il tono della voce perché l’altro collega non potesse sentirla, mentre Beat di guardava indietro. -No, non qui, ma credo che a quest’ora ormai sia arrivato in centrale. - disse, per poi avvicinarsi a lui, facendogli da scudo mentre lo nascondeva agli occhi degli altri. -Questo lo prendo io, abbiamo un conto in sospeso da anni. - pronunciò quelle parole senza sapere neppure lei che cosa stava dicendo. Voleva solo trovare una scusa plausibile per evitare che finisse nelle mani di qualcuno che sicuramente non ci sarebbe andato piano. Walters lasciò che un lungo fischio fuoriuscisse dalle sue labbra, per poi ridere. -Ultimamente i tuoi ex spuntano come funghi Hagen. - la prese in giro e lei stirò le labbra in un sorriso finto, cercando di mostrarsi divertita davanti a quella stupida battuta.
    Lo lasciò passare avanti, trattenendo poi il corpo di Beat per avvicinarsi al suo orecchio. -Niente colpi di testa. Rispondi alle domande che ti farò in centrale e se davvero questa faccenda ti riguarda allora chiedi un avvocato. - consigliò, per poi lasciarlo andare e condurlo verso la sua vettura. Improvvisamente tutti gli altri suoi pensieri erano svaniti, sostituiti dalla preoccupazione per il ragazzo. Era uno dei fratelli adottivi di Mia, lo conosceva da quando era al liceo e non riusciva proprio a credere che lui potesse avere qualcosa a che fare con quel grosso giro di droga. -Se hai un’arma con te dimmelo ora e evita che sia qualcun altro a trovartela addosso.

    Beat venne fatto sedere nel sedile posteriore dell’auto e Debbie e Jordan rimasero in silenzio per tutto il tragitto. Era ancora più nervosa e preoccupata di prima e mantenne il fiato sospeso per tutto il tempo quando, dentro l’edificio, due suoi colleghi iniziano a perquisirlo per controllare che non avesse con sé delle armi o della droga. Lo condusse quindi dentro una sala interrogatori, lanciandogli una lunga occhiata prima di aprire la porta e accompagnarlo verso una sedia, i polsi ancora stretti tra le manette. Espirò rumorosamente prima di prendere posto davanti a lui, andando a intrecciare le mani. Jordan si sedette accanto a lei, spostando lo sguardo dall’uno all’altro, senza dire nulla. -Che cosa ci facevi in quell’edificio?- domandò, ora più apertamente, facendosi incredibilmente seria. -Conosci Little T? - chiese ancora, poco dopo, prima ancora che potesse rispondere, così da fargli capire velatamente dove volessero andare a parare, anche se ancora non poteva fargli quella domanda diretta. L’uomo che aveva citato era un noto trafficante della città, un pesce ancora non troppo grande, che aveva però iniziato a stringere degli accordi pericolosi.
     
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    Non poteva negare che ci fossero persone più meritevoli di lui, più buone, più per bene, persone con un lavoro d'ufficio, timbra tesserino all'entrata timbra tesserino all'uscita, individui che a ventotto anni tenevano le tasse in ordine e le bollette etichettate non solo per anno, tipologia e fornitore, ma per trimestre, mese e giorno; a lui erano invece erano già due le volte che quel mese gli staccavano la corrente, non perché non volesse pagare ma perché dimenticava di farlo, sorbendosi poi le strigliate di Paul o i suoi urli quando da sotto la doccia lo chiamava perché, ancora una volta, aveva consumato tutta l'acqua calda dell'appartamento. Non si faceva, era una testa di cazzo (una pulita e profumata testa di cazzo), ma non si considerava poi una brutta persona. Fumava un po', tanta nicotina e ancor più la dolce maria, si drogava anche in eccesso, faceva sesso, tanto, ma sempre protetto e mica era un crimine comunque, no? Le persone cattive erano altre, erano quelle che ammazzavano la gente, i creditori, i fighettini della Besaid bene e, nessuna offesa per i presenti, anche certi poliziotti con cui aveva avuto a che fare. C'erano persone migliori di lui, okay, ma da lì ad arrivare a trattarlo come un fottuto terrorista no eh. "No Debs, che diavolo lo dico io... Sei agenti?! Fai sul serio? Sarebbe lusinghiero se solo avessi la più pall---" L'aveva spifferato tutto a bassa voce, interrotto però dall'altro agente che ormai era a pochi metri da loro, un paio al massimo. Con le braccia forzate dietro al busto le scapole quasi si toccavano, mentre i polsi rimanevano costretti dentro a manette leggere ma strettissime, tanto da sentire la pelle già irritata sul dorso. Si fece voltare sentendosi alla pari di un bambolotto di pezza, e lo sguardo che lanciò all'amica non era dei più contenti. Potevano considerarsi, tra l'altro, ancora amici? Non ci avrebbe giurato poi tanto, visto il trattamento. Strusciò le suole delle nike sull'asfalto mentre, le spalle all'agente, guardava Debbie negli occhi decidendo di obbedirle e starsene zitto che era meglio così. Intanto, la mente di Beat accelerava come pochi minuti prima avevano fatto i suoi passi, correndo alla ricerca di una motivazione valida per tutto quel trambusto, che proprio non poteva credere che fosse per violazione di proprietà. Possibile? E cos'era, la casa bianca? Pensò alzando il mento verso l'edificio, gli occhi socchiusi contro i timidi raggi del sole mentre aspettava, chissà da chi, una risposta al suo pensiero. Una piccola ruga al centro degli occhi accentuò la curva nasale di Beat, che stava pensando a quanto poco potesse permettersi di finire in galera un'altra volta, sopratutto ora che Debbie gli aveva detto cosa ci fosse ad aspettarlo lì: suo fratello Ali. Mai che fosse impegnato a salvare la terra quando serviva a lui, per carità, perché sebbene i Bryne non potessero definirsi la famiglia più unita di Besaid, il loro legame era qualcosa che Beat non aveva mai messo in dubbio, e non gli faceva piacere deluderli ancora ancora e ancora. Avvertì la presenza dell'agente dietro le sue spalle un attimo prima di sentirlo parlare e dire una di quelle cose che, dirette ai suoi amici, gli davano un fastidio boia. Difatti girò il collo per cercare di inquadrare il colosso e seguirlo con lo sguardo mentre lo affiancava per superarlo, e la mascella di Beat si serrò duramente un attimo prima di separare le arcate per dire quella stronzata e, insieme, mettersi ancora più nei guai. "Ah ah geloso, Hulk? Arschloch." testa di cazzo. Il pugno arrivò dritto sullo zigomo, dove le nocche dell'ultimo degli avangers si schiantarono lasciando un paio di escoriazioni rossastre. Come mi hai chiamato? Col viso di lato, Beat sputò saliva e sangue per terra, tirando poi su col naso e accennando un mezzo sorriso. "Intendi Hulk o testa di cazzo? Che poi letteralmente è loch, buco, e arsch, culo. Buco di culo." L'aveva detto alzando la testa mentre faceva un passo in avanti, mossa che per fortuna Debbie contrastò con il suo peso per tirarlo indietro e frapporsi tra loro, maledicendo entrambi come era giusto che fosse. Mal volentieri il tizio passò oltre dirigendosi verso la propria vettura, lasciando a Debbie il tempo di cazziare Beat ancora un po'. Alla parola avvocato, Beat sollevò gli occhi al cielo schioccando le labbra per lasciare intendere che, quella, era una follia. Non è che stesse sul lastrico, ma la sola idea di dover fare i conti con tribunali e avvocati lo rendeva nervoso, e la prima persona che pensò di chiamare fu Paul: lui avrebbe saputo cosa fare. Da quando aveva perso prima Jan e poi Lys, niente era stato più lo stesso per Beat, che sembrava aver smarrito completamente la rotta per dedicare invece la sua vita all'insegna della sregolatezza, senza controllo alcuno. A conti fatti però, quella sua nuova esistenza era meglio dei tre mesi subito dopo il funerale, che oggi avrebbe descritto come novanta giorni di niente, che poteva essere il titolo di un film davvero deprimente. Era stato Paul a salvarlo dal vuoto delle lenzuola in cui si era arrotolato, un intrico così profondo di finto cotone e tristezza che quasi ci era affogato, lì dentro. Con la calma conferita dall'età, il migliore amico gli aveva teso una mano che, una volta afferrata, Beat non aveva più lasciato andare, per questo ogni volta che c'era un problema sapeva di poter contare su di lui. "Ma per chi mi hai preso? Al massimo addosso mi trovi un paio di corone e qualche grammo di fumo." Iniziò abbassando al minimo il tono di voce e accostando la testa a quella di Debbie. "Diciamo qualcosa di più di qualche grammo." Non l'avrebbero messo in gattabuia per quello, no?

    Sul sedile posteriore di un'auto della polizia, Beat stava sudando perché, tra il caldo e la situazione, stava anche cercando di recuperare il tocco di fumo prima del loro arrivo in centrale visto che, a occhio e croce, superava i 15g considerati per uso personale e per cui i trasgressori venivano quasi sempre puniti con delle semplici multe. Qualunque cosa al di sopra di quel peso veniva considerato spaccio, e lui era fottuto. Si tirò in avanti con le ginocchia puntate nel retro del sedile di Debbie e il busto proteso, mentre le dita cercavano di raggiugnere la tasca posteriore dei jeans senza che le manette la rendessero una facile impresa. Che stai facendo? Grazie al cielo con loro c'era un tizio che aveva tutta l'aria di essere nuovo lì intorno e che immaginava essere torturato da tutti peggio degli stagisti, quindi non forniva la stessa minaccia per lui che, impegnandosi, poteva aggirarlo parlando. "Mal di stomaco. " Le dita intanto erano arrivate a stringere la bustina, ma tirarla fuori in quella posizione non era la cosa più semplice del mondo. Mettiti bene, dritto. Lo "stagista" cercò di fare il tono cattivo, ma Beat finì per poggiare la fronte contro la grata di metallo che lo divideva dagli agenti. Ho detto fatti indietro. "Se non sto così vomito, e non volete doppio kebab con salsa yogurt, pomodori, insalata, formaggio e chilli nella vostra macchina, vero?" L'idea di un simile spettacolo parve far tacere Jordan, anche se Beat poteva sentire gli occhi di Debbie penetrarlo dallo specchietto retrovisore. Cosa poteva farci, lui, se stavano incastrando la persona sbagliata? Doveva tutelarsi, e far sparire quella bustina era l'unico modo per uscire davvero pulito da quella faccenda. Non riuscì a reprimere un sorriso quando sentì l'oggetto al sicuro fra l'indice e il medio, Debbie che nello specchietto non gli toglieva gli occhi di dosso. Sorprendente come non si fossero ancora schiantati contro qualche auto o aiuola. Piegando il più possibile i gomiti, Beat riuscì a infilare il fumo oltre la cintura e giù nelle mutande, precisamente appiccicato alla chiappa sinistra. Solo allora si tirò di nuovo indietro, i muscoli delle spalle doloranti per la scomoda postura mentre raddrizzava la schiena e allungava il collo: sentiva di avere tutto sotto controllo.

    -Che cosa ci facevi in quell’edificio?- Dal sedile era passato a una sediaccia di plastica, ce l'avevano buttato sopra dopo averlo perquisito superficialmente dimenticandosi di controllargli le mutande. La stanzetta era stretta, quasi claustrofobica, e aveva ancora i polsi ben assicurati nelle manette, una trappola che per uno come Beat equivaleva letteralmente alla morte. "Io, onestamente, saltavo." Le rispose, la faccia aveva perso il divertimento iniziale per lasciare spazio a una più solida serietà, anche se quella situazione e la sua risposta facevano letteralmente ridere tanto erano assurde. "C'è questa cosa che facciamo ogni tanto, sono acrobazie e salti fra un palazzo e l'altro. Si chiama parkour, googlalo pure. Ce l'avete google in Norvegia no?" Accennò col mento al telefono che uno dei due aveva lasciato sul tavolo, in mezzo a loro, mentre si piegava indietro col busto per lasciarsi andare in un lungo sospiro, leggermente scoglionato. " Wer? Chi?" In quel momento Jordan si alzò per andare ad aprire la porta a qualcuno che al di là aveva bussato, sparendo così un attimo alla loro vista, tregua che lasciò a Beat il tempo di un respiro. Si affrettò a sporgersi in avanti, il busto così vicino al tavolo che il petto quasi ne sfiorava la superficie liscissima. Respirava un po' più velocemente del normale. "Debbie, mi spieghi che cazzo sta succedendo? Little T? Sembra il nome di un mafioso e io non sto in certi giri, lo sai. Organizzo party spinti e faccio un tiro quando posso, OK, ma non me ne vado a zonzo a freddare gente come fossi Don Vito Corleone. Scheisse, siamo praticamente cresciuti insieme, mi conosci." La porta si riaprì di botto, e Hulk la riempì tutta con la sua prepotente stazza. Allora Beat si raddrizzò, le gambe allungate in avanti e la faccia di chi è davvero preoccupato per la sua incolumità ma che, nonostante ciò, si appresta a dire comunque una grande stronzata. "AH! Hulk è tornato! Sei qui per togliermi le manette? Ti serve aiuto a trovare il buco del tuo culo? Con quella stazza non deve essere fac---" Il pugno che si abbatté sul suo viso fu molto più forte di quello di prima, quando nel parcheggio Beat l'aveva già insultato una volta prendendoci le botte. Fu così forte che sentì qualcosa scricchiolare, forse era la sedia ma più probabilmente qualche osso, e il sapore del sangue affluì ferroso fra i suoi denti. Faresti meglio a rispondere onestamente, piccolo stronzo. Conosci Little T? Sai dov'è? Serrò i muscoli, Beat, tornando a sollevare la testa che il colpo aveva spinto con forza di lato, per guardare il tizio negli occhi. "No. Nein. Ero lì sopra per saltare, non so di che cazzo state parlando." Passò allora con lo sguardo su Debbie, incredulo che potesse davvero crederlo capace di una cosa del genere. "Ho diritto a una chiamata, avete presente il diritto penale si? Pure un "potente criminale" tedesco come me sa che quello che sta succedendo qui non è propriamente legale." Ironizzò lui, sentendosi del tutto fuori controllo. "Ali sa che sono qui?" Si rivolgeva sempre e solo a Debbie, lasciando Hulk a cuocere nel proprio brodo. A quel punto preferiva affrontare il fratellastro piuttosto che venire imputato per chissà quale crimine si pensavano che avesse mai commesso.

    Edited by Dead poets society - 16/5/2021, 13:07
     
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    Tra tutti gli individui che Debbie si sarebbe aspettata di incontrare quel giorno Beat non era certo sulla lista. Era da qualche tempo che non si vedevano, anni ormai che non si frequentavano spesso come quando stava dai Bryne, eppure era sicura che lui non dovesse essere cambiato molto. Non tanto da avere una buona motivazione per essere in quel posto in quel momento, quanto meno. Se si fosse messo in un brutto giro di certo Mia lo avrebbe saputo e lei di rimando. Invece l’amica le parlava sempre in maniera tranquilla di quel suo fratello adottivo. Doveva quindi esserci una spiegazione, anche se a lei in quel momento sfuggiva e proprio non sapeva come uscire da quella situazione. Serrò quindi la mascella quando l’altro, sottovoce, si lamentò di tutto quel casino, come se fosse stato tutto un malinteso, come se non ci fossero davvero motivi per loro di essere lì. Il problema era che Beat si sbagliava. -Beat, per favore, resta in silenzio e non attirare l’attenzione. - gli sussurrò, mentre continuava a farlo avanzare, cercando di tenerlo stretto a sé per evitare che finisse nella mani di qualcun altro. Non tutti sarebbero stati altrettanto disposti a sentire che cosa aveva da dire. Qualcuno lo avrebbe semplicemente sbattuto in cella senza sentire ragioni, altri lo avrebbero picchiato fino a che non fossero riusciti a ottenere la confessione che volevano, altri ancora chissà che cosa avrebbero fatto. Lei, invece, aveva persino dimenticato quali fossero i pensieri che l’avevano tenuta sveglia per giorni, tale era la concentrazione con cui, in quel momento, cercava di capire come interrogare Beat senza troppi problemi. Che cosa avrebbero detto Mia e Ali se lo avessero saputo? No, era decisamente molto meglio che Ali non lo venisse mai a sapere.
    Fu inutile tentare di fermare l’amico prima che rispondesse all’agente che li aveva affiancati, uno di quelli con cui Debbie non era mai andata troppo d’accordo, ma che era costretta a sopportare. Prese un profondo respiro, sapendo già come sarebbe andata a finire, quando il ragazzo utilizzò epiteti che Walters non gli avrebbe certo lasciato passare. Un pugno arrivò dritto sullo zigomo di Beat senza che lei riuscisse a fermare il collega o allontanare il ragazzo in tempo. Un verso seccato lasciò le sue labbra. Aveva così tante cose per la testa in quel momento, dovevano proprio mettersi anche a litigare? -Basta voi due! - disse quindi, seccata, alzando il tono della voce affinchè entrambi potessero sentirla forte e chiara, mentre si metteva in mezzo tra i due. -Non siete più dei bambini. - continuò, anche se non era proprio sicura che quella fosse la verità. Quando Walters li superò Debbie si fermò a guardare Beat dritto negli occhi, lo sguardo più serio che gli avesse mai rivolto da quando si conoscevano. -Questo non è un gioco Beat. E’ una cosa seria, molto seria. - cercò di redarguirlo, sperando così di fargli tornare un po’ di serietà. -Sto cercando di aiutarti, ma tu stai rendendo la cosa molto difficile. - aggiunse, chiudendo gli occhi per un istante e prenderlo un lungo respiro. Fu allora che gli consigliò di chiamare un avvocato, in caso avesse qualcosa a che fare con le persone che stavano cercando. -Fallo sparire allora. - gli consigliò, trattenendosi per un istante molto vicina a lui. -Meglio che nessuno lo sappia. - aggiunse, per poi allontanarsi di nuovo e guardare altrove, fingendo di non aver detto nulla. Qualche grammo di fumo non lo avrebbe incriminato, ma era comunque meglio evitare, per quanto possibile, di dare ai ragazzi in centrale qualcosa per trattenerlo.
    Aprì la portiera del passeggero, facendo salire Beat e poi si recò al posto di guida. Aveva creduto che quella sarebbe stata un’altra delle tante giornate noiose che si erano susseguite negli ultimi mesi e invece eccola lì, intenta a trovare un modo di aiutare l’amico a uscire da quel casino. Non voleva neppure pensare che lui potesse essere all’interno del gruppo di spacciatori a cui davano la caccia ormai da quasi un anno, ma doveva quanto meno chiederglielo e analizzare le sue risposte, per essere sicura di non prendere una decisione dettata soltanto dall’affetto che provava nei suoi confronti. Le emozioni non erano mai state il suo forte. Persino con Mia o con Theo le veniva difficile dimostrare quanto tenesse a loro, chissà se Beat lo aveva mai capito, chissà che cosa stava pensando in quel momento mentre lei si sforzava di cercava di fare il suo lavoro, nonostante tutto. Fu la voce del suo collega a riportarla nell’abitacolo dell’auto. Chissà per quanti minuti aveva guidato concentrandosi soltanto sulla strada e sui suoi pensieri, ignorando qualunque cosa stesse accadendo attorno a lei. Guardò nello specchietto retrovisore, notando che il ragazzo si era piegato in avanti, verso il suo sedile, poteva persino sentire le sue ginocchia puntate verso la sua schiena in quel momento. Jordan continuò a riprenderlo, cercando di farlo sedere dritto, ma l’altro iniziò a tirare fuori delle scuse mirabolanti che, se non fossero stati in quella situazione, l’avrebbero senz’altro fatta ridere. Aveva sempre apprezzato quel suo modo di fare un po’ sopra le righe, la battuta sempre pronta. Era impossibile trovarlo senza risposte o, quanto meno, molto difficile. -Lascialo stare Jordan. - disse soltanto, dopo diversi minuti, rivolgendo una leggera occhiata in direzione del collega, senza tuttavia spostare lo sguardo dalla strada. -Ma.. Detective Hagen, credo che ci stia prendendo in giro. - rispose l’altro, tentando di abbassare la voce perché il ragazzo non potesse sentirlo. Fai bene a crederlo, è la verità. Pensò lei, ma non lo disse a voce alta. -Non è armato, ho già controllato, e ora lasciami guidare in pace. - terminò. Jordan era nuovo, era il suo primo arresto e probabilmente temeva che Beat stesse cercando un modo di sfilare una pistola e freddare entrambi, senza pensarci. Lei, invece, riteneva che stesse solo cercando un modo di diminuire i suoi guai, sempre che fosse possibile. Beat se lasci quella roba in macchina io ti prendo a calci. Fu quello il pensiero che le sfiorò la mente mentre, rivolgendo ora lo sguardo all’amico dallo specchietto retrovisore, sembrava volerlo fulminare o invitare a muoversi e tornare seduto tranquillo.

    Scortò Beat nella zona dove lo avrebbero perquisito e da lì verso la sala interrogatori. La tranquillità con cui rispose alla sua prima domanda la lasciò quasi di stucco. Saltava. Sembrava quasi assurdo sentire una cosa come quella, quando loro avevano appena perso l’occasione di arrestare un’intera gang. Lo sguardo di Debbie si fece più seccato quando l’altro fece quella sciocca battuta su Google, come se non la conoscesse affatto. -Sappiamo cos’è il parkour. - rispose quindi, con la mascella serrata, guardandolo dritto in volto. Era impossibile cambiare Beat eppure le sarebbe piaciuto poterlo vedere molto più serio, almeno quella volta. Bussarono alla porta e Jordan si mosse verso di essa per parlare con qualcuno dall’altra parte. -Un trafficante di droga Beat. - spiegò, velocemente, a bassa voce, mentre l’altro cercava di capire chi fosse quel Little T e che cosa stesse accadendo. Si era accidentalmente dimenticata di accendere il registratore, dall’altra parte della stanza, prima di entrare. -Dovevamo arrestarlo, era una retata. Dovevi proprio trovare la giornata giusta per saltare, cazzo. - continuò, scuotendo il capo con aria seccata. Certo che lo conosceva. -Sai che non potevo far finta di.. - cercò di spiegare, ma la porta si aprì di scatto, lasciando la sua frase a metà. Walters percorse la piccola stanza con ampie falcate e Beat non si lasciò sfuggire l’occasione per riprendere il loro battibecco da dove era stato lasciato. Un nuovo pugno si abbatté sul volto del ragazzo, ben più forte di quello che gli aveva assestato prima. -Walters! - lo riprese quindi lei, che non aveva mai apprezzato quei metodi di interrogatorio. Il collega la guardò con un’espressione scocciata, quasi un grugno, per poi ripetere al ragazzo la stessa domanda che gli aveva posto lei poco prima. Ripetè quasi le stesse parole che aveva detto a lei e allora Debbie mimò con le labbra un “telefonata” che Beat parve cogliere, visto che iniziò a chiedere dei diritti. Tirò un sospiro di sollievo. Aveva ragione, non era del tutto legale che lui parlasse senza essere assistito, ma ci provavano sempre.
    Scosse la testa alla domanda su Ali. Aveva preferito non informarlo, ma forse a quel punto sarebbe stato meglio. -No, non ancora. - rispose quindi, mentre il collega la guardava, cercando di capire per quale motivo il ragazzo chiedesse di Bryne. -Walters, vai a cercare Bryne. Digli che suo fratello è qui. - aggiunse quindi, notando un sorrisetto comparire sulle labbra del poliziotto. Se c’era una cosa che adorava era dare fastidio ai suoi colleghi, quindi davanti alla possibilità di prendere in giro Ali per la faccenda neppure replicò. -Questa sì che è bella. - borbottò quindi, ridacchiando, lanciando una lunga occhiata in direzione di Beat, come a suggerirgli che in ogni caso non sarebbe uscito bene, colpevole o meno. Attese che uscisse prima di alzarsi anche a lei e raggiungere Beat. -Ti accompagno a fare la tua telefonata. - spiegò, mentre sganciava le manette dal tavolino che aveva di fronte, aiutandolo poi ad alzarsi e uscire dalla stanza. Una volta nel corridoio lo trattenne per un istante, tirando per la maglietta e facendosi più vicina. -Assicurami che non ne sai nulla e che non fai parte del giro di droga su cui stiamo indagando da mesi. Che la roba che avevi non dovevi venderla per Little T. - riprese a camminare, continuando a tenere il petto attaccato alla schiena di Beat, così da poter parlare al suo orecchio senza che qualcuno lo notasse e si insospettisse. Attese una risposta da parte sua, anche un semplice cenno del capo, prima di continuare. -Chiama qualcuno che possa procurarti un buon avvocato. Farò in modo di accusarti soltanto di violazione di proprietà privata. - spiegò, mentre continuavano a muoversi. Avrebbe potuto scorgere il telefono in lontananza, di fronte a lui. -Il proprietario non si troverà, ti farai una notte in cella ma domani mattina le accuse saranno cadute, se tutto va bene. - disse, dandogli tutte le informazioni che avrebbe potuto condividere con un avvocato, affinchè potesse seguirlo nel migliore dei modi. -Lo so che non sei un criminale Beat, ma oggi eri proprio nel posto sbagliato. - sussurrò alla fine, per poi lasciarlo avanzare di qualche passo in più. Sperava davvero che lui non ce l’avesse con lei, che capisse. -Fai la tua telefonata. - disse, con voce molto più seria e fredda, allontanandosi di qualche passo senza tuttavia lasciarlo solo. Da lontano cercava di fingere di non conoscerlo affatto, di non provare alcun tipo di affetto per lui. Si appoggiò alla parete, rivolgendogli una leggera occhiata. In quel momento tutto dipendeva soltanto da quella semplice telefonata.

    Edited by 'misia - 21/8/2021, 11:13
     
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    Non era la prima volta che sedeva in prigione, Beat, ma di solito vi passava quasi volando, di corsa, arrivava, stava qualche ora e poi ciaone, mai abbastanza prove per incriminarlo. Perché, a dispetto forse delle apparenze, Beat era intelligente e non si faceva mai beccare con le mani dentro qualcosa di troppo grande, nessun guaio non rimediabile con una chiamata o, come gli piaceva credere di potersei vantare, con il suo charme. La sala di attesa, una stanza enorme piena di sedie tipo quelle degli ospedali ma più triste, era un territorio in cui sfrecciava come faceva al Bolgen, solo che al posto delle birre si rimpinzava lo stomaco di caffè delle macchinette automatiche. Uno schifo di cui però non si lamentava. Ma non quella volta no, starsene con il culo spiattellato su una sedia nella sala interrogatori era una novità che, se all'inizio aveva trovato divertente, dopo il secondo pugno di Hulk cominciava a renderlo nervoso. "Ok OK - no sense of humour ho capito!" Si lamentò lanciando uno sguardo aggrottato all'uomo mentre una mano ammanettata si massaggiava il mento, una smorfia di dolore a imbronciarlo tutto. Dovette incurvare il meccanismo schiena-collo per riuscire a raggiungersi con le dita, visto che non solo aveva le mani unite ma era anche ammanettato al tavolo da cui, lui e loro, si fronteggiavano. Gli veniva da sputare ma si trattenne dal farlo. "Sono proprio necessarie?" Mentre raddrizzava le vertebre, Beat fece tintinnare il metallo delle manette contro il tavolino, poi tornò a concentrarsi su Debbie, su quello che gli stava spiegando prima che il colosso rientrasse in stanza e ingombrasse tutto ammaccandogli le ossa. Quella situazione stava iniziando a rasentare l'assurdo e Beat non ci poteva credere. Le iridi chiarissime si fecero più dure anche nel sostare sulla donna mentre gli tornavano in mente tutti i motivi per cui odiava le forze dell'ordine. La polizia non gli era mai piaciuta e manifestava tutto il suo disappunto facendo quel che faceva, reati minori e del tutto insignificanti per qualcuno che cercava grandi spacciatori della criminalità organizzata. Per loro, lui non era niente. Eppure eccoli lì a divertirsi nel calpestare i suoi diritti di buon cittadino norvegese. Ripensò con nostalgia alle scritte ACAB lasciate sui muri con Jan, due scapestrati con bandana e cappuccio a coprire il volto. All cops are bastards. Anche quei graffiti erano spariti, cancellati dal buon senso civico della città o coperti dalla pubblicità di un nuovo fast food. Come Jan dimenticati da tutti. Da tutti tranne che da lui.
    La guardava sforzandosi di vedere la ragazza con la quale era cresciuto ma niente, era quasi invisibile in quel momento, forse perché si trovavano nel suo habitat naturale Beat non riusciva a guardare oltre il ruolo che ricoprivano: lei la legge, lui il criminale. Aveva provato a far breccia nella barriera ma lei aveva parato ogni suo tentativo. Non era più la Debbie adolescente con cui condivideva un pezzo di strada di tanto in tanto. Di fronte a lui c'era un poliziotto e basta o almeno così sembrava, il tavolaccio a dividere le strade opposte che a un certo punto avevano intrapreso. Si passò una mano sulla faccia, i polpastrelli premettero sulle palpebre come a scuotersi. Appellarsi al fratello era la mossa azzardata di un'anima nei casini, un'arma a doppio taglio. Onestamente? Non sapeva di che morte fosse meglio morire. Osservò la ragazza disancorarlo ed aiutarlo verso la porta, ma Beat si scostò quasi subito sfuggendo al suo tocco con un movimento piccolo ma evidente che non le sarebbe sfuggito. Cominciava ad averne abbastanza. Nel corridoio ci fu un attimo per parlare in pace, minuti in cui Debbie non fece altro che insistere come se non gli credesse minimamente. "Te lo giuro sulla vita di Mia. Non so di che cazzo mi state accusando." L'aveva guardata dritto negli occhi, le parole uscivano secche e dirette come proiettili ben mirati. "Ma ora non dirò più niente senza il mio avvocato." Aggiunse. La linea di confine era stata ricalcata. Debbie di là, lui di qua. Ripresero a camminare e intanto Beat pensava che lui un avvocato non ce l'aveva e non poteva permetterselo. Se la sentiva dietro la schiena quasi contro le spalle, gli camminava stretto per continuare a comunicare con lui senza dare troppo nell'occhio. Sembrava volerlo aiutare, ora, ma Beat non si fidava del tutto. Annuì e fu così che Debbie ricevette la sua risposta, una nuca rasata ai lati che si abbassava e tornava ad alzarsi una o due volte, i muscoli del collo tesi come corde di violino. Quando riuscì ad avanzare senza avere il suo fiato sul collo, Beat prese aria nei pressi della parete. Osservò il telefono a muro, una carcassa tristissima. Non se ne vedevano così da anni, per le strade li avevano rimossi quasi tutti, cabine incluse. Il cavo, consumato da centinaia di dita prima di lui, gli ricordò quello che aveva stretta otto anni prima. Dieci secondi era durata la chiamata più difficile che avesse mai fatto. No, non avrebbe chiamato Lys.
    Pensò a Mia cambiando subito idea. L'avrebbe ucciso prima ancora di arrivare in centrale lanciandogli una macumba con il potere che stipava sotto la frangetta compatta. Vee? Si sarebbe fatto arrestare pure lui. In realtà, ancora prima arrivare a pensarlo, sapeva già chi avrebbe chiamato. Era chiaro fin da subito. Era chiaro da sempre, una sola era la persona che non l'avrebbe mai lasciato solo. Lanciò uno sguardo dietro di sé incrociando brevemente gli occhi attenti di Debbie, poi compose il numero portando la cornetta all'orecchio.
    La voce l'avrebbe colto con la fronte contro il corpo del telefono, gli occhi chiusi e le dita della mano libera che attorcigliavano il cavo come tanti avevano fatto prima di lui. "Paul? Sono nei guai."

    La telefonata fu breve, non c'era stato bisogno di dire molto, e riagganciando il ragazzo si voltò per muovere qualche passo verso di Debbie. Si fermò davanti a lei, lo sguardo azzurro era più serio di quanto non fosse stato appena dieci minuti prima. "Qualcuno sta venendo qui, Paul Vesaas, ed è accompagnato dal mio avvocato. " Spiegò muovendo le spalle per sgranchirle. I polsi costretti nelle manette cominciavano a fare davvero male. "Potrebbe volerci un po' perché è fuori città, quindi accetto l'invito di passare una magica notte in questo bel posto. Dammi pure la suite migliore che avete." Scherzava senza ridere più, Beat, che ancora non capiva perché Debbie non lo aiutasse di più. Alzò le mani ancora forzate ad essere unite per grattarsi il sopracciglio con un paio di dita, seguendo poi Debbie lungo dei corridoietti angusti fino alla porta di una stanzina minuscola dove tenevano le persone per brevi soggiorni. "Bè, ti inviterei a passare la notte ma non sarebbe il caso di farti vedere amica di un criminale, no?" Il tono era pregno di duro sarcasmo mentre alzava le sopracciglia, enfatizzando il dispiacere che provava. Non si vedevano più spesso, non parlavano da un po', ma Beat prendeva le amicizie molto sul serio e i loro tradimenti ancora di più. Avanzò lì dentro tirando in fuori le mani per farsele finalmente liberare. Grazie tante. La guardò armeggiare con la chiave. "E ah, quasi dimenticavo -se fossi in te andrei a controllare tra i sedili della tua auto: non vorrei passassi dalla parte opposta della legge per una misera bustina d'erba. " Abbassò la voce e schioccò le labbra massaggiandosi i polsi, andandosi poi a sedere sulla spranga di metallo. Durò poco quella stasi, prima che Beat si alzasse per iniziare a camminare avanti e indietro lungo il diametro invisibile della cella.

    Non ho riletto tesoro scusami çç


    Edited by Dead poets society - 10/1/2022, 19:17
     
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