For blue, blue skies

Fae & Sam / Pomeriggio

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    I’m falling apart, I’m barely breathing. With a broken heart.

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    Strinse le dita contro i palmi delle mani, la pelle bruciò per qualche istante sotto la pressione delle unghie. Aveva preso a compiere quei movimenti da qualche tempo ormai, quasi come se volesse rivitalizzare il pompare del sangue nelle vene, aiutare il cuore con un altro battito, un altro ancora, per difendersi dal pensiero che, forse, molto prima di quanto avesse creduto, quel muscolo di forma ovale che sentiva dentro si sarebbe fermato. Quando allungò nuovamente le dita, gli occhi grigi si soffermarono sulle mezzelune rosa che si era lasciata sulla pelle: uno, due, tre, quattro, cinque... secondi, continuavano a restare lì, Fae ebbe la sensazione d'esser attraversata da un'orda di vermicelli, si sarebbero presi piano piano ogni centimetro del suo corpo fino a farla scomparire, fino a soffocarla dentro una pelle che, fino ad allora, era stata la parte più viva di lei. La vedeva combattere una guerra contro ciò che un tempo non avrebbe mai potuto sconfiggerla, ora invece si sentiva estenuata da una lotta che l'avrebbe sovraccaricata fino a seppellirla. Era quella, la fine che avrebbe fatto? Aveva trascorso una vita intera ad avere paura di restare sola, Fae. Il terrore che accompagnava ogni suo passo sembrava ora esser svanito e, seppur fosse pazzo pensare di dirlo a voce alta, si sentiva sollevata. Sollevata nel sentirsi mortale come chiunque altro, sollevata nel sentirsi finalmente parte di qualcosa, parte di una comunità che un giorno, ora poteva dirlo senza che le tremasse la voce, sarebbe scomparsa assieme a lei per lasciare il proprio spazio ad altri, una generazione che sarebbe giunta e poi, come il destino aveva previsto per ognuno, sarebbe nuovamente scomparsa e quel cerchio avrebbe continuato a girare senza alcuna sosta per anni ed anni ed anni ed anni, finché di Fae Olsen non sarebbe che rimasta una foto, un ricordo, un paio d'ossa sottilissime e qualche frase scritta a penna dentro un diario. E se da un lato c'era quella sovrumana serenità che le aveva permesso di accettare il proprio destino di buon grado, dall'altro c'era lo spreco: il tempo, sprecato; l'amore, sprecato; la vita, sprecata. Aveva la sensazione d'aver chiuso gli occhi due soli secondi ed averli riaperti senza essersi accorta che fossero passati anni. Aveva la sensazione che Iwar fosse arrivato solo qualche giorno prima per sfiorarla e poi, venendo a conoscenza della debolezza di cui ora la pelle di Fae si era fatta carico, era stato investito dalla paura di toglierle via ciò che le restava, ed ecco che anche lui era divenuto quasi un'ombra, un soffio di vento che viene e va, chissà quando torna. Aveva ora però la sensazione più forte di tutte, le si stringeva addosso ad ogni respiro, la portava a chiedersi cosa fare con tutto quello spreco? Un panico che arrivava da stesa, la sera, e se ne andava portandosi spesso via il sonno, lasciandole le spalle appesantite e due borse blu sotto gli occhi, i capelli sfatti e il passo più lento del solito. Perché sì, aveva sempre avuto paura di non poter morire ma di vedere tutti quelli che le stavano intorno scomparire via, sepolti sotto la terra calda che a lei mai avrebbe soffocato. Eppure eccola lì, quella gigantesca paura, si era svestita di ciò che Fae aveva avuto modo di conoscere e aveva deciso di mostrarsi a lei anche sotto quella nuova luce, anche da quel punto di vista. Ora, Fae lo sapeva, sarebbe stata forse lei stessa una delle prime a dover andare e quel dolore derivato dalla perdita che aveva avuto modo di conoscere da bambina quando Vels era stato sommerso in acque gelide e scure e Cinthya era fuggita dalle proprie paure, quel dolore ricadeva sulle spalle di chi le stava intorno, di chi le voleva bene, di chi aveva da sempre vegliato su di lei o di chi sapeva d'esser vegliato dalla ragazza arcobaleno e i suoi occhi di un ghiaccio che a volte sapeva esser caldissimo.
    E allora, con il palmo della mano aperto rivolto verso l'alto e le mezzelune rossastre ancora sul bianco pallido della pelle, Fae lo seppe: il potere non l'avrebbe più protetta, non l'avrebbe più ingabbiata. Era libera.
    Si accorse dei passi alle sue spalle solo dopo che le arrivò una gomitata nel fianco magro. Si piegò appena da un lato per allontanarsi da Beat che aveva appena invaso il suo spazio personale dietro al bancone come al solito, arrivando all'improvviso e sbucando dal nulla. Buongiorno! la voce dell'altro fu divertita, quasi chiassosa. Quando si voltò, ancor prima di pronunciare qualsiasi parola, Fae allungò immediatamente una mano nella sua direzione per posarla su una delle due spalle così da spingerlo con la schiena verso il bancone del bar. Sono le cinque del pomeriggio. constatò scuotendo il capo, la ragazza dai capelli arcobaleno. Le sorrise Beat, anche se lo sguardo avrebbe voluto comunicare tutt'altro e Fae glielo lesse in faccia come se avesse parole scritte a lettere cubitali su tutta la fronte e le guance, fino al collo, le spalle e le braccia: era preoccupato ma voleva nasconderlo, forse ancora incerto di quello che vedeva, del senso delle occhiaie sotto gli occhi dell'amica, della lentezza nei movimenti, del cerotto che le aveva visto mettere su un taglio al dito qualche sera prima, quando durante la serata trascorsa dietro il bar ad aiutare le si era frantumato un bicchiere fra le mani. Ognuno ha il proprio orologio biologico. commentò Beat allora mentre si sfilava la giacca per posarla sulla superficie del bancone di fianco a sé. Poi tirò fuori una bustina di plastica contenente la solita soluzione bianca di cui necessitava per restare nel mood e la svuotò su uno dei vassoi d'argento sul quale posavano i bicchieri sporchi prima di metterli in lavastoviglie. Fae terminò nel frattempo di sistemare quelli puliti sulle mensole e si avvicinò all'amico. Lasciami una striscia. disse solamente, suscitando l'ennesima espressione perplessa sul volto dell'altro che, Fae lo avvertiva, cominciava a chiedersi se ci fosse qualcosa di sbagliato in lei. Aspirò per primo e poi le passò la banconota arrotolata senza staccarle lo sguardo di dosso neanche per un secondo. Naturalmente se ne accorse Fae, così cercò alla svelta un motivo di distrazione che lo avrebbe allontanato per una mezz'oretta almeno. Visto che sei già qui puoi iniziare a riempire i frighi là dove serve, ed è arrivato l'ordine che ho fatto l'altro giorno, c'è da sistemare tutto, giù. gli disse allora prima di abbassarsi e servirsi di quell'aiuto adrenalinico in formato polvere. Quando tornò su con la testa e gli occhi chiusi, inspirò profondamente per poi espirare con forza, lasciar andare tutto, sputò fuori i pensieri che pensava non l'avrebbero rincorsa almeno per tutto il resto della serata, eppure quando si ritrovò ad aprire gli occhi ecco che la figura di Sam le stava davanti, dall'altro lato del bancone. A guardarli da quella distanza di appena qualche metro con il bancone di frigoriferi a separarle, gli occhioni blu elettrici della sua migliore amica, Fae credette di potersi sbriciolare. Si voltò immediatamente verso Beat, che nel frattempo stava salutando l'altra, e in un momento di panico si avvicinò a lui per posare le proprie mani sulle sue spalle coperte dal tessuto leggero della t-shirt e spingerlo verso l'uscita della pedana riservata ai dipendenti. Sciò, vai a sistemare giù per favore, che siamo in ritardo con i tempi. Graaaazie. disse frettolosa, intenzionata a separare Beat e Sam per evitare altre mille domande da parte di Beat. Se c'era una cosa a cui, fino alla fine, non avrebbe rinunciato, era proprio il Bolgen: il cuore della sua vita, o forse tutto il corpo: braccia, mani, gambe, piedi, muscoli. Lì dentro c'era il suo mondo e Fae era ben consapevole del fatto che se gli altri lo avessero saputo, che se Beat e Paul avessero saputo davvero cosa le stava accadendo, allora avrebbe dovuto dire addio anche a quello prima del tempo. Una volta che Beat fu scomparso oltre la porta di metallo che dava sulle scale per il lager delle bibite, Fae si voltò verso l'amica. Sospirò velocemente e poi sorrise nella sua direzione, cercando di raccogliere tutte le forze che ancora sentiva d'avere per darle l'impressione che stesse bene, che le gambe non le tremassero, che lo sguardo non fosse stanco, che il taglio sul polpastrello del dito indice ancora coperto da un cerotto non volesse significare nulla. Perché, di fronte a Sam, Fae doveva essere forte due volte e non una: per sè, per autoconvincersi che ci fosse ancora tempo; e per lei, perché le sue mani avevano riformato ogni paura, ogni certezza, ogni ticchettio dell'orologio e, questo Fae lo sapeva, quella consapevolezza la stava soffocando dall'interno. Saaaaammy, ciao! esordì allora, scendendo dalla pedana del bar e facendo il giro per raggiungere la figura bionda che l'aspettava. Raggiunta Sam, Fae allargò istintivamente le braccia per avvolgerla e stringersela affettuosamente contro, guancia sulla spalla, capo contro capo, come avevano fatto tante volte, sin da bambine. Gli abbracci, Fae, aveva imparato a darli anche grazie a lei, grazie alla piccola Sam. L'amore in casa Olsen aveva avuto tutte le forme che avrebbero potuto esserci e continuava ad essere così, eppure per un breve periodo qualcosa era mancato: Fae aveva capito che, anche se Vels era andato perso, Maggy aveva preferito sempre afferrarle e stringerle la mano e per Cinthya non era stato abbastanza importante restare anche solo per condividere quei semplici gesti con le proprie figlie, era arrivata poi Sam che, dall'altra parte del giardino di casa, aveva dovuto compiere qualche passo verso di lei per poterla raggiungere davvero, sempre uno di più, finché erano state così vicine da poter condividere qualcosa che fino a quel momento per Fae era sempre stato associato a legami di sangue. Sam l'aveva avvolta in quelle che, era strano a ricordarlo ora, erano state solo due piccole braccia da bambina, eppure erano riuscita a riscaldare Fae come mai nessun altro avrebbe potuto fare da quel momento in poi, che la fiducia instaurata in quegli anni di solitudine aveva dato frutti bellissimi, rami di un'amicizia che era durata per anni ed anni e, alla fine, quelle stesse liane o foglie le si erano accartocciate contro per ricavarne acqua e sali minerali, e invece di crescere ancora, sembravano ora essersi avvelenate. Fae lo sapeva che, se una parte della pianta riusciva ancora a crescere e respirare, sarebbe stato meglio tagliare al piano presto il pezzo malato, la foglioletta che non riusciva a ricevere più acqua, che non avrebbe potuto completare la fotosintesi clorofilliana. E sarebbe accaduto, lo sapeva lei, lo sapeva anche Sam.
    Quando si staccò dall'altra, restò con le mani sulle sue braccia e le strinse appena, la guardò negli occhi tornando a sorridere per incoraggiarla, incerta di quello che avrebbe voluto dirle o di cosa avrebbero dovuto parlare. Vuoi qualcosa da bere? Cola? Succo? Shot di tequila? chiese facendole un'occhiolino, poi lasciò andare la presa sulle sue braccia per lasciarle la possibilità di muoversi. Dietro di loro i tecnici del Bolgen sistemavano luci e casse, era un movimento a cui era abituata, le dava quella familiare sensazione di sempre: era il suo posto, Sam lo sapeva bene, si era ritrovata spesso lì dentro nel mezzo delle preparazioni di una serata, ne conosceva l'euforia che accompagnava Fae ad ogni passo prima dell'apertura, il black out totale durante l'evento quando, poi, nel bel mezzo del lavoro al bar o nel back stage, non riusciva a trovare neanche un attimo per respirare, ma le piaceva, le aveva sempre dato la carica che cercava. Vieni, andiamo dietro. disse quindi voltandosi nuovamente in direzione del bar per incamminarsi nella sala dedicata al personale e agli artisti, seguita da Sam. Hey hm... loro non lo sanno. si ritrovò a dire mentre stava camminando, voltandosi brevemente verso Sam per guardarla fugacemente negli occhi, quasi se ne vergognasse, eppure ritenne fosse importante dirglielo, affinché capisse il motivo della sua fretta del rimanere da sola con lei dopo aver mandato Beat a sistemare la consegna degli alcolici. Attraversarono quindi la stessa porta di metallo dietro la quale era sparito l'altro poco prima, per poi superare delle scale che portavano al piano inferiore ed avanzare lungo un corridoio che sfociava in una grande sala dalle pareti alte almeno quattro o cinque metri, divani dai colori più disparati si disperdevano nello spazio che fronteggiava una mini cucina su un lato ed un paio di tavoli. Non mi sembra il momento giusto, ecco. aggiunse poi, come se per tutto quel tempo si fosse tenuta dentro il pensiero. Si avviò poi immediatamente verso la credenza per aprirla e tirare fuori una busta di patatine, la svuotò in una ciotola gialla per poi posarla al centro di uno dei tavoli quadrati. Cos'hai detto che vuoi bere? chiese di nuovo fermandosi per un istante di fronte a Sam, in attesa, incerta sull'averglielo chiesto qualche minuto prima già o meno e consapevole di quanto, in quell'ultimo periodo, avesse la sensazione che la memoria avesse deciso d'abbandonarla anche lei prima del previsto.
     
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