⋆₊ ⊹ Liquid Death

Evento Post-Quest 2023 @ Perception

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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: [uso di droghe pesanti (immaginarie)].
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.


    auqEVhm

    ✦Liquid Death @ Perception✦
    Masterpost


    Il cuore inizia a rallentare, il corpo si appesantisce, il respiro si fa profondo. Morire è facile. Riuscirete a tornare indietro?

    Non è passato molto tempo dagli eventi apocalittici verificatisi in spiaggia, e Besaid sta cercando di guarire. Difficile a farsi, date le sparizioni che a macchia d'olio si sono sparse per tutta la città, denunciate alle autorità per segnare un evento ancor più spaventoso di un'epidemia: qualcosa a Besaid non torna, si propaga oltre le radici degli alberi ed affonda nel mistero, là dove nessuno può andare se non per non tornare mai più.

    Ma è vero? E' vero che chi non c'è è perduto per sempre, irraggiungibile?

    Besaid intrappola i suoi abitanti in mille domande, ma ne custodisce anche le risposte, tutt'attorno a loro, nella saggezza infinita della natura. Durante indagini del governo norvegese e della sua divisione occulta, il B-6D, seguite ai tragici eventi, è stato scoperto un fungo, un micete contenente un composto chimico psicoattivo capace di alterare lo stato di coscienza di chi lo assume, e che produce effetti enteogenici tipici di molte varietà di funghi allucinogeni, ed anche farmacologici, simili a quelli degli oppiodi. Sono molto ben nascosti e difficili da indentificare, ma si propagano nel bosco in alcune posizioni ben precise, segrete. Il governo ne ha prelevato degli esemplari, e ne ha estratto il composto chimico per studiarlo, ed eventualmente, tracciare un legame con quello che è stato identificato come un luogo, internamente conosciuto come "dimensione specchio". Anche nelle più salde fortezze però ci sono incrinature: uno degli scienziati ha condiviso l'informazione top secret, questa si è propagata come un sussurro nella pancia della città, scura e stretta, là dove in pochi si addentrano, ed è arrivato alle orecchie di un gruppo ristretto di individui interessati. Da lì è facile, quasi automatico, rendere una goccia un'onda, e una semplice voce si è trasformata in un tacito annuncio, ed una informazione in materiale tangibile e pericolosissimo.



    !!Info importanti:

    Intro: "Qualcosa di nuovo e di Unico si vende al Perception. Non mancare." In seguito agli articoli pubblicati sul Besaid Daily, nuove voci echeggiano in città. Nell'underground si sono sparse velocemente, ed in seguito in superficie. Questa frase, assieme alla data e l'ora dell'incontro, si è fatta strada nella lista esclusiva di clienti del locale, ma anche tra la gente, i Besaidiani e le Besaidiane che possono pagare un lauto prezzo attraverso il Labirinto. Saranno i più privilegiati ad avere accesso alla Liquid Death, ma anche delle cavie preziose ed i primi a risentirne se le cose andranno storte.

    ⟡ E' tramite le voci di Magnus Nyström e Tara Lennox al Perception ed Eldjàrn Lundberg al Labyrinth che avete saputo di questa importante novità. Nella frase che si ripete a bassa voce e che vi invita a partecipare a questo insolito "lancio" c'è una parola specifica che attira la vostra attenzione: "Unico". Conoscete questa parola, avete letto le notizie, sapete che c'è un legame tra le sparizioni, l'Unico, ed adesso con questo misterioso evento. La scelta ora è vostra.

    The Door of Perception: il Perception è un club che ospita la scena criminale della città nei suoi termini più esclusivi: per quanto legato alla strada, non sono solitamente i pesci piccoli ad appartenere alla clientela più affezionata. Il club è composto da varie sale, tutte molto diverse, ed ospita traffici illegali di varia natura. Nel post linkato troverete una descrizione dettagliata del luogo, con tutto ciò che c'è da sapere, foto e dettagli.

    ⟡ Di solito, ma ancor di più in vista di questo particolarissimo lancio, ci sono rigorosi controlli di sicurezza per entrare: dovrete mandare un messaggio ad un numero di telefono per confermare la vostra presenza. Se il vostro nome non appare sulla lista, o dopo il processo di vetting sarete motivo di dubbi per lo staff del Perception, verrete respinti. I cellulari sono proibiti, verrete perquisiti per sapere se indossate armi. Una volta entrati al Perception siete come in cassaforte.

    ⟡ Al vostro arrivo, vi verrà consegnato un foglio informativo: non smarritelo, contiene tutte le informazioni utili per la vostra permanenza all'evento. Riceverete anche un braccialetto digitale fluorescente: registrerà dati relativi al funzionamento del vostro corpo (simile ad uno smartwatch) come il vostro battito cardiaco una volta sotto l'effetto della Liquid Death.

    ⟡ Chi può partecipare a questo evento? Chiunque sia disposto a pagare, e chiunque sia nei network del Perception e del Labirinto. Che siate assi del crimine oppure cittadini che disperatamente cercano risposte per i loro cari scomparsi, questo è il posto giusto per voi. Site detective delle forze dell'ordine o del governo sotto copertura? Buona fortuna! [Se volete far partecipare un vostro personaggio, ma avete bisogno d'aiuto con i legami, chiedete pure a noi dell staff - saremo molto felici di aiutarvi!]

    ⟡ Carta bianca: comprendendo che avete tutte le informazioni per consumare la Liquid Death (qui sotto) e passare del tempo al Perception, avete un contesto ben delineato - non ci sono limiti creativi su ciò che potete fare. Nonostante sia una serata speciale con tutti gli accorgimenti del caso, il Perception mantiene la sua forma originaria: è un club, quindi potete usufruire dei servizi del locale, dai bar ai privè.


    Liquid Death:

    ⱄⰔⱄ Arriviamo al dunque: che cosa si vende al Perception? Al vostro arrivo, vi verrà spiegato sul foglio informativo che si tratta di Liquid Death, una nuova sostanza stupefacente ricavata dal Néphos Mycenae (fungo della nebbia). Questo micete produce effetti enteogenici (di alterazione di coscienza, comune in contesti spirituali e sciamanici) tipici di molte varietà di funghi allucinogeni, ed anche farmacologici, simili a quelli degli oppiodi e di una grave intossicazione da miele (inibizione funzioni neurologiche, debolezza, paralisi completa del corpo, difficoltà respiratorie, blocco atrioventricolare).

    ⱄⰔⱄ Cosa significa in pratica?
    Assunzione: Il foglio informativo descrive i rischi e gli effetti della Liquid Death, ma anche come consumarla. E' comune assumere funghi allucinogeni, sotto forma di polvere, infusi nel tè. Ebbene, al Perception sarà esattamente così. In ogni sala, al bar, potrete richiedere una dose (sarà indicato che è una dose bassa, per tutti) che vi verrà consegnata in sfere piccole e dorate, quasi gommose. Si tratta di monodosi d'infuso contenente il preparato: il fungo disitratato ridotto in polvere e limone. L'acido citrico contenuto nel limone rende il composto chimico più facilmente biodisponibile, il che significa che il corpo ne subirà gli effetti più velocemente e con più potenza. Prendete la sfera, ingoiatela, e dai 45 minuti ad 1 ora dopo ore ne sentirete gli effetti. Vi verrà spiegato di non assumere alcool in quella finestra di tempo, nè altre droghe leggere o pesanti.

    Effetti: La durata totale di un trip da Liquid Death è dalle quattro alle sei ore. Durante questo lasso di tempo, i passaggi si possono suddividere in quattro fasi:

    Fase 1: Primi 45 minuti / 1h

    Gli effetti sono molto simili a quelli dei cosiddetti "funghi magici". Dopo un primo momento di assestamento con nausea, vertigini e giramenti di testa, la droga vi permetterà di sentire il mondo circostante con molta più nitidezza: i colori sono più vividi, i suoni più chiari, le sensazioni più esaltate.

    Fase 2: 1h / 2h

    Lo stato di grande euforia e connessione con il mondo e altri esseri umani aumenta tanto che le vostre percezioni sono distorte: iniziate ad accusare stanchezza, eppure riuscite a guardare oltre: vedete forme e sagome che non sono realmente lì, sentire odori che ricordano la pioggia o la nebbia, sussurri più o meno eterei ed inquietanti vi accarezzano l'udito. Sperimenterete una conoscenza profonda di voi stessi e del mondo, siete in trance spirituale. Tuttavia, le allucinazioni continuano. Sapete che non sono reali, tuttavia le percepite.

    Fase 3: 2h / 4h

    E' qui che la Liquid Death si distingue definitivamente da ogni altra droga. Come in una grave intossicazione da miele, vi sentirete morire. La stanchezza diventerà insopportabile, tant'è che chuderete gli occhi e le membra pesanti non potranno più muoversi. Il respiro si farà sempre più flebile sino a che il cuore non smetterà di battere. In quel momento, non si tratterà solo di allucinazioni, ma sarete dentro la Besaid Niflheimr. La connessione mentale ed emotiva che avete con loro vi permetterà di ritrovare persone perdute e vi porterà a comparire esattamente dove sono loro nella dimensione opposta. Non sapete esattamente dove siete o di cosa si tratti, ma potete chiedere alla vostra persona cara più informazioni. Potrete passare del tempo con loro, capire che cosa è successo, e vi sentirete in forma, come sempre.

    Fase 4: 4h / 6h (dipende dall'individuo)

    Allo scadere del tempo, inizierete a tornare ad uno stato di nausea, il mondo in cui siete e quello che vivete tutti i giorni si sovrappongono, sanguinano l'uno nell'altro, avrete allucinazioni che vi segnalano che state per tornare. A prescindere, tornerete nel mondo "reale", in uno stato di morte apparente, segnato solo da un paio di spasmi anomali del cuore. Questa è la parte più delicata: verrete riportati indietro da una spinta adrenalinica data dalla particolarità di Eldjarn e vi risveglierete. Sentirete poi, oltre ad una stanchezza eccessiva, anche un malessere generale molto forte. Si dissiperà gradualmente nelle due ore successive.
    !!!Questa è una droga molto pericolosa: è molto probabile che senza l'aiuto di Eldjarn lo stato di morte apparente diventerà uno di morte effettiva, ed anche nel caso in cui proverete a resistere al vostro ritorno, rischierete di morire nel mondo "reale" e di restare intrappolati nella Besaid Niflheimr come spiriti.

    N.B. In ogni sala del perception, a parte i privè, si trova un membro dello staff incaricato di avvisare Eldjarn del ritorno imminente attraverso i vostri bracciali fluorescenti. Se siete nei privè, dunque, non andate in solitudine a meno che non vogliate rischiare.

    Dopo: Dopo che gli effetti della Liquid Death si sono assopiti e voi sarete tornati a casa, per le 24 ore seguenti vi sentirete molto stanchi, anche nel cuore e nel respiro, ed avrete bisogno di passare la giornata dopo stesi. La droga non crea dipendenza, non subito almeno. Dopo 5 usi a distanza ravvicinata(non si sa precisamente dopo quanto, è ancora una informazione in divenire), inizierete ad esserne assuefatti.

    Stato mentale: Vi verrà indicato anche di approcciare l'uso di questa droga, già di per sè molto pericolosa, con uno stato mentale il più tranquillo , grato e rilassato possibile. Se inizierete il trip con uno stato mentale ansioso, terrorizzato o inquieto, il trip sarà accentuato in tutte le sue forme meno piacevoli.

    ⱄⰔⱄ Se non voglio consumare la droga ma sono al Perception per la serata o parlare di affari riguardanti quest'ultima, posso recarmi all'evento? Assolutamente sì. La scelta è del tutto vostra, se prendere la droga in quel momento oppure parlare di affari. Si tratta di una scoperta molto nuova e preziosa, quindi non è ancora possibile prendere della droga da portare a casa. Dovrete parlare con i responsabili (Magnus) per farlo.


    Personaggi / interazioni:
    ⟡ Troverete senza dubbio queste persone al Perception la sera del lancio della Liquid Death: Tara Lennox (responsabile del Delaunay e del Perception - veglia sugli spazi, si occupa della clientela e di garantirne il lavoro quotidiano, deve essere al corrente di tutto ciò che accade), Magnus Nystrom (responsabile dei traffici del Perception, chiedete a lui se avete intenzione di vendere la droga in futuro, o per iniziare affari col Perception), Wade Wilson (responsabile della sicurezza - coordina lo staff di sicurezza del Perception, ma è anche un sicario imprevedibile: non fatelo arrabbiare!), Eldjarn Lundberg (è in affari con il Perception per via della sua particolarità: la sua presenza è fondamentale per portarvi fuori dal trip sani e salvi).

    ⟡ I personaggi al momento nella Besaid Niflheimr: questa è l'unica altra role, a parte quelle aperte nella sezione apposita, in cui i personaggi che sono dall'altra parte possono interagire e rispondere.

    References:
    !! Importante: Leggete qui per comprendere le logistiche del gioco.

    ⋆₊ ⊹ Questo evento fa parte della storia principale dei vostri personaggi: è ambientato dopo la Quest V: Sykdom Apocalypse.
    ⋆₊ ⊹ L'ambientazione è quella indicata sopra, per cui è importante che leggiate tutto bene per approfittarne al meglio! Se avete altri dubbi o domande naturalmente lo staff è a vostra disposizione.
    ⋆₊ ⊹ Anche questo evento vi permetterà di giocare con agio, difatti:
    ~ Potete portare tutti i pg che volete: non c'è limite purchè restiate nelle tempistiche :3
    ~ Potete creare tutti i post che volete (non c'è un limite di numero, basta pubblicarne uno)
    ~ Potete creare qualsiasi genere di post desiderate ovviamente in linea con il contesto proposto, basta che inseriate gli appositi warning se necessario.
    ⋆₊ ⊹ Dovrete postare da oggi 26 Ottobre al 25 Novembre compreso! Poi, chiuderemo il topic.
    ⋆₊ ⊹ L'ordine dei turni è sparso. Potete postare quando volete, però entro la data che è stata assegnata.



    Edited by ‹Alucard† - 19/11/2023, 19:13
     
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    Besaid era cambiata. Di punto in bianco, le sorti della città, già vacillanti nella malattia, si erano fatte fragili e imprevedibili, e più il dolore e lo shock lasciavano il loro graffio tra e dentro i Besaidiani, più caos si propagava nelle strade. Quindi sì, Besaid era cambiata, e con essa doveva farlo anche il Perception. Era bastata una sequenza di decisioni, scelte e fortuna, e nel radar di Magnus e Tara era finito un fungo, un mero micete che di semplice non aveva niente, e che di lì a poco avrebbe rivoluzionato i loro affari. Magnus e Tara ne avevano parlato: in caso di implosione Roger Lennox non avrebbe fatto nulla per curarsi di Besaid e dei suoi figli, e il Néphos Mycenae era diventato il loro biglietto d'oro. Non si trattava però unicamente di una scappatoia, ma anche di una porta verso un'altra dimensione, una sicurezza, ignoto, affari, ma anche molto di più. Con quella scoperta, la vendita della Liquid Death si era trasformata in una naturale conseguenza degli eventi. E proprio da qualche parte nello scorrere di tutto si trovava Tara. Guardava il dispiegarsi di scelte ben precise farsi tangibile e piccolissime azioni crescere, e ne riconosceva anche i risvolti più brutali: capitalizzare sulla disperazione delle persone, sviluppare una droga pesante con "dovuti" test effettuati in ambienti fuori dalla legge, esporre i consumatori a qualcosa di nuovo e potenzialmente mortale. Non avrebbe comunque fatto alcunchè per fermare il movimento di quelle decisioni. Si trattava di un primo passo, uno che avrebbe dato una possibilità anche a lei. Allora, a maggior ragione, bisognava continuare. Anello dopo anello, quella catena di giorni si era conclusa, agganciandosi ad una fredda sera norvegese. Una sera importante. Era tutto pronto, ed aggirandosi tra i locali ancora semivuoti del Perception, Tara respirava quegli ultimi istanti di chiacchiericci sommessi e solitudine. L'atmosfera solitamente rilassata o afosa del locale era ancora assopita, calma ma elettrica prima del grande evento. Reggeva un cellulare in una mano e la pistola in un'altra, riponendo quest'ultima alla cintura prima di illuminare il display un'altra volta. In quella piccola scheda, a cui avevano accesso solo lei e Magnus, erano riposti i contatti di tutte le persone che avevano deciso di partecipare al lancio della Liquid Death. Un ultimo nome da aggiungere alla lista. Tutto okay? Domandò infine, adocchiando Wade saltellare nei paraggi di Magnus e quest'ultimo pronto a piantargli una pallottola in testa, mentre si avvicinava ad Henri, già pronto al bar. Sì, noi qui ci siamo! Un cenno con la testa, e Tara controllò l'ora. Era arrivato il momento di aprire le porte ed iniziare a far entrare i clienti. Bene. Qualsiasi problema, venite da me o da Magnus, chiaro per tutti? E nel pronunciare le ultime parole alzò la voce, senza severità, per far in modo che il resto dello staff la sentisse in quello spazio. Tutti gli altri erano già stati avvertiti, ed ora non restava che iniziare a far accedere le persone all'interno del locale.
    I primi invitati scorrevano all'interno del Perception, e seguendo la corrente delle luci soffuse e della musica, scivolavano nell'una o nell'altra sala. Arrivarono anche persone di spicco della città, gente che Tara non avrebbe immaginato di vedere mai al Perception come avvocati o curatori, e pian piano ogni avventore prendeva posto, chi ai bar ampi e decadenti, chi nelle ombre del club o nei privè più appartati. Wade, alla porta, sembrava anch'egli relativamente sereno, per quanto gli fosse naturalmente possibile, e Tara andò a cercare una persona in particolare. In comune accordo con Magnus, aveva assoldato Eldjàrn per un compito molto delicato: assicurarsi che coloro che avrebbero assunto la Liquid Death sarebbero rimasti in vita. Non era la prima volta che l'incontrava: aveva incrociato il suo sguardo di pietra e terra già un altro paio di volte, quando si era recata al Labyrinth. Un'esperienza pericolosa e bellissima, che le aveva anche mostrato ciò che Eldjàrn era capace di fare. Aveva una particolarità intensa, rischiosa, di quelle che fanno camminare sul ciglio di baratri profondissimi, e sperò in quel senso che Tara avrebbe avuto una notte serena anche nel pensare alla propria. Quando trovò Eld, se ne stava seduto in disparte. Si accomodò allora vicino a lui, e ne studiò i lineamenti. Che c'è, Tutina ti ha importunato? Non ti preoccupare, lui è così con tutti. Scherzò lei, incrociando le braccia al petto mentre lasciava scivolare le iridi azzurre a studiare l'altro. Andrà bene. E alla fine della serata ti darò il resto come stabilito. Un accordo era un accordo, e per quanto le energie di Eldjàrn a volte lasciassero tintinnare di mistero e inquietudine anche una persona come Tara, lo trovava anche affine a lei ed un validissimo alleato. A salutarlo arrivò anche il ticchettio delle zampe di Xena, che lasciò qualche bacio sulle mani di Tara ora andate a raggiungerla e un passaggio del naso umido attorno alla figura di Eld. Mhmh. Lui è Eld. Contiamo su di lui, si? E nel ricevere un piccolo suono da Xena, Tara le sorrise e diresse poi lo sguardo verso Eld, alzandosi. Ancora Eldjàrn non lo sapeva, ma avrebbe avuto tra le mani una vita molto importante per Tara, e le sue parole acquisivano un peso diverso. Tra l'altro conosco tua cugina, mi aiuta con i miei ragni ed i miei serpenti. Dovremmo parlarne qualche volta. Un occhiolino e Tara prese a camminare, sicura che avrebbe rivisto Eld nel corso della serata.
    Riemersa al bar, notò una figura familiare al bancone. Gli arrivò dietro di sorpresa, afferrandogli le spalle per dargli un jump scare almeno un po' efficace. Boo! Buonasera. Scoccò lei sorridente, affiancandosi ad Ares. Xena gli posò le zampe su una gamba, eppure lo lasciò andare presto, richiamata dal movimento secco del palmo di Tara su una coscia. Sei venuto per la droga o..? Avrebbe proposto molto di più, eppure lo sguardo che trovò negli occhi dell'amico non era quello di sempre, infuocato dalla fiamma della rabbia o della fierezza. C'era qualcosa in Ares che non andava, che rendeva sommesso il suo suono solitamente roboante e simile ad un ruggito. Allora Tara si fece più vicina, sempre di più finchè non lo osservò invadendo il suo spazio personale, cosa che faceva spesso quando i due lottavano in palestra. Restò ad indagarlo per qualche lungo secondo, e poi si ritirò. Che succede? Domandò senza mezze misure, impossibilitata a leggere il volto dell'altro, da cui però non emerse nè espressione, nè parola. Hey, Henri. Sollevando una mano tatuata per attirare l'attenzione, Tara si rivolse al barista, scoccando nel mentre un'occhiata obliqua ad Ares. Ci fai due shot a testa? Tequila per me e whiskey per lui, quello giapponese. Grazie. Ora con un braccio appoggiato al bancone, Tara tornò a voltarsi del tutto verso Ares. Meglio ora? Abbiamo anche l'alcool, quindi basta cazzate. Dimmi che succede. Neanche dopo un incarico particolarmente duro o una sconfitta sofferta nel ring Ares si era mai mostrato così scoraggiato, e per Tara si trattava di una prima volta. Non l'avrebbe costretto a parlare, ma avrebbe quantomeno spinto Ares a confidare in lei. Ricevette ben presto i loro ordini, e versandosi del sale sul dorso della mano, avvolse il primo bicchiere tra le dita inanellate, puntando così lo sguardo affilato in quello dell'amico. La partita è ancora aperta, Ares. Qualsiasi cosa lo turbasse, erano ancora lì, ancora vivi, e per persone come loro sopravvivere non era che un traguardo raggiunto. Tara lasciò tintinnare il bicchiere con quello dell'altro e leccò via il sale dalla pelle, lasciandosi poi ammansire dall'alcool e dallo spicchio di lime subito dopo. Restò quindi in silenzio, in attesa.
    Il velo di tristezza che si posò poi sullo sguardo di Tara marcò la fine del discorso che aveva intessuto con Ares, ed ora con i bicchieri vuoti di fronte a loro, cercava di elaborare la notizia come meglio poteva, nella rapidità di una serata che non le avrebbe concesso tregua almeno sino al mattino seguente. La distrasse tuttavia lo scatto di Xena, che si allontanò da lei ed Ares per inseguire un'ombra nera che si fermò poco lontano. Hey! Xena! Abbaiò forse più aggressiva Tara di Xena, raggiungendola a qualche passo da lineamenti unici e familiari. Avrebbe riconosciuto quella sagoma ovunque. Scusa, V. Ogni volta che ti vede ti corre dietro. Effettivamente la figura asciutta e scura di Keenan evocava riverberi acuti e taglienti, e Tara, così come Xena, ne riconosceva il potere e la forza. Se sei qui per la droga, buona fortuna. Forse per la prima volta quella sera al pensiero della Liquid Death e dopo aver appreso le notizie su Ares, si potè intravedere sotto uno scudo spesso di disinvoltura e sicurezza l'ansia che tracciava solchi dall'interno di Tara ormai da tempo. Non si trattava di una sostanza stupefacente come le altre, e senza Eldjàrn le possibilità di ritornare alla vita erano scientificamente basse. Era comunque aperta a qualsiasi commento V avrebbe voluto condividere con lei. Se invece sei qui per affari, il parco giochi è pieno. Commentò nuovamente ferma, tornando a richiamare Xena a sè, che le scivolò tra le gambe, sedendo mansueta. Non parlò oltre, ma indicò in brevi cenni a V, sicura che avrebbe potuto intravedere tutto dalla sua maschera bianca, alcuni avventori che avrebbero potuto essere interessanti. Ovviamente Magnus, ma anche un'hacker, un magnate delle armi, Wade, ed infine Ares, punta di diamante tra i sicari. Oggi ha avuto una giornataccia, magari parlando con lui la svoltate tutti e due. Suggerì diretta ma senz'altro propositiva, aggiustandosi l'harness in pelle nera che le abbracciava il torace. V nel suo vestire si presentava singolare, evocativo, misterioso, e Tara non ne era turbata - da Wade ad altri clienti, ormai ben poco riusciva a stupirla. Lei aveva scelto di restare su un look pratico, come sempre tutto in nero, ma la cui maglia, che non le apparteneva, le abbracciava le forme delineando il torace con una stampa aggressiva ma che tratteggiava linee feline. Il suo odore non era ancora scomparso del tutto.
    Ad ogni modo Tara restò con V ancora qualche tempo, condividendo una conversazione con lui prima di lasciarlo alla sua serata e tornare verso l'ingresso, dove spiccavano i contorni di un costume rosso ben riconoscibile. Tutina, mi serve un bracciale. Ed allungando un palmo verso Wade, Tara aspettò che l'accontentasse, non così dispiaciuta di mostrare autorità con il mercenario, che di tanto in tanto deragliava nel suo mondo col pericolo di sbaragliare tutti sulla via del ritorno. OOf tieni - e poi? Mi ringrazi con un bacino oppure puoi anche piegarmi in due con un RIPTIDE- Uno dei migliori finisher se vuoi sapere la mia opi- Preso il bracciale, Tara non si frenò dal lanciare un sorrisetto al mercenario, tappandogli la bocca con un semplice gesto nel portarsi un indice alle labbra. Shh, o il finisher poi te lo fa Magnus. Wade rise con lei, rabbrividendo visibilmente alla minaccia amichevole e non troppo velata, e Tara tornò all'interno del locale, permettendosi di abbandonare un respiro pesante, che però non le alleggerì ne le spalle, ne le preoccupazioni che si erano ammassate su di esse. Ne conosceva il motivo, sarebbe arrivata a bussare alle porte del Perception tra poco tempo. Quando Tabby le aveva parlato della scomparsa di sua madre, Tara aveva smesso di rimuginare: non la vedeva già da qualche tempo, eppure sapeva che fosse tutto sbagliato e tremendamente doloroso. Accorrere in suo aiuto era stata la conseguenza più naturale, tra le tante che si erano susseguite nella storia della Liquid Death, e sapere di poter fare un passo avanti verso Tabby e addirittura aiutarla le accese il cuore di stupida speranza e lucidissimo terrore. Come sarebbe stato rivedere Tabby? Che sarebbe successo se poi la droga fosse stata troppo esigente verso il suo organismo? Tutte domande che molto chiaramete aleggivano nella mente di Tara senza trovare risposta che non fosse sentirsi come una dannata ragazzina inebriata dal primo amore. Tabby era il suo ultimo, e da quel piedistallo non si sarebbe spostata. Sovrappensiero Tara si muoveva silenziosa tra le sale, scorgendo già alcuni invitati ed invitate avvolti nelle spire della Liquid Death, e non li disturbò, continuando nel suo giro sino a fermarsi sulle sedute scure al limitare dell'ingresso dei privè per tornare a quella immobilità che, quasi identica, aveva respirato ore prima. Non sarebbe durata molto. Difatti, tra una interazione e l'altra e con il progredire della serata, Tara era riuscita a ignorare quello stesso peso che le gravava sulla schiena in altro modo, soffocando ogni reazione sotto il suo lavoro. Solo nel cuore della notte, quando già alcuni avventori avevano lasciato il locale, il suo cellulare personale si illuminò. Passo dopo passo, la musica, i discorsi, tutto sembrò dissolversi sino ad essere inghiottito dal battito del cuore, che si fermò all'ingresso non appena Tara si trovò Tabby davanti.

    Edited by ‹Alucard† - 7/11/2023, 08:30
     
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    dangerous idea.

    “Behind this mask there is more than just flesh.
    Beneath this mask there is an idea...
    and ideas are bulletproof.”
    sheet


    «Grazioso revamp ammise teatrale V con gli occhi al suo nuovissimo braccialetto fluorescente, superando la soglia del Perception non appena presentato il proprio esclusivo invito.
    Si tolse il cappello a tesa larga con un appariscente inchino e sollevò una mano per impedire ad uno dei camerieri di turno di occuparsene: si avvicinò al guardaroba e posò l'indumento, immergendosi poi nella folla sussurrante che aveva invaso il prestigioso locale quella sera.
    La sua falcata era sicura, la maschera altrettanto sul viso magro e scavato, ossa stanche che sostenevano la sua reale esistenza fatta di tratti duri ed anonimi, immortali nella loro ordinarietà.
    Infilò una mano guantata in tasca, vestito di nero dalla testa ai piedi, con lucidi ed eleganti stivali ai piedi ed una parrucca scura sul cranio in parte mutilato.
    Espirò rumorosamente e cominciò a canticchiare con eleganza la melodia primaria del Concerto in Si Minore per Quattro violini di Vivaldi.
    Mani dietro la schiena, si muoveva come un personaggio uscito da chissà quale opera teatrale, osservando di qua e di là gli avventori radunatisi nel locale.
    Ricordava vagamente il Perception già dai tempi di Isolde Dewitt-Lennox, tuttavia V si era deciso a divenire socio solo quando Miss Tara aveva acquisito la gestione del locale nel duemilaventi.
    Così eccolo lì, zompettante come uno strano fauno vendicatore nel mezzo di una serie di interessanti ceffi.
    Aggraziato come una foglia svolazzante, l'uomo ascoltava vaghe conversazioni, si immergeva e respirava la folla.
    «Taratara... tarara» sussurrava canticchiando, muovendo la mano libera al tempo della sua melodia immaginaria. Orchestra dietro di lui, fraseggi articolati, legati preziosi.
    Riconobbe immediatamente Wade Wilson di cui ammirava l'operato, Ares Maleros le cui prodezze erano giunte forti e chiare, Tara come leonessa proprietaria di quel covo di matti, qualche viso spaurito o nuovo all'ambiente.
    Interessante.
    Si accomodò così ad un tavolo rotondo, scoraggiando chiunque avesse voluto unirsi a lui.
    Sembrava che la maschera fosse poco accomodante, tuttavia V preferiva quel genere di allontanamento al pungente slancio di alcuni di far sempre conversazione: per cosa poi?
    Solo allora sollevò la mano che aveva in tasca e notò l'avvicinamento pericoloso a tutta velocità di una giovane dobermann che sapeva appartenere alla proprietaria del locale.
    Aprì le braccia drammaticamente, accogliendo l'animale in un abbraccio accomodante e senza riserve.
    «Il cane possiede la bellezza senza la vanità. La forza senza l'insolenza. Il coraggio senza la ferocia.
    E tutte le virtù dell'uomo senza i suoi vizi.»
    trillò V che accennò col capo in direzione di Tara, splendido demone vendicatore e per questo sua controparte in una missione che entrambi si erano preposti e che, per questo, era pienamente entrata nelle sue grazie esigenti.
    «E' un buon periodo per tutti noi, Tara, eppure mi sembri così melanconica» aggiunse V con ottimismo, portandosi una mano ad una guancia della maschera, sotto gli occhi, e mimare lo scorrere d'una lacrima.
    Era raro vedere quella donna scalfita da sofferenza o pensieri e V, meravigliato e stupito dall'animo umano in tutta la sua poderosa potenza, si domandò cosa avesse mai potuto affliggerla.
    «Il dolore è forza motrice del mondo, sfruttalo» affermò lui che accennò ad un cameriere di passaggio per raccogliere una di quelle biglie dorate. Si alzò in un aggraziato e tetro svolazzare e si diresse verso l'area dedicata ai privé per assumere la sostanza in cerca di quiete, scoperta, vita, morte.
    Sulla strada si voltò verso Tara un'ultima volta ed inclinò il capo. I capelli lisci e lucenti gli sfiorarono la msachera.
    «Grazie per le raccomandazioni, i tuoi occhi sono sempre i migliori a cui affidarsi» spiegò V con una certa dolcezza, facendo un rapido pit stop al bar, dove due individui attirarono principalmente la sua misteriosa attenzione.
    Il primo era un uomo smilzo ed apparentemente ancora assopito nel suo mondo, di cui aveva letto alcune pubblicazioni e che riconobbe immediatamente essere un collega: Jonah Losnedahl.
    «Cosa ci fa una Valle di Colombe in questo stormo di Corvi e con l'Enialo in persona?» chiese a Jonah, senza accomodarsi, ma introducendosi così sia a lui che al suo compare.
    Si inchinò plateale dinanzi a loro in segno di saluto, notando lo strambo connubio con un uomo alto, che V aveva avuto occasione di sentir nominare in più di un circolo fuori e dentro il mondo virtuale.
    Professor Losnedahl ed Ares Maleros nella medesima stanza, chi l'avrebbe mai detto!
    «Sono V, enchanté» si presentò, tirando fuori da una tasca una coppia di petali di rosa Violet Carson. Su di essi vi erano bruciate l'iniziale del suo nome ed un link breve, poche ed enigmatiche lettere.
    «Qualora abbiate desiderio d'intrattenere affari, per parlarne oltre, Professore» asserì V che sostò in quella conversazione il necessario per poi carpire frammenti della fascinosa personalità di Losnedahl. Su due piedi, dopo una sommaria analisi, parve pronto d'essere svegliato.
    Era in sofferenza, momento più propizio affinchè il suo ridestarsi fosse prossimo: vivere un'oppressione, essere una voce inascoltata, un'ombra in un sistema crudele e fatto solo per arricchire i danarosi.
    Jonah era pronto.
    Così, dopo un breve scambio di battute, Vi scelse di congedarsi gentilmente ed avvicinarsi a Maleros, apparentemente burbero come tutti dicevano.
    Non era un caso che V fosse gravitato in sua presenza, considerando il suo caotico lavoro che, se ben diretto, avrebbe potuto portare grande giovamento alla sua causa. Ares, dalle vaghe recensioni lette qui e lì, era efficiente, sanguinoso, drammatico a modo suo.
    E V aveva proprio bisogno di lui.
    «Signor Maleros, mi domando se abbiate spazio per un nuovo incarico» affermò V senza mezzi termini, dritto al sodo. Si appoggiò appena al bancone, stringendo una mano guantata tremante ma viva ed optò per non accomodarsi, rintracciando una lingua di luce fra i vari, intensi riflettori che davano atmosfera alla sala.
    Lui, attore in quel maestoso e fumoso palcoscenico, aveva iniziato il suo monologo.
    «Athena Laskaris, Ingrid Solberg. Una delle due, entrambe» premette il grilletto. Il suo tono non si inasprì, non si incupì. Non divenne tetro o pericoloso, non cambiò in qualcun altro.
    Era sempre V, appariscente ed elegante, uno strano personaggio, un bizzarro mandante, un grandioso vendicatore.
    Ciò che l'uomo osa, io oso, pensò, esalando un sospiro.
    E quando anche quella scena fu chiusa, V si diresse ad uno dei privé ed accettò di buon grado una delle sfere dorate che assunse senza pensare.
    Se fosse morto, sarebbe emerso dalla tomba come un'idea, un'ispirazione, un proposito.
    Era già consacrato all'immortalità oltre la sua carne.
    La sua maschera non era l'unica che altri avrebbero indossato contro il potere costituito, non sarebbe stata l'ultima.
    Oramai la scintilla si era accesa ed il fuoco era divampato.
    Così si sedette nel buio, chiuse gli occhi ed attese. I sintomi che seguirono li aveva sperimentati innumerevoli volte, solo quando il buio divenne però vivido ed ondoso come abissi, solo quando la luce esplose e la realtà si fuse, allora comprese le potenzialità di questa sostanza.
    Provò immensa euforia che forse alcun uomo avrebbe dovuto sperimentare, un senso di potere che gli fece accapponare la pelle ed una paura oltre i limiti.
    Li valicò piangendo, si mosse nel presente, passato e futuro, sino a che le sue iridi chiarissime non diedero spazio al buio e riconobbero una sagoma femminile che vi emerse come se il Destino l'avesse spinta con le sue grandi mani verso di lui.
    Dio, pensò senza esitazioni.
    Oltre la chiesa, i governi, la ricchezza, la guerra.
    Oltre la Religione, oltre la crudeltà.
    «Dove sono?» domandò V, leggero come zefiro, felice d'essere perso, convinto d'essere morto.



    Edited by Annie` - 14/11/2023, 15:40
     
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    ARES MALEROS
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    Una figura solitaria se ne stava seduta sullo sgabello di fronte il bancone del Perception, completamente isolato da tutto il resto, da quella marasma di persone che si muoveva tutt’intorno a lui alla ricerca di nuove sensazioni, nuove conoscenze, nuovi affari…
    La sua mente vagava, incapace di allontanarsi troppo da ciò che era accaduto quella fatidica notte sulla spiaggia di Besaid, neanche quel poco che bastava per contemplare un’idea di futuro che gli era stata strappata nella maniera più dolorosa e inaspettata.
    D’altronde non era passato molto tempo da quando aveva ricevuto una condanna a morte e neanche il crudele e spietato Ares Maleros era immune alla pressione psicologica che simile pensiero poteva esercitare.
    Il bicchiere davanti a sé era vuoto ormai da mezz’ora, eppure Ares continuava a stringerlo tra le dita come se desiderasse portarselo alle labbra.
    Stava pensando, considerando accuratamente il da farsi.
    Il mercenario aveva visto troppe persone rovinate dalla droga — soprattutto se si trattava di qualcosa di così sperimentale e poco sicuro — da sapere che non gli sarebbe convenuto consumarla e rischiare di sviluppare una dipendenza, ma una parte di lui avrebbe voluto tentare.
    Se proprio doveva morire, almeno poteva farlo nel tentativo di trovare delle risposte.
    Non si sarebbe arreso, non era affatto da lui.
    Se e quando sarebbe morto sarebbe stato alle sue condizioni, nel suo ambiente, con le sue regole.
    Chissà, forse sarebbe stato più sereno se avesse saputo di dover essere l’unico a morire, di avere una sorta di controllo sulla propria sorte.
    Ma non era così e Ares si tormentava più che mai all’idea che non avrebbe raggiunto l’Oltretomba da solo, ma accompagnato dall’unica donna che avesse mai amato e che adesso aveva perduto, come cenere soffiata via dal vento dopo che l’incendio era stato sedato.
    La sensazione di una zampa che gli si appoggiava sulla coscia attirò la sua attenzione e, riconosciuta Xena, Ares si voltò subito per cercare il volto della più vecchia amica che avesse a Besaid a parte l’avvocato.
    « La natura di fantasma non fa per te » accennò uno dei suoi soliti sogghigni, ma non gli uscì bene come avrebbe dovuto. Forse era la consapevolezza che presto il fantasma sarebbe stato lui.
    « Forse. Ci sto ancora pensando » fece spallucce, poiché il pensiero della Liquid Death non sarebbe andato via troppo presto dalla sua testa, non se poteva offrirgli un modo per capire che fine avesse fatto l’Unico.
    Quando l’amica gli si avvicinò, invadendo quella invisibile barriera che Ares aveva interposto fra sé e tutti gli altri avventori del locale, egli capì immediatamente di essere stato scoperto.
    Non parlò immediatamente, attese che il proprio bicchiere venisse nuovamente riempito con dell’ottimo whiskey e si prese il suo tempo per farlo girare nel bicchiere prima di aprire bocca.
    Non era mai stato noto per il suo tatto e lo dimostrò nella crudità con cui pronunciò le seguenti parole.
    « Sto morendo. Non so precisamente quanto mi rimane, forse un anno, forse più o forse meno. E’ stato quel giorno alla spiaggia. Io e lei siamo condannati » non aveva bisogno di specificare chi lei fosse, poiché Tara era l’unica a saperlo.
    Ares poté vedere lo shock sul volto dell’amica, la paura che ella era così brava a nascondere che ogni tanto faceva capolino nei suoi occhi.
    Sapere che qualcuno avrebbe pianto la sua morte avrebbe dovuto fargli piacere, ma in realtà non sentì assolutamente nulla.
    Non era così che sarebbe dovuta andare.
    « Non cadrò da solo, perciò smetti di fare quella faccia » sollevò una mano e gliela posò sulla spalla, stringendola con forza per farle capire che non si era arreso e che non avrebbe dovuto farlo neanche lei.
    Parlarono ancora per un po’ prima che Tara si allontanasse, ma Ares non rimase solo perché a lei si sostituì la figura longilinea e fin troppo famigliare di Jonah.
    Gli rivolse uno sbuffo pieno di irritazione, guardandolo con la coda dell’occhio ma senza degnarlo di un saluto vero e proprio. No, non l’aveva ancora perdonato per aver cercato di ucciderlo, ma soprattutto non l’avrebbe mai perdonato per il ruolo che aveva deciso di svolgere nella relazione tra lui e Athena, diventata un assurdo triangolo in cui Jonah faceva da Messaggero.
    « Che c’è, sei venuto a spiare? Pronto a riferire tutto? Dì alla tua matrona che se vuole sapere come me la cavo, venisse a chiedermelo di persona o se ne andasse al diavolo » sbottò, avvicinando il viso al suo soltanto per intimidirlo « Ma dille di non preoccuparsi, a quanto pare ci vedremo all’Inferno molto presto ».
    Fece per alzarsi, irritato alla sola idea di passare un secondo di più in presenza di quel traditore, quando un uomo mascherato si avvicinò a loro con l’eleganza e la nonchalance di un attore teatrale.
    Gli occhi di Ares seguirono lo svolazzare dei petali di rosa con malcelata incredulità mista a disgusto.
    V, aveva sentito parlare di lui. Un terrorista. Un rivoluzionario.
    I suoi muscoli si irrigidirono immediatamente nel sentire pronunciare il nome di Athena. Che ironia, quell’uomo era disposto a pagare per la morte di una donna già condannata.
    Accettò il biglietto da visita senza dire nulla, osservandolo per qualche istante prima di metterselo in tasca, per poi lanciare un’occhiata a Jonah poco distante. Aveva sentito? Avrebbe riferito o era troppo codardo per farlo?
    « Mi terrò in contatto » rispose soltanto all’uomo, senza accettare né rifiutare la sua offerta.
    Chissà, adesso che Athena aveva un secondo grilletto puntato contro la testa si sarebbe decisa finalmente a uscire dal guscio nel quale si era nascosta o forse ciò di cui aveva bisogno era di un grilletto puntato contro un’altra testa, quella di Ares.
    E fu così che decise, semplicemente, su due piedi, che avrebbe preso la droga.
    Preso, non ingerito.
    Ispirato dalla teatralità del misterioso V, Ares tirò fuori il foglietto informativo che gli era stato consegnato all’ingresso e lo posò sul bancone, proprio sotto l’occhio del barman.
    Questo gli consegnò una pasticca gommosa, una piccola sfera che Ares sventolò davanti agli occhi di Jonah prima di mettersela in bocca, senza però ingoiarla ma nascondendola sotto la lingua.
    Dille anche questo, sembrava dire il suo sguardo, poco prima che si allontanasse.
     
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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: [Immagini disturbanti (gore, creature mostruose - nel link anche), manipolazione psicologica].
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.
    Le azioni descritte non sono ad ogni modo condonate e sono diretta responsabilità creativa di chi ha realizzato tali contenuti.



    You will be free from the bonds that bind you
    You are free from the bonds that bound you.

    Tempi spaventosi esigono persone spaventose, e per quanto stesse lottando, Naavke sentiva di non appartenervi più. Non si trattava unicamente della malattia, di vedere la morte così vicina da sfiorarla. Alcontrario, ne era confortato; prima o poi sarebbe accaduto anche a lui ed il fatto di sapere quando sarebbe successo gli avrebbe dato il tempo di tracciare un piano. Si trattava di lei. Era la prima volta che Cassandra era sparita per così lungo tempo, e Naavke iniziò a pensare al peggio. Sporse denuncia, ma non attese l'esito delle indagini della polizia per dispiegare le sue forze in cerca sua moglie. Introvabile. Svanita chissà dove, Cassandra aveva lasciato Naavke a doversi reinventare dopo molti anni nella sua più completa assenza. Era sollievo la sensazione che lo pervase nell'immediato, e ciò non lo sorprese. Cassandra era molte cose, ma soprattutto indecifrabile e terribile, e persino una persona come Naavke era saggia abbastanza da temerla. Vedere gli ambienti di casa Evjen, anche dopo la difficile conversazione con i figli, nei postumi di quella che era stata una vera e propria battaglia, privi della vibrazione sottile e continua di Cassandra li tramutò in qualcosa di nuovo, di diverso anche per uno spazio tanto familiare. Nulla era da escludersi: poteva essere scappata, forse rapita, o scomparsa, ed in nessuno dei casi Naavke era preoccupato. Cassandra non si sarebbe lasciata far del male da nessuno, se non altro sarebbe stata lei a strappare le carni dei suoi avversari ed uscirne vincitrice. Ma per quale motivo? Perchè ora? Come sempre, molteplici fili rossi si ricongiungevano come vene piene di sangue sporco attorno a Naavke, in attesa di districarsi in pochi battiti decisivi. La prima era quella della sua famiglia, ora destabilizzata come non lo era mai stata con la malattia di Coco, la perdita di suo figlio per mano di Naavke stesso, l'indebolimento di quest'ultimo, la scomparsa di Cassandra; poi, Vilhelm. Lo amava ancora, e per questo motivo sapeva di trattare con un individuo da lui cambiato ma tagliente tanto quanto lui, capace di ferirlo o persino ucciderlo. Infine, Libra. Lo scorrere degli eventi, come sempre, costringe gli individui a scelte difficili, e con i mesi contati e la sua posizione compromessa, Naavke voleva muoversi in fretta per assicurare il dominio dell'organizzazione su Besaid. L'Unico era scappato ma sarebbe potuto ritornare in qualsiasi momento, e il sospetto che la sua fuga avesse innescato le sparizioni così diffuse in città prendeva forme sempre più definitive, e la Setta non avrebbe potuto dimostrarsi impreparata. I piani per un'azione pervasiva, visibile e inarrestabile erano già stati ultimati, e proprio in quel periodo sussurri cominciarono ad emergere. Qualcosa era scappata dai laboratori blindati del governo, sotto il naso della brillante dottoressa Greseth e dei suoi colleghi, e Naavke ne fu deliziato. Una sostanza, un microscopico composto chimico capace di alterare la coscienza tanto da trasferire il corpo in altre dimensioni. Quindi, lo strappo nel cielo in cui l'Unico era fuggito non si poteva che definire un portale, qual era il legame con l'immagine d'insieme? Troppe domande importanti vorticavano attorno a quella questione per restare inesplorate. Naavke decise di indagare in prima persona, insinuandosi tra quelle spire ombrose sino ad arrivare al Perception.
    Conosceva la figura di Roger Lennox, ma lo considerava troppo borioso e presuntuoso per preoccuparsi di affari in una città di piccole dimensioni e così remota rispetto ad Oslo come Besaid, ed immaginò che i suoi figli avessero intessuto delle reti abbastanza grandi da creare il mercato che ora costituiva il business occulto del Perception. Si fermi qui, grazie. Non appena le fusa del motore si acquietarono, Naavke smise di osservare il display del cellulare, da cui assorbì le ultime informazioni per poi stagliarsi nel freddo della serata norvegese. Lasciò lo sportello aperto e lasciò uscire Vilhelm dopo di sè tendendogli la mano, richiudendolo poi una volta che fu uscito. Attese che la macchina ripartisse prima di iniziare a camminare, un paio di isolati alle spalle de Delaunay. Il freddo lo riportò piacevolmente alla vita, fuori dai suoi pensieri per intraprendere quella nuova impresa, mastodontica da molti punti di vista. La follia ci attende dall'altra parte. Soffiò unicamente nell'aria, lasciando emergere dalla condensa parole già scritte e pensate, e si rese conto di aver lasciato andare la mano di Vilhelm dalla sua, oramai sempre scoperta, solo allora. Qualche minuto dopo erano già all'interno del Perception, ognuno con un bracciale fluorescente al polso. Naavke non varcava da anni la soglia di quel luogo, e si preoccupò di studiarne attentamente i cambiamenti da una sala all'altra senza soffermarsi sui molti avventori, avendo già individuato parecchi volti familiari, tra cui quello di Ares Maleros, che evitò accuratamente nell'ammirare la sua prodigiosa resilienza. Non fu necessario chiarire a Vilhelm di avere già un privè prenotato - Naavke non si sarebbe mai offerto alle vulnerabilità della droga in uno spazio non ben nascosto.
    Seguivano il loro tragitto, eppure lo sguardo grigio di Naavke si intrecciò a quello nero come pece di suo figlio, Eyr. Non si aspettava di trovarlo lì, eppure la sua sagoma tra le ombre del Perception non lo sorprendeva. Entrambi affamati di caos, si ritrovavano a gravitare in ambienti pericolosi, fino ad esserlo per entrambi. Naavke riusciva a contenere più contraddizioni, e tra queste anche la consapevolezza di amare suo figlio e di comprenderne anche le sue oscure potenzialità - persino quella di attaccarlo. Eyr desiderava tracciare una strada unicamente sua, anche a costo di distruggere ciò che avrebbe trovato nel suo cammino e Naavke lo rispettava, rivedeva in lui la sua degna progenie. Lo riconobbe immediatamente e lo salutò con un cenno della testa, ma non disse nulla. Non ce n'era bisogno. Sapeva che quella notte avrebbe portato entrambi ancora più vicini alla morte che sfiorava tutti e due, e che non temeva - nè per sè, nè per suo figlio: era certo che almeno Eyr, che attraversava i suoi corridoi bui da spettatore adorante, sarebbe stato in grado di sfuggirle. Svoltò quindi l'angolo, e si trovò davanti la figura sottile di Jonah Losnedahl. Non era intenzione di Naavke fermarsi in piacevoli conversazioni anche con compagnie interessanti come quella del professore, eppure notò la paura nel suo sguardo e ne venne attirato. Il compito di un padre è quello di andare oltre le proprie paure per la propria famiglia, non è così Professor Losnedahl? Domandò pacatamente Naavke, fattosi più indietro rispetto a Vilhelm in modo da poter brevemente scambiare una parola con Jonah. Non era la prima volta, dopo la notte in spiaggia, che i due si erano incrociati: controlli mensili erano richiesti ad ogni individuo contagiato, e Jonah e Naavke avevano intrecciato le loro strade più volte tra i muri asettici dell'ospedale della città. Aveva notato la sua fierezza ed il suo timore nel rincontrarlo la prima volta, e la loro discussione aveva ulteriormente incuriosito il curatore: una persona dalle conoscenze simili a quelle di Jonah sarebbe stato un potenziale alleato prezioso, ed il suo volto andò ad occupare una delle ampie cornici nel palazzo della mente di Naavke, in modo che potesse essere esposto nel momento più opportuno. Ora gli gravitava vicino, la propria ombra sovrapposta alla sua sino a formarne una ancor più scura. Se è qui oggi, è perchè è disposto a morire per i suoi cari. Questo tipo di lealtà non è comune, le darà la forza necessaria a proseguire nell'ignoto. Del resto, è spesso l'oscurità a misurare il carattere di un legame: senza la guida della luce bisogna esprimere un grande voto di fiducia. Trovo che a quel punto sia la cosa migliore abitare il buio come se gli fosse sempre appartenuto. Nel cementificare il contatto delle proprie iridi in quelle brillanti e languide di Jonah, Naavke rammentò di avere a che fare con una persona diversa da lui, che avrebbe notato nella propria determinazione e freddezza sentimenti radicalmente differenti da quelli in cui avrebbe forse desiderato ritrovarsi. Naavke sarebbe sempre stato pronto a strappare carne dalla gola altrui, ed avrebbe utilizzato la violenza tanto naturalmente tanto quanto un respiro.
    Lasciò quindi un ultimo sguardo al suo prezioso interlocutore e si riunì a Vilhelm, sfere di Liquid Death in mano, per fare il loro salto nel buio. Le pareti del privè accoglievano a luce bassa gli ultimi pensieri prima di una morte lenta e leggera, fluttuante in modi che Naavke e Vilhelm avevano condiviso con Vilhelm in precedenza. Anni fa avrei considerato un'esperienza simile con te con una scintilla di curiosità. Meditò piano Naavke, porgendo una sfera morbida e dorata nel palmo di Vilhelm. Si era accomodato su uno dei soffici divani, accavallando le gambe elegantemente coperte dai pantaloni scuri, prendendo le forme di un'ombra che nella notte si scambia per un mostro. Ora invece non lo so. A quanto sembra attraverseremo le tenebre insieme ancora una volta. Nel sentir dissolvere la Liquid Death sulla lingua, Naavke fissò nello sguardo affilato ed inespressivo la consapevolezza di avere al proprio fianco l'unica persona che nel condannarlo aveva espresso amore. Non sapeva se Vilhelm avrebbe affilato il coltello proprio mentre la droga esercitava il suo effetto, se avrebbe ricambiato il gesto di tanti anni prima, tuttavia, nel vedere la sfera ancora intatta a contatto con il suo passato compagno sapeva sarebbe stata una prospettiva concreta. Aveva già posato le sue mani su di lui, l'aveva già condotto nel buio della cripta, ormai la condanna era già stata emessa. Per il momento, Naavke aleggiava come uno spettro sulla Terra, e per quanto ogni attimo lo avvicinasse ad una fine imminente, sperava di avere abbastanza tempo per rendere tale conclusione significativa. Anche per questo, se avesse dovuto rivelarsi prematura, Naavke era felice che fosse Vilhelm. Lasciò quindi che la droga entrasse in circolo sapendo di avere accanto a sè un lucidissimo compagno, ed attese pazientemente accomodato sul divano che i primi effetti si manifestassero. Con calma, ancorò un indice al colletto del maglione scuro che indossava, e fece in modo di restare nella più posizione confortevole possibile mentre, come auspicato, un senso di instabilità si faceva largo in lui.
    Il terreno si sgretolava sotto ai piedi, e Naavke si preparava all'ingresso negli Inferi. Dante doveva essersi immaginato così nel capitolare sino ai cancelli dell'Inferno, e anche Naavke si lasciò guidare dal proprio Virgilio, un istinto che lo spinse a rinnegare qualsiasi forma di controllo. Dove sarebbe andato, non avrebbe avuto alcun uso. Un trip buono ed uno cattivo sarebbero stati sovrapponibili: la sofferenza era per lui integrante a raggiungere l'equilibrio. Non la rifuggì neanche quando venne colpito violentemente, dopo che i sensi acuiti e limpidissimi lo riportavano a quella notte in spiaggia dove ogni respiro riecheggiava con l'eco di una campana millenaria, allineando la carta parati variopinta della stanza alle fronde che anni prima avevano permesso a Naavke di conoscere l'odore del sangue di Vilhelm. Gli rivolse lo sguardo stanco ma acceso, e rivide sul suo volto macchie rosse che lo sporcavano ovunque - era morto, eppure gli parlava. Apriva le labbra e ne uscivano farfalle e falene, le anime di coloro che sono morti, trasformazione, rinascita. Hai fatto bene a scappare. Nascere fa male. Il coltello ora era in mano al cadavere di Vilhelm, e le ferite iniziavano a formare emorragie ovunque sul corpo di Naavke, sporcandogli i vestiti, scivolandogli tra le mani, bagnando il pavimento. Non era reale, lo sapeva, ma il dolore lo portò a sputare una risata ed a distendersi. Sarebbe finito tutto molto presto. Tu sei stato la mia primavera. Soffiò, pronto ad iniziare la discesa. Li vide sul pavimento bagnati del suo sangue gli zoccoli sublimi lasciare tracce, comparire un passo dopo l'altro, assieme al crescendo di sussurro sempre più acuto e frastornante. Seguì le tracce con lo sguardo sempre più sfocato sino a che non sprofondò sempre più giù, fino al buio, alla nebbia, finchè il volto oblungo e aperto di Vilhelm si dissolse nel buio e, tornato nella sua tomba, Naavke venne intrappolato tra pareti di marmo. La lastra a coprirlo del tutto ne sigillò la cripta appena le palpebre si abbassarono del tutto ed il respiro, progressivamente più profondo e rarefatto non si fermò.
    Sapevo saresti venuto. Occhi tondi e gialli nel buio si fissarono su Naavke non appena potè immergersi nell'aria densa e rugiadosa del Niflheimr. Le impronte insanguinate tornavano alla loro proprietaria, si era trattato solo di una questione di tempo. Morirò presto. Spiegò Naavke, che senza perder tempo raccolse una pietra affilata tra quelle al suolo, immerse nella foresta rigogliosa di Besaid. Si scoprì un braccio, e nell'osservare la figura mastodontica di sua moglie pagò il suo pegno: tagliò lungo la carne dal polso al gomito nella parte interna del braccio sino a tratteggiare una X, runa antica che nel suo significato arcano corrispondeva a "dono". Solleticato dal timore, ma non per questo pronto a soccombervi, Naavke si avvicino a sua moglie sino a lasciarsi raccogliere il volto dalle sue mani umane, conficcate ai lati della sua testa, mentre sotto gli occhi, in quel nero completo, Cassandra attirò il marito sino a sorbirne il sangue che ora gocciolava tra le foglie d'erba. Naavke respirava attraverso il dolore, anche quando le fauci di Cassandrasi schiusero, non viste, attorno ai tagli per strapparne via la carne. Si ergeva torreggiante su di lui, una creatura fuori da ogni paradigma umano - Cassandra, Moder, una Jotunn, gigantessa figlia di Loki stesso - affamata di dolore e di carne, pronta a raccogliere zelanti fedeli ed a bruciare ogni cosa a favore della sua brama indomita, come la natura che spazza via intere civiltà con tsunami e terremoti. Cassandra, libera dalla sua forma umana, si preparava ad assestare le sue scosse. Questa non è Besaid. La puntura impietosa dei denti appuntiti di Cassandra si ritrasse presto, e restando a fissare il marito negli occhi, rispose dritta nella sua mente, là dove Naavke avrebbe potuto accoglierla e sentirla. No. Iniziò, accarezzando coi pollici neri gli zigomi di Naavke prima di morderlo nuovamente. Siamo là dove il tronco dello Yggdrasil finisce. Finalmente. Quella masticazione, continua e rumorosa, proseguiva mentre le parole fluivano tra i due. Cassandra, dai suoi occhi simili e mortali come sfere di quella stessa droga che aveva intossicato Naavke, aveva colto ogni dettaglio, strappato dalla carne stessa i ricordi e le debolezze di Naavke. Vilhelm Pettersen, Calypso. Te. La morte è vicina, si trova qui e non sono io. Se avesse avuto un volto, Naavke avrebbe potuto chiaramete leggere ciò che in quei sussurri subidorava solamente: rammarico. Avresti voluto essere tu. L'Unico era quindi lì, ed anche fosse donandogli sofferenza, Cassandra sembrava aver ben compreso lo stato in cui Naavke e la loro famiglia versavano. L'Organizzazione deve fare ciò che deve, ora. Solo a quel punto la creatura fece un passo indietro, staccando i palmi dal volto di Naavke finchè non fu lui stesso a raggiungere sua moglie, che lo spinse violentemente via. Non c'è più tempo. Libra non è pronta. Lo scambio serrato tra i due si fermò in quell'istante, e sia Naavke che Cassandra sapevano che avrebbero dovuto scoprire le carte il prima possibile, seppur a modo loro. Non c'era spazio per aperte bugie, ciò quantomeno era chiaro nella furia dello sguardo di Naavke e nella fiamma di quelo di Cassandra. La fede ci sarà, il cibo ci sarà. Me ne assicurerò personalmente. Devo sapere che tornerai. Si trattava di una prova di buona fede: Naavke non avrebbe potuto promettere a Cassandra che al suo ritorno, semmai questo fosse avvenuto, avrebbe ricevuto tutto ciò che desiderava, ma avrebbe tracciato un piano per raggiungere tale obbiettivo se ciò fosse stato necessario. Nelle profondità recondite della sua mente, al sicuro dalle iridi disumane di Cassandra, si celava la speranza che lei sarebbe rimasta tra le nebbie dello Yggdrasil per sempre. Tornerò. Si trattava di un avvertimento. Persino in forme tanto distanti da quelle umane che Naavke sapeva leggere alla perfezione conosceva il disappunto di Cassandra, lo fiutava nell'aria, ma non forte abbastanza da costituire un pericolo. Non ancora. Sarò pronto, mia cara. La vaghezza delle loro parole non tradiva l'ambiguità dei loro piani. Era ormai evidente: Naavke e Cassandra avrebbero proseguito per le loro strade, indissolubilmente legati. Nel volgere lo sguardo, in un tempo che era parso rapidissimo ed eterno al tempo stesso, Naavke notò la stessa emorragia di immagini che aveva vissuto mentre aveva privato Coco del suo potere e della sua maternità ed era stato condannato da Vilhelm, con le luci soffici del Perception a richiamarlo all'altra vita. Un ultimo, lungo sguardo a Cassandra, che restò immobile lì, a fissare a sua volta Naavke, fu abbastanza per rivelare la voragine sempre ben nascosta tra i due, ora riemersa e profondissima. Di lì a poco, proprio come ore prima, Naavke non fece nulla per combattere il cedimento del corpo: cadde nell'erba bagnata e nuovamente con zoccoli arcani nel campo visivo, si abbandonò al buio.

    ◊◊◊

    Il buio continuava ad avvolgere la pelle nera come pece di Cassandra, che fermò il suo cammino solo quando scorse la figura del secondo uomo venuto a parlarle quella notte. Per la prima volta Eyr avrebbe posato lo sguardo sulla figura di sua madre, le sue vere forme, sganciate dai limiti di una particolarità che la costringeva ad una limitante forma umana. Figlio mio. Sussurrava nella mente ancora una volta, dove alla voce della donna che aveva sempre conosciuto come madre Eyr avrebbe anche udito, in lontananza, urla disumane di lungo dolore e libertà, come quando la morte sopraggiunge dopo una lunga tortura. Con pazienza Cassandra ascoltò ogni silenzio e parola del figlio, colui che nella famiglia sapeva sarebbe stato il forse più fervente tra i suoi fedeli o il più squisito dei suoi banchetti. Coglieva le sue fragilità, il suo tormento, e l'avrebbe nutrito con la stessa cura di quando si occupava di lui da bambino, specialmente a seguito della discussione appena avvenuta con Naavke. Fa male, non è vero? Domandò infine, ignorando il timore negli occhi di Eyr per portare senza gentilezza le mani ad afferrargli il volto, fermandolo in una carezza spaventosa ed amorevole. Finirà. Immagina un mondo nuovo, Eyr. Tuo padre lo teme ed attacca per difendersi. Parole tese ad insinuare una differenza inconciliabile tra Eyr e Naavke, mentre Cassandra conservava la verità e la rendeva nebbiosa tanto quanto il grigio che tutt'attorno a loro fluttuava infittendosi. Hai mai pensato al motivo della nascita di Libra? Liberare, creare una nuova Besaid, eliminare i limiti di noi persone straordinarie sulla Terra. Questo "Unico" vuole riportarci alla normalità, alla disgustosa piccolezza del resto dell'umanità. Ogni Besaidiano o Besaidiana è il favore degli dei stessi. Tu potresti essere la loro nuova guida, lo sarai. L'eccezionalità di Eyr sarebbe diventata la regola nei mormorii sinistri di Cassandra, che con la certezza di un oracolo dipingeva nuove immagini nella mente del figlio, là dove con Naavke sarebbe stato inutile avrebbe invece gentilmente spinto Eyr ad una fiducia completa se gliel'avesse permesso. Resta al fianco di tuo padre e di Calypso. Tempi duri vi attendono, Naavke sta cercado di fare del suo meglio. Io tornerò, e potremo essere una famiglia ancora una volta. Ancora sottile, il taglio che Cassandra operava pianissimo al legame tra Eyr e Naavke prendeva le forme di una lentissima erosione, talmente minuscola da scomparire. Ora, puntando gli zoccoli al terreno, Cassandra si chinò sino a portare gli occhi brillanti e gialli a specchiarsi in quelli del figlio, lasciando scivolare ai suoi piedi la pietra sporca del sangue di suo padre. Dimostra il tuo amore, Eyr.

    Edited by ‹Alucard† - 19/11/2023, 21:17
     
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    Non provava mai ad entrare nel mondo degli altri, Eld. Al contrario, lasciava che fossero elementi esterni ad infiltrarsi per strisciare nelle sue stanze interne, camere buie in cui aveva nascosto la maggior parte della sua vita, la stessa che aveva distrutto in tanti piccoli pezzi, bui come le ombre di un passato che nessun altro avrebbe potuto guardare. Voleva che gli altri lo pensassero innocuo, innocente, semplice, forse un po' sfortunato, un po' spaesato. Al contrario, Eldjarn aveva imparato a muoversi in quegli istanti che gli altri non ricordavano, non potevano vedere, non immaginavano esistessero. C'erano cose che nessuno avrebbe mai potuto accomunare alla sua figura e alla sua persona, erano le stesse che invece lo avrebbero distinto da qualsiasi altro essere umano. Anche coloro i quali pensavano di conoscerlo alla perfezione avrebbero scosso il capo di fronte a certe rivelazioni, e questo Eld lo sapeva. Il buio lo nascondeva come un manto largo e accogliente nel più freddo degli inverni, il ragazzo aveva imparato a sentircisi a casa più che al caldo di quattro mura di cemento.
    E immerso in quel tunnel sotterraneo di cemento illuminato da luci violacee, rosse, blu, Eldjarn se ne stava seduto su uno sgabello di fianco il bancone del bar in attesa del momento che gli avrebbe fruttato il guadagno contrattato con Tara e Magnus. Anche non facendo nulla e dando a chi gli stava intorno la parvenza d'esser fuori posto, quell'istante era -e sarebbe stato- per Eldjàrn fonte assoluta di intrattenimento. Dal suo angolino silenzioso nel mondo, il ragazzo era stato spettatore invisibile degli ultimi avvenimenti che, alla fine, mai in prima persona lo avevano beccato. Quel terremoto di notizie catastrofali riguardanti la città lo avevano sfiorato appena, non erano davvero state capaci di scombussolare il suo mondo per davvero. Era stato quasi come se l'essere il ratto della società lo avesse alla fine salvato. In qualche modo, quell'insieme di avvenimenti era riuscito in una sola cosa: aveva confermato la già presente e continua sensazione di non appartenenza, quella che gli faceva credere di non essere poi davvero lì dov'erano invece tutti gli altri; un'ombra di passaggio che non tutti erano capaci di vedere. E gli stava bene.
    Le dita della mano sinistra affondavano nella ciotola delle noccioline che il tizio dietro al bancone - ne aveva già dimenticato il nome - gli aveva messo sotto al naso senza chiedere, le dita dell'altra mano picchiettavano contro il marmo ad un ritmo cadenzato. Una risata leggera alle sue spalle attirò la sua attenzione, spingendolo a voltare il capo da un lato senza però muovere il resto del corpo di un solo centimetro. Una chioma di capelli lunghi e dorati s'infilò nel suo campo visivo tirandosi dietro un viso angelico, due occhi chiarissimi, quasi grigi, lo puntarono con interesse. La ragazza si avvicinò per sedersi di fianco ad Eld, il vestito corto lasciava scoperte due gambe snelle, Eld osservò quella figura da piedi a testa, fermandosi poi però sulle occhiaie appena pronunciate che stonavo col resto del corpo di lei. E tu chi sei? gli domandò la ragazza voltandosi col busto nella sua direzione, il sorriso stampato sul volto non aveva neanche lontanamente la parvenza d'esser forzato: sorrideva come se fosse sinceramente divertita dalla situazione e, forse, dal buio di Eldjàrn che palesemente faceva contrasto a quella luce che ora gli sedeva accanto. A vederli vicini, sembravano notte e giorno. Chi sei tu? rispose con una domanda alla domanda, al che la bionda sorrise ancor di più, drizzando la schiena. Il tizio strano col potere geniale? chiese lei. Ah... la tizia col disturbo dissociativo dell'identità? chiese franco, ridendosela lievemente per qualche momento, ma appena prima che potessero continuare, Delilah venne distratta da una mano sulla sua spalla scoperta, la bretellina del vestito rosa brillantinato scomparve sotto il palmo della mano di Magnus che, cauto, esercitò un po' di pressione sul corpo dell'altra per tirarla verso di sè o, quanto meno, allontanarla da Eldjàrn. Delilah. si pronunciò l'altro dopo averli raggiunti ed essersi posto fra di loro, il tono della voce pacato. Vai ad importunare qualcun altro, per cortesia. aggiunse quindi, scuotendo il capo dinanzi alla reazione dell'altra che, invece di sentirsi offesa, lasciò ad una delle sue leggere risatine librarsi nell'ancora pacata atmosfera del Perception poco affollato. Posò quindi di nuovo uno dei due piedi taccati per terra ed allungò uno mano verso Magnus, palmo aperto contro il soffitto. Attese sollevando appena il mento in direzione dell'altro e, quando Magnus sospirò affondando una delle mani nella propria tasca dei pantaloni, Delilah si allungò ad afferrare la bottiglia di birra dalla quale Eldjàrn aveva bevuto fino a quel momento. La pillola che le diede Magnus finì quindi direttamente sulla lingua di Delilah che l'accompagnò presto con un lungo sorso di birra prima di sollevarla in direzione del viso di Eldjàrn, come a volerlo ringraziare. Quando ebbe posato nuovamente la bottiglia sul bancone, Delilah gli diede le spalle per fermarsi brevemente di fronte a Magnus e strizzargli la guancia con due dita, dopodiché si dileguò nelle altre stanze del Perception. Eldjàrn non potè trattenere un sorriso divertito mentre, con lo sguardo, seguiva la figura di Delilah scomparire oltre il guscio più vicino. Il solito ordinò Magnus al barista senza aggiungere altro e questo gli mise un bicchiere ricolmo di liquido chiarissimo, acqua dal tasso alcolico alle stelle che Magnus mandò giù in un sorso. Buon divertimento. Dovesse scapparci il morto, fà in modo che sia io il primo ad essere informato. disse solamente senza guardarlo nemmeno mentre si voltava per allontanarsi dal bancone e scomparire come Delilah oltre la porta che dava sul corridoio degli altri spazi del Perception. Restò ancora un po' seduto, Eldjàrn, almeno finché non venne raggiunto dall'ennesima figura. Tara l'aveva conosciuta al Labirinto, gli era piaciuta quella postura fiera e il bianco latte della pelle, la sicurezza di chi crede di aver conosciuto anche il centro del mondo fatto di lava incandescente per esserne poi risalita in superficie ancora intatta. Che c'è, Tutina ti ha importunato? Non ti preoccupare, lui è così con tutti. scherzò la donna, ma Eldjàrn non sorrise, stavolta, restandosene con le dita e lo sguardo affondato nelle noccioline di fronte a sè. Sentiva gli occhi di Tara scrutarlo, forse alla ricerca di un visibile pensiero, forse di una preoccupazione che, non vedendogliela aggrappata addosso, si specchiò dentro e su di lei. Andrà bene. E alla fine della serata ti darò il resto come stabilito. aggiunse lei e, dunque, Eldjàrn si voltò a guardarla, le labbra strette in un sorriso di convenienza. Sei gentile, Tara. si pronunciò Eld, guardandola ora fermamente negli occhi, quasi senza batter ciglio. La rassicurazione è per me, o...? chiese con tono di voce pacato. Lui avrebbe fatto quello che poteva, non avvertiva nessun tipo di costrizione. Avevano messo su un evento che includeva l'uso di una droga di cui ancora si sapeva poco e niente, aveva accettato a farne parte solo per la ricompensa economica, questo non significava che avrebbe sudato come un idiota per garantire la sopravvivenza a chiunque. Era uno, solo, avrebbe fatto quello avrebbe potuto. Niente di più, niente di meno. E se fosse andata liscia, avrebbero anche dovuto calcolare un aumento di percentuale dei suoi guadagni. ... sei preoccupata per qualcosa in particolare, forse? chiese Eld quindi dopo aver sorseggiato un po' della birra. Il ticchettio delle zampe di quella che gli venne presentata come Xena lo portò a voltarsi verso il cane per allungare una mano nella sua direzione e accarezzarne con interesse il manto liscissimo fino alla nuca, fra le orecchie. Pepi, ragni, serpenti; tutto nella stessa frase, non fa una piega. Sono un adoratore anche io. ammise, annuendo col capo mentre lasciava andare la presa su Xena e tornava a drizzare la schiena. Sollevò il mento in direzione di Tara per congedarsi da lei e, sollevandosi dallo sgabello finalmente, terminò di sorseggiare la birra riposando la bottiglia ora vuota sul bancone e lasciando una banconota di fianco ad essa la fece strisciare con due dita verso il barista.

    ***


    Le stanze del Perception si erano riempite di volti, mani, gambe, corpi che ora giacevano qua e la privi di sensi, braccialetti luminosi stretti attorno ai polsi, ogni tanto se ne illuminava uno ad intermittenza e lì interveniva lui: posava il palmo aperto sul petto o afferrava una mano, una scarica d'adrenalina di qualche secondo e le palpebre tornavano a sollevarsi, un buco nero al centro delle iridi avrebbe potuto risucchiare tutta la luce della stanza, allora Eld ritirava la mano, si voltava, spariva, oltre.
    Non gli interessava di niente e di nessuno, lì dentro. Almeno fino a quando non vide la sagoma slanciata di Elise, e non ne fu stupito. Il corpo snello avvolto in un vestito, i lunghi capelli le ricadevano sulle spalle, danzavano ad ogni suo movimento, accompagnavano il corpo e le forme appena pronunciate con dolcezza. Se per tutto quel tempo era riuscito ad evitare la maggior parte delle domande, delle conversazioni, delle occhiate che gli aveva lanciato chi era stato silenziosamente interessato alla funzione della sua introversa figura all'interno di quelle mura, ora Eld si ritrovava a sorridere divertito vedendo Elise andargli incontro, una fetta di quel mondo che teneva sempre sott'occhio, in attesa di afferrarlo o proteggerlo, guidarlo laddove avrebbe voluto esser portato. Perché quella era Elise, quando chiedeva otteneva, quando pretendeva otteneva, un fiume in piena in cui Eld si era immerso per la prima volta quando era stato solo un bambino e, da quel momento in poi, lo aveva trascinato in luoghi che altrimenti non avrebbe conosciuto mai. Con loro c'era sempre stato anche Eyr e i suoi occhi neri, Eyr e i suoi capelli spettinati, Eyr e il suo egocentrismo. In tre eran sempre stati e, mentre Elise continuava ad avvicinarsi ad Eld, lui venne nuovamente pervaso da quella scomoda sensazione che, alla fine, neanche quello avrebbe mai più funzionato, neanche loro avrebbero più funzionato. Nell'ultimo periodo si erano rotti, delle crepe si erano allungate fra di loro, avrebbero voluto separarli e ci stavano riuscendo, forse? Nella frazione di quell'istante scacciò via il sorriso dalle labbra, faccia a faccia con Elise ora, sollevò appena il mento nella sua direzione per salutarla. Hey. sussurrò solamente, per salutarla. I frammenti di quei pensieri lo pungevano dentro da qualche tempo, sanguinava paura e rabbia, Eld. Al contempo però, il tocco di Elise rimediava ad intermittenza a quel caos che aveva in testa, lo portava a mettere da parte la tristezza e, quindi, le sorrise nuovamente. Quando puntò lo sguardo in quello di lei, Eld notò le pupille dilatate. Resta nei paraggi, ok? Non è il solito gioco, non siamo al Labirinto. disse solamente, un monito all'apparenza innocuo, profondamente significativo: non avrebbe voluto perderla, non avrebbe dovuto. Sapeva quanto estrema fosse la vita di Elise, sapeva quanto estreme fossero le sue azioni, le sue scelte, le sue esperienze e, sebbene non avesse mai voluto mettere un freno alla persona che era, era comunque consapevole del fatto che, spesso, non riusciva a riconoscere i propri limiti. Era uno "stai attenta, anche se ci sono e mi prendo cura di te". Quando Elise gli si spinse contro per posare le proprie labbra sulle sue, Eld restò immobile, in bilico: un elastico che viene tirato e rischia di strapparsi, Eld cercò di limitarne i danni. Quando Elise tornò a staccarsi da lui, l'espressione giocosa nello sguardo di lei si contrappose allo sfondo, laddove le pareti erano scomparse, il buio del Perception pure, tutto lo sfondo cambiò dietro lo strappo dello scenario che, ora, nient'altro comprendeva se non la figura di Eyr. Se ne stava in piedi dietro le spalle di Elise, sull'uscio della sala bar del Perception. Lo sguardo pece sotto la frangetta spettinata dell'amico risucchiò qualsiasi cosa per un istante ed Eld non potè far altro che lasciarsi risucchiare lì dentro a sua volta. Forse Elise notò la sua espressione ghiacciarsi e per quello si voltò, s'allontanò - Eld non fu in grado di distinguere il susseguirsi di quegli attimi perché i frammenti dei propri pensieri tornarono a conficcarsi nella pelle e, per un momento, Eld si vide avvicinarsi frettolosamente al corpo di Eyr per afferrarlo dalle braccia e spingerlo contro il muro, all'ombra delle luci fioche del Perception, là dove solo loro avrebbero potuto vedersi. Un tocco che richiamò i ricordi di nottate lunghissime trascorse in due, in tre. Avevano condiviso tutto ciò che avrebbero potuto condividere, Eyr, Elise ed Eld, e ora sembravano faticare a respirare lo stesso ossigeno. Quando era accaduto? Che diavolo ci fai qua? chiese Eld a denti stretti, il viso a qualche centimetro di distanza da quello di Eyr. Non è la serata giusta per una delle tue cazzate. soffiò a voce bassa poco prima che le mani lasciassero piano la presa ferrea sulle braccia dell'altro per allontanarsi, un'ultima occhiata ed ecco che gli diede le spalle per cercare la figura di Wade, pronto a chiedergli di sbattere fuori la testaccia dorata di Eyr. L'intenzione fu reale, la messa in atto venne sabotata dall'amico che, ovviamente, ingoiò la pillola dorata sotto ai suoi occhi.
    Dovette serrare le labbra e stringersi le dita in due pugni, le unghie corte riuscirono comunque ad infilzarsi nella pelle dei palmi mentre Eld provava a trattenere il respiro per non fare una scenata, per non scatenarsi contro l'amico, per accettare il fatto che, considerata la situazione, considerato l'odio e l'amore che provava per lui, non avrebbe potuto farlo uscire in quel stato o l'avrebbe perso. E il filo di quel pensiero accese paure e domande: era impossibile scappare, sfuggire alla consapevolezza che, forse, aveva cercato d'essere tutta la vita chi invece non era. Che gli piaceva Elise tanto quanto gli piaceva Eyr. Che quella relazione a più parti non era salutare, che forse non avrebbe dovuto più nascondersi. Che forse, forse, forse - c'erano attrazioni che non avrebbero potuto esser controllate e scelte che non avrebbero potuto esser compiute.

    ciao fa schifo, scusate :rainbow:
     
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    Tensione trasmutata in tremore, il semplice professore varcò la soglia del locale con la stessa sicurezza con cui una pecora potrebbe approcciarsi ad un branco di lupi: schiena curva, abiti scuri, passo affrettato e silenzioso per sgusciare indisturbato, ignorato da quella che era ben conscio essere una folla di malviventi, mondo oscuro in netto contrasto con quello di luce che era solito navigare, seppur sempre con riserva. Lì, però, seppur la sua presenza fosse intuibile solamente per la macchia fosforescente del braccialetto barattato al proprio telefono (solo un’altra ragion d’ansia), si sentiva fin troppo esposto alle creature della notte a cui mai avrebbe anche solo pensato d’associarsi, figuriamoci volontariamente condividere un destino prossimo alla morte, il cui solo pensiero contribuiva al raggelarsi del rapido sangue nelle braccia, avvolte da abiti un po’ più larghi del solito, stress – no, disperazione – superiore a qualsiasi dieta. D’altronde, cos’altro avrebbe mai potuto spingere la forte Tara, comprensiva ed amichevole nei suoi confronti, a schiudergli una possibilità di tale portata come ultima spiaggia d’una serie di tentativi, falliti o meno, di trovare risposte o minime soluzioni ad una realtà nella quale l’intera cittadina era precipitata, ciascuno con dolori da affrontare, con lacrime da versare; e le proprie, macchiate di colpa, tornavano inesorabili ad ogni colpo di tosse della piccola Anniken, ogni richiesta di rincasare presto in pomeriggi di sole, ogni sguardo cupo colto con la coda dell’occhio. Lo vedeva, lo sapeva, lo sentiva che sua figlia stava cambiando, ogni dettaglio di quella stramaledetta condizione – alla quale l’aveva costretta con le sue stesse mani – pungeva come ancora un altro spillo nella pelle, costringendolo a rimanere vigile, ad affrettarsi verso una cura al baratro che inesorabile s’avvicinava. Aveva approcciato quel nuovo capitolo della propria vita con così tanta fiducia, ed era lì, eppure al contempo non lo era affatto, gli sembrava di calpestarne le scricchiolanti schegge ad ogni nuovo litigio con i suoceri, ad ogni velata ed aperta accusa d’esser responsabile della scomparsa della sua ex-moglie (come se si fosse mai dimostrato violento!), ad ogni singola teoria stracciata durante una delle ennesime riunioni sconclusionate dello staff medico di Besaid, camici bianchi macchiati dalle infinite speranze promesse incautamente ad una città in preda alla disperazione, esattamente come lui – come i volti sconosciuti che lo circondavano. Per quanto normalmente le loro azioni sarebbero parse incomprensibili ed inammissibili agli occhi del buon Jonah, s’era teso così tanto tra delusioni ed ansie da esser quasi capace di scendervi a patti, e lo stesso con la realtà del pericolo nel quale s’era andato a cacciare: l’ombra più minacciosa della serata era stella dell’evento stesso.

    Così infagottato di pensieri, vagò tra le sale sconosciute con la sola meta d’un volto familiare, ritrovato nel dolce sorriso di Maeve - con la quale aveva piacevolmente conversato di recente - e nel determinato sguardo della ragion stessa della sua presenza a quell’assaggio di morte, Tara, che lo indirizzò preoccupata verso un’insolita figura al bar, stazza sempre riconoscibile nonostante il temperamento fosse in qualche modo assopito; ormai coinvolto in un triangolo nel ruolo d’ambasciatore, non poté sottrarsi alla propria pena, alla quale, in realtà, avrebbe adempiuto indipendentemente. Nelle notti più oscure, quasi quanto l’ambiente che l’avvolgeva, le maligne figure ch’era solito delineare nei propri incubi s’erano ritratte a favore di Ares, scudo sicuro seppur fortuito, e della maledetta spiaggia ove l’aveva poi trovato stretto fra le braccia d’Athena – erano tra le persone con cui aveva più legato in quel covo di matti che s’era rivelata essere la cittadina intera, ma la gratitudine era stata la sua trappola, ora invischiato in un tira e molla inaspettato al quale nessuno di loro voleva prender parte. Perciò non si sorprese più di tanto al fare esageratamente infastidito del… beh, avrebbe voluto definirlo amico, ma a quel punto Jonah era sicuro di rassomigliare ad un sacco da boxe nella mente dell’altro – ed infatti incassò le sue lamentele, lasciandosele scivolare addosso al memento mori ch’era quella stessa grave voce, il cui comportamento stava cominciando a tracciar leggeri solchi nella… virilità del gentile professore. Tuttavia, fragile foglia contro rabbioso orso tentennò nell’aprir bocca, conscio ciascuna delle mille parole di conforto avrebbe provocato ulteriori effetti indesiderati, ed invece indietreggiò solamente, assieme al doppio desiderio d’aiutarlo – il proprio e quello dell’amica – trasportato su gracili spalle. Fu sul punto d’elaborare una nuova strategia quando la sua attenzione fu catturata da maschera bianca su sfondo scuro, misterioso personaggio esibitosi in un’elegante presentazione su d’un rozzo palcoscenico che gli permise (seppur per pochi secondi, forse malauguratamente) d’ovattare il costante allarme della propria mente ed accogliere il risveglio d’una sensazione purtroppo da tristezza messa a tacere. Curiosità sbocciò negli occhi chiari per la prima volta quella terrificante serata alla realizzazione delle conoscenze e della cultura altrui; il proprio nome, pronunciato senza che lo fosse veramente, esattamente come quello di V, fu fonte di mille domande piovute nella mente del professore come il petalo stretto tra le sottili dita. «Evidentemente è in cerca di protezione, seppur il destinatario del suo messaggio di pace si rifiuti di ascoltare…» veloce vinse la verità, seppur distrattamente rivelata, accompagnata da una rapida occhiata all’Enialo in questione prima di guizzare sul proprio interlocutore, «piacere di conoscerla». Esitò nell’esporsi ulteriormente, evitando d’azzardare ipotesi sul possibile lavoro che avrebbero potuto svolgere assieme – un biologo ed un criminale, sicuramente nulla di buono; dimostrò la teoria la proposta altrui offerta, occhi sgranati non solo al nome della propria mittente, bensì soprattutto alla tarda realizzazione che la scia di violenza accompagnante Ares superava il suo nome e ben s’intrecciava a quelle disegnate dagli inquilini della notte che li circondavano, zona sicura macchiatasi di paura.

    Lo sguardo fino a quel momento attribuito ad un burbero carattere s’imponeva ora minaccioso sui mesi trascorsi in palestra, la consapevolezza d’essere un misero insetto nel cammino d’una persona improvvisamente sconosciuta lo riportava alla quotidiana sensazione di sconfitta che lo andava via via consumando, giorno dopo giorno, nonostante la convinzione d’aver costruito una nuova vita nella sua città natale, d’aver imparato cosa significhi veramente viverla; incapace ancora di capacitarsene, seguì i movimenti di sfida dell’uomo dinnanzi a lui con un’impazienza inaspettata, le domande che s’accumulavano sul suo stomaco lasciavano poco spazio a gesti e parole di conforto. «Va bene, se ci tieni le riferirò che non hai problemi al momento, siccome ti lamenti come sempre. Sappi solo che il motivo di questo viavai è la sua preoccupazione – la nostra preoccupazione – nei tuoi confronti, giustificata oserei dire. È così difficile accettare altri possano tenere a te? O che non tutti affrontino la vita al medesimo modo, con la rabbia a te consona?» ribatté al suo fare drammatico, poggiandosi contro il bancone solo all’allontanarsi del suo interlocutore: era a sua volta consapevole quel litigio tra amanti alla lontana non sarebbe potuto durare ancora a lungo e che farli incontrare sarebbe stata la vera soluzione, ma la testardaggine pareva una caratteristica comune. Ora a sua volta infastidito, si voltò, sfilando il foglietto informativo e ripondendo il petalo nella tasca, interessante puzzle che però avrebbe risolto in un secondo momento nella speranza di raggiungere presto l’uscita – speranza che gli si bloccò in gola quando rimasero solo lui ed il singolo proiettile da roulette russa nella sua mano, in un angolo meno rumoroso del locale. «Si rilassi prima di prenderla, o avrà un brutto trip» gli era stato consigliato alla consegna, ed a lungo aveva atteso il rallentare d’un battito incessante, persino la saliva pareva aver difficoltà a scendere in quel momento, il sangue nuovamente raggelato a seguito dell'ennesima delusione nel lago nero in cui s’era tuffato; a maggior ragione, fu sorpreso quando a destarlo dalla propria solitudine fu un altro inaspettato figuro, questa volta conosciuto. Naavke Evjen, curatore del museo ed evidentemente molto altro – stavolta verità attesa, forse per scarsa fiducia comunque incapace d’inabissare la curiosità nei suoi confronti, una mente brillante tinta di motivazioni a lui oscure con la quale aveva avuto il piacere di conversare alcune volte, senza mai cavarne veramente quanto più avrebbe voluto. D’altronde, Jonah ben si rivedeva nel gatto tentato dal lardo, deformazione professionale o forse solo sventatezza innata, ed il discorso pronunciato non fece altro che ricordarglielo, ricordargli chi fosse, chi avesse deciso d’essere per colei che definiva ragion stessa della propria vita, quali passi sarebbe stato in grado di compiere per salvarla; «Ha ragione,» annuì, librandosi finalmente dall’asfissiante muro di paura «è compito d’un padre provvedere ai propri figli, e d’uno scienziato provvedere alla ricerca – qualsiasi sia il prezzo da pagare. Le auguro una buona serata».

    Forse alcuni avrebbero anche giustificato il suo terrore quella notte, sul baratro di un’esperienza dalla quale sarebbe anche potuto non tornare, inghiottito da una dimensione completamente sconosciuta, eppur nulla l’avrebbe mai convinto a rinunciare – come aveva potuto dimenticarlo? La vita s’era fatta così pesante sulle sue spalle da scordare di star andando avanti proprio per essa, per la propria, sì, ma soprattutto per quella di sua figlia, della sua ex-moglie, di tutte le povere vittime della tragedia che tuttavia lo aveva benedetto della possibilità di continuare a vivere, di perdersi e ritrovarsi in un potere che per la città significava vita stessa; essa s’era appesantita, ma le catene della propria promessa avrebbero retto a qualsiasi pressione, sorretto qualsiasi azione necessaria perché potesse esser mantenuta. E quella fu una delle tante da compiere e forse la più importante: solo, sottile, spaventato tra sconosciuti, inghiottì – e solitario, silenzioso ed offuscato fu il mondo nel quale scivolò qualche ora dopo, un’esperienza di cui avrebbe volentieri fatto a meno, ma della quale cercò d’essere il più consapevole possibile, sensi amplificati utili a raccogliere informazioni che pregava di ricordare una volta risvegliatosi. Le visioni, presto fattesi realtà, narravano tenui colori di freddo e fitta nebbia… se non fosse per una singola macchia di calore, colori caldi e tridimensionale speranza alla quale entrambi gli sguardi brillarono lucidi, bocche schiuse incapaci d’esprimere a parole quanto invece riuscì uno spontaneo abbraccio da lei cominciato, una stretta temuta ed attesa così tanto da lasciar senza fiato. «Ohmiodio, Jo, cosa diamine ci fai qui? Pensavo che voi- pensavo io fossi-» farneticò il capo ramato, capelli scossi al cenno d’una negazione convinta nei confronti di insistenti dubbi ai quali, però, l’altro poteva ora dare risposta, consolare lacrime incapaci di solcare la guance eppur riconoscibili nei mille dettagli, ormai da Jonah riconosciuti sul corpo di Liss nel corso dei 15 anni trascorsi insieme – una vita dalla quale faticava ancora a districarsi completamente. Quando si sedettero nel suo rifugio, la casa da lei regalatagli – così famigliare e differente al contempo, sospesa in spazio e tempo sconosciuti – parve impallidire anche più al racconto dell’accaduto, quasi quanto il volto dell’avvocato nell’ascoltare i trascorsi del suo simbionte (così erano soliti chiamarsi), gioendo con grazia per le sue gioie, soffrendo silenziosamente per le sue sofferenze, minacciando panico alla realtà della malattia di Anniken che lui rifiutò di tenersi per sé, consapevole le bugie ferissero molto più dei singoli spilli. «Ora è al sicuro, è con un mio amico d’infanzia» precedette la domanda, riuscendo finalmente ad accennare sorrisi ora che la sapeva sana, spalle risollevate anche al sollievo di poter contare su Adam, di conoscere meglio la propria vita precedente, «però dobbiamo affrettarci. Non possiamo esser certi di quanto questo… luogo sia legato a quel mostro, tuttavia è l’unico indizio a nostra disposizione, al momento. Se sapessi qualcosa a riguardo, ti prego, condividila con me, riferirò a chi di dovere – non so in quanti avranno la stessa opportunità, perciò ho intenzione di coglierla anche per loro». La donna comprese e, seppur sorpresa dall'iniziativa, prese a raccontare dello spaventoso paese delle meraviglie nel quale era stata risucchiata, delle sue fattezze e peculiarità, delle anime che lo inabitavano e delle altre, come lei, che volevano allontanarsene, della raggelante paura mietitrice di vittime. E titubante si confidò sulla sua lingua, di come ora ogni parola diveniva verità assoluta e lama a doppio taglio, della sua particolarità; lui le consigliò come curarla, crescerla, allenarla, così come lui aveva imparato con la propria, e si sentì leggero nel poter finalmente condividere con lei uno dei fondamenti della propria essenza e grato di considerarla nuovamente degna di fiducia, anche solo per poco. Triste non fu doverla salutare, alla fine, quando le sagome d’una casa che in un altro futuro sarebbe potuta esser d’entrambi lentamente sfumarono nel buio pesto, bensì fu realizzare che solo la tragedia aveva convinto loro a parlare a lungo, a cuore aperto, quando ormai da anni, purtroppo, s’eran chiusi ciascuno nel proprio universo per ragioni mai abbastanza importanti da giustificare profonde crepe in prezioso legame, saldato prima ancora di giungere all’altare. «Devo andare» disse semplicemente, incapace di considerare anche solo la possibilità d’un addio, e lei non fu da meno: come immaginato, sfoderò uno dei soliti sorrisi smaglianti, bacio volante marchio di fabbrica che volle a tutti i costi il padre di sua figlia consegnasse a questa. «Mi raccomando, prenditi cura di te nel frattempo, troverò una soluzione per riportarti a casa. Charlie ti aspetta, Kinna ti aspetta». «Troveremo,» l’ammonì lei, piacevolmente sorpresa di sentir nominare il proprio attuale ragazzo, contenta fosse stato di supporto all’ex-marito nonostante i loro trascorsi; e mentre questo spariva, si rifiutò d’alzarsi finché non fu più sotto il suo sguardo ceruleo, sincero dopo molto tempo. «Anche tu, prenditi cura di te – sai che queste cose le nota e si preoccupa. È nostra figlia, dopotutto, sei importante per lei. E non solo».
     
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    Era da tempo ormai che la città sembrava in subbuglio. Aveva sentito dire che alcune persone erano scomparse, altre erano rimaste ferite in un party sulla spiaggia a cui quell’anno aveva deciso di non prendere parte. Egoista da parte sua, ma anche la sua vita aveva preso una strana piega negli ultimi tempi e non le importava quindi mettere il naso fuori e capire come stessero le altre persone. Tutto ciò che non la riguardava da vicino non le importava. Si guardò allo specchio, terminando di mettere un rossetto rosso sulle labbra, che faceva pendant con i suoi capelli, tornati rossi ancora una volta da appena due settimane. Si era tenuta ben lontana dal biondo dopo l’ultimo commento di Eyr, come se evitare quel colore potesse convincerla a mantenere quella lontananza forzata che si erano imposti dopo quel giorno a lago, quando lui si era rifiutato di aprirsi con lei. O tutto o niente. Era così che aveva deciso di vivere e lui aveva optato per il niente. Serrò le labbra nel ripensarci. Per quanto si sforzasse di tenerlo lontano dalla sua mente lui finiva sempre per tornare, come se non fosse capace di separarsene davvero. Gli voleva ancora bene, lo sapeva, eppure non aveva intenzione di essere lei a fare il primo passo, non quella volta. Lo aveva messo davanti a una scelta e stava quindi a lui prendere quella giusta, senza alcun tipo di aiuto.
    Si ravvivò i capelli, dandosi un’occhiata più decisa allo specchio, allisciando il tessuto del vestito che aveva scelto per l’occasione. Un abito nero piuttosto neutro che non avrebbe dato troppo nell’occhio. Quella notte non aveva intenzione di strafare, voleva solo vivere una nuova incredibile esperienza. Aveva sentito parlare della Liquid Death per la prima volta da parte di un cliente. Ne aveva parlato come di una nuovissima droga esclusiva che sarebbe stata lanciata da lì a pochi giorni al Perception e le aveva detto che sarebbe stato disposto a trovarle un posto, se lei lo avesse desiderato. Incuriosita da quella notizia ne aveva parlato con Eld, che le aveva rivelato di far parte del piccolo gruppetto del lancio e, dopo la sua richiesta, aveva promesso di procurarle un posto per quell’evento senza precedenti. Meglio dovere un favore a Eld, dopotutto, che a uno dei suoi clienti.
    Chi pensasse di incontrare in quell’altra dimensione a cui lui aveva accennato, non lo sapeva, visto che non credeva di conoscere qualcuno dei dispersi. I suoi pochi contatti erano tutti ancora vivi e vegeti in giro per la città, ma era solo la curiosità di vedere cosa ci fosse oltre e la voglia di provare qualcosa di nuovo, che la strappasse alla sua quotidianità, a spingerla. Al rumore di un clacson si ridestò, afferrando un paio di scarpe con il tacco per poi infilarsele alla svelta e dirigersi verso il taxi che aveva prenotato con largo anticipo. Sarebbe andata a quell’evento, nulla l’avrebbe distolta. Si chiuse la porta alle spalle, osservando il cielo stellato sopra la sua testa e sorrise appena. Sarebbe stata una serata con i fiocchi, ne era certa.

    Raggiunse il Perception in pochi minuti. Non era la prima volta che entrava in quel luogo. Dopo il cambio di gestione che era avvenuto negli ultimi anni alcuni clienti l’avevano invitata a trascorrere con loro alcune ore in quelle stanze e aveva avuto modo di testare l’ospitalità, l’ottimo alcol e la sicurezza. Rivolse quindi un leggero cenno con il capo ad alcuni volti conosciuti, mentre attendeva che le sue credenziali venissero verificate e di ricevere il via libera, consegnando il suo telefono all’ingresso insieme alla sua borsa. Dopotutto dall’altra parte non si sarebbe potuta portare nulla. Si rigirò tra le mani il foglio informativo inarcando appena il sopracciglio. Serviva davvero tutta quella roba? Sbuffò mentre leggeva velocemente alcune frasi, come il fatto che avrebbe potuto richiedere le piccole sfere dorate gommose direttamente al bar, in ogni sala. Si mosse con passo tranquillo, osservando gli altri ospiti muniti di braccialetto digitale fluorescente poi, sorridendo a uno dei baristi della sala principale, chiese la sua dose. Osservò quella piccola pallina dorata, cercando di scorgere sulla sua superficie un qualche segno distintivo, a parte il colore così particolare, senza tuttavia trovarci nulla. Mise in bocca la sferetta gommosa e poi si incamminò alla ricerca dell’amico, che sperava di riuscire a salutare prima di iniziare a vedere qualcosa di strano. Lo individuò da solo, in mezzo alla folla, una figura slanciata che sembrava del tutto fuori posto in mezzo a tutto quel chiasso e quel divertimento. Sorrise mentre, a lunghe falcate, colmava la distanza che la separava da lui. -Ehi! - mormorò, con voce radiosa, scontrandosi con la serietà che lui al contrario sembrava emanare. Aveva finto di ignorare tutti i segnali, di non avere paura per quello che stava capitando tra di loro, per quella figura assente eppure sempre presente in mezzo ai loro due corpi. -C’è davvero un sacco di gente. - disse, continuando a guardarsi attorno, per poi guardare lui dritto negli occhi, annuendo appena alla sua raccomandazione. -Tuo il party, tue le regole. Ho promesso. - confermò, mostrando il bicchiere che teneva in mano, riempito con un semplice cocktail analcolico e nulla più. Era stato chiaro quando le aveva promesso un posto a quell’evento: c’erano delle regole da seguire e non doveva assolutamente sottovalutarle. Poteva sembrare un tono e un’espressione come tante, ma per lei che aveva imparato a leggere dietro i suoi impercettibili cambiamenti, quella era una frase piuttosto importante. -E tu mi raccomando, non dimenticarti di riportarmi indietro. - disse, ridacchiando appena, lasciando un leggero bacio sulle sue labbra, un contatto che sarebbe servito a cancellare la leggera tensione che aveva animato quella frase. Sapeva che c’erano dei rischi. Loro erano così tanti e lui soltanto uno. E se non fosse arrivato in tempo? Se non fosse riuscito a risvegliarla? Si allontanò di nuovo con un sorriso, come a dirgli che avrebbe capito se non ci fosse riuscito e che non gliene avrebbe fatto una colpa, era preparata, ma la sua espressione la costrinse a guardarsi alle spalle.
    Il suo corpo si irrigidì nel notare la figura bionda che li osservava, a qualche metro di distanza. Lo osservò, i suoi occhi scuri che si scontravano contro quei maledetti occhiali di sole. Quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui si erano incrociati? Mesi, eppure faceva ancora male come quel giorno, quando aveva tolto gli occhiali e si era lasciato guardare per qualche momento, prima di recidere il legame tra di loro. Si scostò di lato per lasciare passare Eld, che si mosse velocemente verso l’altro, con una rabbia che non gli aveva mai visto. Li osservò da lontano, pensando che fosse meglio per loro due risolvere i problemi da soli. Era così strano vederli litigare. Lei e Eyr litigavano di continuo, era un susseguirsi di tira e molla senza fine, era divenuto così naturale che una parte di lei ancora credeva che potesse esserci un modo per rimettere a posto le cose, ma Eyr e Eld non avevano mai trascorso così tanto tempo “lontani”. Era la prima volta che li vedeva così e la cosa la turbò non poco. Che cosa gli era successo? Perché Eyr si comportava così persino con lui che da sempre, ne era certa, era stato il suo preferito? Continuò a guardarlo quando Eld lo lasciò andare, fissandolo con i suoi occhi scuri con rabbia, come a dirgli: Ma cosa diavolo stai facendo? Poteva accettare che ce l’avesse con lei per quello che gli aveva chiesto, che non provasse le stesse cose che lei provava, ma non poteva accettare che facesse lo stronzo anche con Eld che, invece, non lo meritava affatto.
    Trascorsero secondi, forse addirittura minuti, poi finalmente anche lei allontanò lo sguardo e decise di tornare alla sua serata. Iniziava a sentire una leggera nausea e dei brevi giramenti di testa. Terminò il suo cocktail e cercò di combattere la voglia di andare alla ricerca di qualcosa di decisamente più forte. Aveva promesso di stare attenta e di seguire le regole. Quindi, mentre intorno a lei i colori si facevano più vividi e i suoni più intensi, decise di raggiungere un piccolo gruppetto di ragazzi e ragazze che ballavano seguendo una musica che ora anche lei riusciva a sentire, come se fosse un legame tra coloro che avevano deciso di prendere quella piccola pillola. Cercò di allontanare tutti i pensieri e le preoccupazioni. Doveva mantenere la calma se non voleva rischiare degli effetti collaterali indesiderati e un viaggio un po’ troppo insidioso. Osservò di sfuggita il suo braccialetto colorato, senza riuscire a capire i valori che stava segnalando: era forse il suo battito cardiaco? E quel numero andava bene? Oppure no? Sorrise mentre una strana euforia si impossessava di lei. Chiuse gli occhi, facendosi guidare da nuovi suoni e nuove sensazioni. Le sembrò di trovarsi sotto una fitta pioggia e di udire qualcuno che le sussurrava parole che non riusciva a comprendere. Riaprì gli occhi e per un attimo intercettò di nuovo lo sguardo di Eld, che si muoveva silenzioso da una parte all’altra. Nessuna traccia invece di Eyr e del suo umore nero. Chiuse gli occhi di nuovo, li riaprì e si trovò di fronte la figura di Naavke, il padre di Eyr. Turbata arricciò le labbra e le sopracciglia. Se la presenza di Eyr poteva in qualche modo spiegarsela, lo stesso non poteva fare con il capo della Setta. Cercò di mettere a fuoco quello che stava accadendo ma la stanchezza si stava impossessando di lei. Lentamente si mosse verso un divanetto rosso, cercando un posto comodo su cui sedersi o forse sdraiarsi. Si sentiva pesante, come se non fosse più in grado di tenere gli occhi aperti. Percepì il suo cuore rallentare i battiti, piano, sempre più piano, fino a fermarsi.

    Spalancò gli occhi prendendo un profondo e rumoroso respiro. L’ambiente intorno a lei era familiare eppure sconosciuto, come se ci fosse qualcosa che non andava. Si mise in piedi lentamente, cercando di capire se le gambe fossero in grado di sostenerla o se parte della spossatezza l’avesse seguita sino a lì. Allungò una mano, tastando l’aria attorno a sé, la nebbia fitta, come se volesse comprendere se fosse vera oppure no. C’erano odori diversi e un silenzio così particolare da suonare quasi irreale. Creature mistiche, che sembravano fatte di ombre più che di carne, si muovevano lente e silenziose. Parvero quasi osservarla quelle creature deformi e lei per qualche momento li guardò di rimando, affascinata dal potere che sembravano emanare. Tutto attorno a lei sembrava emanare un potere del tutto soprannaturale. Mosse alcuni passi, non riuscendo a trattenere l’emozione per tutta quella novità. Sapeva che avrebbe dovuto avere paura, temere ciò in cui era stata catapultata, invece ne era come rapita, affascinata. Un alito di vento portò con sé una voce che non riconobbe. Chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi e le parve di sentire un nuovo richiamo nel vento, come se qualcuno la stesse aspettando. Senza sapere dove andare iniziò a camminare, lasciandosi guidare da quelle forze molto più potenti di lei che dominavano quell’altro mondo. Oltrepassò una piccola foresta prima di trovarsi davanti una strana abitazione, un edificio a cui non avrebbe saputo dare la corretta definizione. Posò una mano sulla porta e quella si aprì rivelando uno spazio scuro. Delle scritte sul pavimento e poi sui muri furono la prima cosa a colpirla, prima ancora della figura con il capo velato che all’inizio sembrò non notarla.
    Camminò ancora, socchiudendo la porta dietro di sé, raggiungendo la figura dai capelli biondi. Non ci mise molto a riconoscere i suoi occhi, di quell’azzurro così particolare da essere indimenticabile. -Anne.. Annelyse? - quel nome le fuoriuscì dalle labbra come se fosse sempre stato lì, sulla punta della lingua, pronto per essere pronunciato. Era passato del tempo dal loro primo incontro al Labirinto. Si erano incontrate come in un sogno e ora, di nuovo, si ritrovavano in una situazione ai confini della realtà. -Sei.. qui? - domandò, anche se neppure lei sapeva bene che cosa intendesse con qui. Qui in quella casa? O qui in quel mondo? -Che cosa è successo? - domandò, allungando una mano per sfiorarle un braccio, visibilmente colpita da quella notizia. Aveva creduto di vagare da sola per chissà quanto tempo prima di essere riportata indietro, al Perception, e invece era lì, a osservare una figura con cui aveva condiviso dei momenti piacevoli e si sentiva triste al pensiero che, forse, quella era l’ultima volta in cui si sarebbero incontrate.
     
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    ~ Clara ~

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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: [attacco di panico, ansia, violenza nei confronti di oggetti, linguaggio volgare].
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.


    A nascondersi in piena luce tutti erano bravi, occhiali da sole, insignificante soprabito e nessun segno particolare, trope divorato dalle serie tv – ma per nascondersi all’ombra, nella pece macchia d’inchiostro sulla fedina penale d’una cittadina qualunque, serviva talento, le giuste informazioni ed un pizzico di disperazione, o forse d'incoscienza. Di gusto, pensò Ana dall’alto delle sue platform scure, calando divertita gli occhiali da sole ironicamente portati a maschera d'un trucco un po’ pesante, abbastanza strati da far dubitare a chiunque la sua vera età: s’era prodigata nella ricerca, nei cumuli d’abiti sparsi per la camera (il suo armadio), dell’outfit perfetto per la serata, talmente sciatto e sensato da poter passare solamente per la persona poco di buono che s’apprestava ad interpretare. Lingua fece capolino tra i denti nel presentare l’ID ben forgiato, solo per sfoggiare il falso piercing di cui s’era appropriata il mattino stesso, la sottile malizia nello sguardo bonus da Oscar del tutto ignorato dal bodyguard all’ingresso, leggera delusione volentieri trascinata dentro il covo di malviventi di cui aveva sentito nominare; d’altronde, habitué fuorilegge del Labyrinth, dai cui clienti aveva tratto ispirazione, non aveva certo tardato a ricevere notizie della serata. E a scegliere di presentarvisi, ovviamente, nonostante fosse una palese pessima idea considerata l’enorme differenza d’età, stazza, esperienza, etc, tra lei ed i presenti- no, aspetta, nonostante? Era lì esattamente perché era una pessima idea, l’adrenalina superiore a qualsiasi sostanza nelle sue vene, capace di renderla euforica dinnanzi al proprio riflesso come unico spettatore, figuriamoci ad una platea di pericolo, violenza, misteriosi brutti ceffi pronti a tutto, magari armati fino ai denti: ah, quasi si sentiva a casa, ci fosse stata Eira sarebbe stato perfetto, con quel puzzo d’alcol ed altro di poco identificabile, quegli spiragli di luce da cui attendeva solo di lasciarsi bagnare, quel buio infinito gravante sull’atmosfera stessa. In realtà, era la pelle d’oca lungo le braccia laccate di nero a ricordarle di come no, non avrebbe mai permesso alla propria miglior amica di varcare la soglia d’un locale del genere (a meno che non l’avesse voluto, slay, può fare tutto ciò che vuole), se le fosse accaduto qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato – d’altronde non era quello il motivo stesso della sua incursione? S’era consegnata alla notte con le proprie mani ed avrebbe scavato con esse anche più a fondo fino a trovarsi sette piedi sottoterra pur di raggiungere il proprio scopo, e quella sera passava per una droga sperimentale, una conveniente soluzione alla bruttissimissima esperienza vissuta da taaantissime persone in quella noiosissima cittadina, sì, certo, bla bla. Che cacchio gliene fregava di suo zio risucchiato dal cielo mentre portava a spasso il cane, buon per lui! Almeno era riuscito ad uscire da lì – desiderio spesso inespresso seppur caratteristico nei giovani, triste cliché – mentre lei era inevitabilmente rimasta accasciata al tavolo da pranzo, quasi di faccia nel polpettone all’ennesimo piagnisteo di sua madre, dolce il classico sermone su come bisogni sempre star attenti fuori, il mondo esterno questa grande trappola per topi che giustamente un chihuahua non sarebbe stato in grado d’identificare. Bestia di satana, l’aveva sempre detto, era quasi contenta fosse sparito col suo padrone – ma si stava distraendo. L’attenzione doveva essere diretta solamente a due aspetti quella sera: in primis l’ambiente circostante, soprattutto considerato non avesse ancora terminato la propria mission impossible, ed in secondo luogo, anche se sempre primo, il proprio obiettivo. Finché non si fosse macchiata il corpo di quest’altra schifezza non si sarebbe data pace, non tanto per soddisfare un desiderio perverso, quanto per guadagnarci un minimo da quell’odiosa tragedia nella quale, sì, tanta gente s’era persa, benvenuti nel mondo di Santana Barros: ora ben sapevano cosa si provasse a cercare affannosamente qualcosa che non sembra volersi far trovare, o che comunque è così ben celata da risultare irraggiungibile. O forse no, forse non quella sera, forse finalmente avrebbe avuto la sua occasione; forse, finalmente, avrebbe trovato pace.

    O forse no, considerato vi fosse un secondo controllo inaspettato svolto proprio da niente popò di meno che l’unica e sola, la meravigliosa ed incredibile- «Taaaraaaa, mia caraaa» neanche provò a nascondersi alla realizzazione dell’altezza altrui, la propria statura ancora insufficiente nonostante le accortezze prese, sorriso smagliante e volto raggiante a loro volta inutili dinnanzi al pugno di ferro palesatole dinnanzi, unico effettivo intralcio sul suo cammino. S’era persino presa la briga di calcolare l’orario migliore per la propria toccata e fuga, ovvero ad evento inoltrato, quando persino le guardie sarebbero state troppo stanche per fregarsene d’una neo maggiorenne infiltrata – ed invece, OVVIAMENTE, la sfiga era sempre dalla sua parte ed era ora costretta a contrattare con l’unica persona a lei famigliare in quell’intero covo di matti, boccone amaro volentieri ingoiato al Labyrinth, amato luogo del loro primo scontro, e non come boss finale d’una battuta di caccia in cui era più che pronta ad interpretare il cane per tartufi. «Come va, come stai bellezza, raccontami tutto… Ma sei dimagrita? Ti sono cresciuti i muscoli, vero? Non mi dire – hai fatto qualcosa ai capelli, eh? Ci ho azzeccato?» La tempestò istintivamente, per nervosismo e prendere il tempo necessario ad ideare un piano abbastanza geniale da sottrarla alla tortura destinata a concludersi con la propria cacciata fuori dal locale, ad un solo secondo dall’essere nella medesima stanza di ladri ed assassini (e sì, ci teneva molto, non era certo da meno alle migliaia di persone infatuatesi di Dahmer al magico tocco di Evan Peters); era ben consapevole normali trucchetti avrebbero solo infastidito l’unico ostacolo tra lei e l’intramontabile speranza ch’era solita appioppare ad ogni nuova soluzione (sempre rivelatasi fallimentare), perciò avrebbe dovuto uscirsene con un’arringa finale da standing ovation o, ancora meglio, cogliere una falla nella diga… Sì, come no, poteva calciarsi fuori da sola a quel punto, ormai aveva un’idea generale di come fosse la donna ed era ben consapevole di non avere possibilità alcuna: l’era sempre parsa così sicura, forte, invincibile quasi, eppure terribilmente fastidiosa quando si curava della sua incolumità nel vederla così giovane e già così persa dietro miseri piaceri autodistruttivi, e forse non aveva tutti i torti, però non riusciva a sopportarlo. Voleva tapparsi le orecchie ad ogni “non dovresti” o “sarebbe meglio per te”, bruciava musica nelle orecchie e sigarette fra le labbra pur di dimenticare quelli di sua madre, di certo non si sarebbe sottoposta a quelli altrui, per giunta d’una completa sconosciuta – o meglio, così la definiva, per poi ripensare allo sguardo tronfio con cui Ana la squadrava prima di scolarsi l’ennesima birra, agli atteggiamenti derisori con cui adornava i loro incontri, o ancora a quei rari scherzi magicamente riusciti, l’infantile modo in cui solo un’adolescente patentata poteva dimostrare i propri sentimenti. Quello, e mentendo. «Diciamoci la verità, nessuna delle due vorrebbe essere qui in questo momento» le mani smaltate danzarono davanti ad entrambe con fare pratico, atteggiamento da adulta che non era, «perciò direi che prima risolviamo, prima ce ne andiamo entrambe a casa, che ne dici? Ti faccio una proposta» e tentò di avvicinarsi, quindi si ricordò della differenza d’altezza e, scoccandole un sorriso nervoso, si accontentò d’un passo indietro mentre fingeva di sistemarsi il corsetto, forse un po’ stretto, «tu mi lasci passare, ed io…» "Ti offro da bere – no, ti pare, è gratis per lei; ti dò un bacio – ew, no, non ha tipo il doppio dei miei anni? …Forse no, ma preferirebbe calciarmi piuttosto; non ti romperò le palle mai più – seh, chi ci crederebbe mai? Ah, mi sarei dovuta portare dietro Gree, sarebbe stata un sacrificio perfetto!" Okay, forse aveva un problema: su cosa mai avrebbe potuto far leva quando, pur conoscendola, effettivamente non aveva la più pallida idea di chi fosse, a parte forse voci poco rassicuranti riguardanti la sua famiglia, su cui il suo istinto di sopravvivenza le suggeriva di non scherzare? È che non s’era mai preoccupata veramente di doverla oltrepassare, le lasciava sempre spazio per sgusciarle accanto, commettere errori apparentemente incapaci d’intaccare il rispetto che sorprendentemente custodiva per un’ingrata giovane scema (o almeno così era stata in passato definita da terzi); ripensandoci, il pattern di gentilezza ed approccio fraterno probabilmente rivelava che il proprio atteggiamento fosse un tuffo nel passato per la maggiore, e ciò avrebbe potuto sfruttarlo… ma voleva veramente ferirla? Purtroppo, il tempo stringeva, la sua frase ormai danzava così a lungo nel baratro da costringerla necessariamente a sputar fuori qualcosa, perciò pregò, stranamente – nel mentre la sua mente s’affrettava dietro crudele macchinazioni capaci di trafiggere persino una gigantessa – pregò per una bomba, che piovesse proprio lì, in quel momento, a fermarla dal macchiare di delusione il volto di un’altra persona.

    E la bomba cadde, effettivamente. Ana non seppe bene quale santo l’avesse udita – o demonio, se per questo –, ma per un secondo, un solo misero secondo, l’attenzione di Tara fu costretta lontano dagli occhi scuri simili ai suoi, già disposti a far quanto ritenuto necessario, verso il suo telefono: e quella fu la breccia, l’occasione perfetta tanto anelata. Con le platform bastò un solo balzo scattante in direzione della porta, nell’angolo cieco del suo carceriere, le mani leste d’abitudine circondarono uno dei bracciali visti al polso d’altri, e BOOM – era dentro, sana, seppur non ancora salva. Allora corse, corse e non si guardò indietro, sgusciò tra le persone con memoria muscolare, si fece viscida e rapida quasi non fosse estranea alle fredde pareti traboccanti di segreti, bensì fosse ancella del loro sapere e ne volesse cogliere il più possibile. Fu ironico quando s’imbatté nel proprio professore di scienze (cosa che?? La lasciò sconvolta a vita), però la sua fuga si concluse vittoriosa con l’arrivo al bar, affanno celato da un fare trasandato copiato dai corpi incontrati lungo il tragitto, che la portò a sporgersi sul bancone e farvi sopra scivolare un foglio stropicciato, secondo colpo della serata ad uno già bello che andato, il quale ironicamente supportò la sua scoperta del mondo donandole esattamente ciò di cui aveva bisogno: le istruzioni per l’uso. Sfiga vincit omnia, neppure quell’incontro fu particolarmente semplice, e, quando finalmente la schiena scontrò uno dei divanetti del locale, si ritrovò già particolarmente sfatta, al contempo spazientita ed incuriosita dalla stretta sicurezza del luogo, magari anche apprezzata in altre occasioni – sì, sempre per Tara, neonati sentimenti nauseabondi soffocati con speranza in compressa, buttata giù senza pensare per volersi assicurare d’essere intoccabile una volta scoperto il proprio nascondiglio (era brutto volerlo? Quanto era affamata d’attenzioni?). Beh, non che si mantenne particolarmente nascosta: tempo di riprender fiato e si intrufolò di nuovo tra le gente, studiandone silenziosa i comportamenti, avventurandosi fra le varie sale quasi fosse un escape room e stesse raccogliendo gli indizi necessari per finalmente puntare il dito contro uno dei presenti e dichiararlo colpevole, con tanto d’arma e luogo del delitto. A tanto non sarebbe di certo arrivata, tuttavia finì per farsi dolcemente corteggiare dalla violenza nello sguardo d’un uomo qualsiasi, testa tra le nuvole sotto riflettori così forti – tutto era così forte, finché divenne spiacevole, finché ansimante non si fece piccola sul bancone del bar, scivolando nel vuoto con l’espressione corrugata nascosta tra le braccia, il piercing alla lingua abbandonato accanto a lei.

    Prese fiato in un’altra dimensione, il battito accelerato scioltosi man mano che lo sguardo affamato scrutinava centimetro per centimetro il luogo circostante, effetto collaterale non considerato il panico insorto alla purtroppo famigliare sensazione del doversi risvegliare in un luogo sconosciuto, presto sostituito da un’altra fonte di terrore: dov’è. Dinnanzi a lei si palesava solamente una donna, una specie di santona in un mare di fogli e scritte a cui piegò leggermente il capo, inutile tentativo di comprensione rivelatosi pressante fastidio: aveva pensato, continuamente, senza darsi tregua, ignorato persino i campanelli d’allarme dell’uomo sotto i riflettori, per tutto il tempo, s’era concentrata solo e soltanto sulla persona che avrebbe voluto incontrare, aveva fatto il possibile, perché, perché, perché, perché cazzo non era lì? «E tu chi cazzo sei?» le uscì spontaneo, sopracciglia corrugate stampate sugli occhi scuri ancora in cerca di risposte in una stanza a lei sconosciuta, di fronte ad un’estranea, in un mondo del quale a malapena era conscia – lo spaesamento maremoto nel suo stomaco, la somatizzazione ricorrente strategia di merda per gestire grandi emozioni; si schiarì la voce con fare nervoso, tornando a guardare la donna quando si rese conto del proprio comportamento. «Scusi, volevo dire… chi è lei? Non- non la stavo cercando, è una specie di guida?» A malapena attese risposta, assolutamente disinteressata al funzionamento della realtà nella quale s’era calata, catturata solo dalla propria tragedia; «Mh, certo, uuh…» cominciò, muovendo frettolosamente la mano tremante all’altezza del proprio capo, «per caso ha visto in giro un tipo alto così? Capelli ricci corti, giovane, faccia di cazzo? Risponde al nome San». Si chiese se non fosse il caso di andare a cercarlo, buttarsi nel mondo là fuori e pregare, sperare e pregare di beccarlo nel bagno di nebbia che sarebbe stata anche disposta ad affrontare pur di porre fine a quell’interminabile sofferenza, se non fosse che era completamente ignara della struttura stessa di quel buco di culo, la consapevolezza d’esser scivolata nell’ennesima cazzata premeva sempre più sul diaframma, come se respirare fosse un optional. «Non-guardi, onestamente, non mi interessa, può parlare a vanvera quanto vuole, glielo dico subito, non me ne potrebbe fottere di meno» sforzò un sorriso accorgendosi a malapena d’aver preso a camminare su e giù per la stanza, falcate pesanti martellanti come a scimmiottare il proprio battito, ancora per poco trincerato dietro al corsetto che fu presto slacciato ed abbandonato sul pavimento. Si portò dietro i calzini appallottolati utilizzati per dar forme inesistenti ed applicati come secondo strato di pelle in caso d’eventuale attacco – e Tara e sua madre che la credevano una sprovveduta, A-HA, loro non avrebbero neanche mai pensato a soluzioni così geniali, le stesse che però l’avevano trascinata in quel nulla lontano da Dio in cui, ancora una volta, non aveva alcuna possibilità di trovarlo. Aveva sbagliato, aveva sbagliato di nuovo, «In un cazzo di covo di criminali,» borbottò, platform fermatisi davanti ad un tavolo solamente per poggiarvi sopra i pugni, unghie nella carne dalla rabbia bollente nelle viscere, «mi sono ficcata IN UN CAZZO DI COVO DI CRIMINALI PER ESSERE QUI! Ho ballato con Dahmer, superato Lupin, SONO LA BELLA ADDORMENTATA SU QUEL CAZZO DI BANCONE» il tono si fece man mano più alto, pugni sferrati contro la superficie presto afferranti una delle sedie, ed il fragore che rilasciò sbattendo contro la parete le fece solo venir voglia d’urlare anche di più, «IL CORPO LI’ IN BELLA VISTA, ALLA MERCE’ DI TUTTI, CHIUNQUE POTREBBE FARMI DEL MALE, UCCIDERMI, ED IO RIMARREI INTRAPPOLATA QUI PER SEMPRE – PER C O S A??!!» Nere suole incontrarono più volte mobili e ninnoli vari, vasi bombe contro i loro simili, persino una finestra cedette fragorosa all’incontro con una delle gambe di legno strappate alla sedia precedente, i suoi altri lembi abbandonati sul pavimento, macerie d’un senno perso da tempo. «PER NON TROVARLO, NEANCHE QUESTA VOLTA, NONOSTANTE MI SIA GIOCATA LA VITA STESSA PER TROVARLO – CAZZO!» Con un ultimo urlo squarciante la stanza, cadde sulle propria ginocchia senza più un grammo di forza, occhi chiusi incapaci di piangere eppur bagnati, così piccola una volta esplosa; «Ho messo in gioco la vita stessa» ripeté affranta riaffiorando dal mar di lava nel quale s’era immersa, tornando a guardare il mondo per trovarvi il macello d’un altro sbaglio ed il senso di colpa otturante lo stomaco, «e ora cosa faccio? D-doveva essere qui e non c’è, io… io cosa faccio?». Lo domandò al vuoto, o forse alla donna, non era sicura più di niente, fuori di sé così tanto da non rendersi neppur conto delle guance bagnate mai mostrate a calore umano; ora era solo una massa di ricci – volentieri liberatisi della loro trappola elastica – fattasi minuscola sul campo di battaglia scempio di un’eterna lotta interiore, macchia scura piovuta dalla ferita aperta inevitabilmente inflitta dall'infrangersi di un'altra speranza.
     
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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: [morte, pensieri suicidi, atteggiamenti maschilisti e possessivi, abuso psicologico e/o manipolazione psicologica;].
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.
    Le azioni descritte non sono ad ogni modo condonate e sono diretta responsabilità creativa di chi ha realizzato tali contenuti.



    Ces pensées qui me font vivre un enfer
    Il buio, l'oblio, l'abisso. Tutte cose, quelle, di cui non aveva mai avuto timore. Perché hai paura se non riesci a vedere niente? minimizzava così le ansie di una Coco bambina quando, stesi fianco a fianco, la notte cercavano riposo senza sfiorarsi. Era buono, non vedere niente. Era un bene l'oscurità, che preferiva così fitta da non distinguere neanche i contorni delle cose, solo buio pesto. Era l'unico momento in cui poter tenere gli occhi aperti senza temere l'arrivo della morte, vista e rivista negli occhi di chiunque da quando aveva ricordo. Prima in un modo e il secondo in un altro, le sorti di qualcuno cambiavano così in fretta che a volte si era sentito male a furia di guardarle a ripetizione, neanche fossero diapositive datate da cui ricavare qualcosa. I dettagli, quelli cercava durante le ore passate a guardare il cane dei vicini negli occhi, particolari che gli rivelassero la fine definitiva della bestia. Era lui a deciderla come un Dio? Quando anni dopo il cane finalmente morì, non lo fece in nessuno dei modi che Eyr gli aveva letto nello sguardo e il ragazzino non nascose la delusione. Ma altri sì. Ad altri sarebbe andata esattamente come l'aveva vista lui. Con il tempo si sarebbe abituato, Eyr, a quelle tragiche visioni. Si sarebbe detto di evitarle più per non doverci fare i conti che per timore vero, per evitare d'essere distratto dalle cose che contavano davvero. La setta, il potere, la dominazione del mondo. È nella penombra che la mente sbaglia. Diceva per spiegare a Coco che non era nel buio che si celava il nemico. Era nel chiaroscuro di un paio d'occhi inconsapevoli di evidenziare il senso del volume della morte e metterla in risalto, pronta affinché lui la guardasse. Non lo spiegò mai alla sorella, come mai avrebbe confessato l'effettiva paura che il suo potere gli dava.
    La notte lo abbracciava in quei buio omogeneo che a Eyr piaceva, riconoscendo in lui lo stesso nero di cui era fatta l'aveva scambiato per una parte di sé prima che il guizzo di una fiamma nella sua mano squarciasse la tela a portare il chiaro nello scuro. Venne allora risputato nel mondo dei vivi e con uno strappo feroce fu buttato nella luce, appena in tempo per fare il suo ingresso nel Perception. Le gambe lo portarono veloci all'aerea bar, sapendo esattamente dove lasciare le impronte senza chiedere direzioni al cervello. Agivano per abitudine. Quel posto gli era famigliare, e aveva fretta di incontrare chi era venuto a cercare. Come di corsa si procurò un drink, così fece con la piccola sfera dorata che prese tempo a rigirare nel pugno, tergiversando solo perché aveva notato qualcuno di conosciuto. Assottigliò lo sguardo ma il mondo non lo notò, coperto com'era dagli occhiali da sole che portava quasi sempre e quasi ovunque pur di vivere nell'ombra. Naavke era entrato e la stanza aveva come roteato su se stessa per guardarlo, una calamita risucchia tutto. Naavke era in compagnia, e Eyr soppesò intensamente Vilhelm per qualche secondo. Che ci faceva lui qui? Contava fosse venuto a fare quello che era venuto a fare lui, e avrebbe detestato che lo battesse sul tempo.
    L'allegra riunione famigliare l'aveva lasciato con l'amaro in bocca anche se non riusciva a capire davvero il perché. Era triste? Avrebbe perso Calypso, sì, e forse non era ancora riuscito a convincersi che fosse davvero così. La piccola Coco, uno dei suoi possedimenti più preziosi, stava appassendo per colpa dell'uomo che più amava e odiava al mondo. L'approvazione di Naavke era tutto ciò per cui aveva combattuto fino a quel momento, e per il suo amore che beh, quello era sempre stato diretto alla sorella. Non c'era bisogno di dirlo, Eyr lo sentiva e ne soffriva in silenzio.
    Era arrabbiato? Da sempre. Una forza distruttiva lo sconquassava dalle interiora e in tutte le direzioni. Si era chiesto da dove venisse, quel mostro urlante, se da quel padre biologico che non conosceva e odiava o se in qualche modo dipendesse dalla famiglia con cui era cresciuto. Poi aveva smesso di domandarselo accettando che fosse così e basta, che quell'oscurità anomala doveva essere la sua forza più feroce. Apprendere dell'imminente dipartita del capo famiglia era forse la cosa che l'aveva destabilizzato di più, insieme alla scomparsa di Cassandra. Aveva fantasticato sulla morte del padre più di quanto facessero i figli normali degli altri, trovandosi a sorridere e a leccarsi le labbra nel buio come gustandosi una caramella. I sentimenti che lo legavano all'uomo erano antichi, complicati, contraddittori e a tratti incomprensibili, e se l'idea di perderlo da una parte lo elettrizzava, dall'altra lo mandava nel panico più totale. Per molto tempo aveva cercato di essere come lui e perderlo avrebbe significato strappare se stesso; ma ora non gli bastava essere come lui, voleva essere più di lui.
    In quei giorni, il mostro che covava in testa si era ingigantito così tanto da non starci quasi più nella scatola cranica, e ora indirizzava onde d'odio verso l'uomo a pochi metri da lui al quale non rispose neanche con il più lieve cenno del capo. Ma non c'era spazio per i fraintendimenti: l'aveva visto, e Naavke l'avrebbe capito dallo sguardo nero del riflesso degli occhiali da sole con il quale Eyr avrebbe voluto ucciderlo, forse; sicuramente ferirlo. D'altro canto, non continuava forse a fare lo stesso proprio Naavke? Nei ricordi compromessi di una mente deragliata dall'abuso delle dolci illusioni di Eld e dal delirio di convinzioni tanto assurde quanto tenaci, Eyr si era convinto che quell'uomo non lo ritenesse degno d'essere suo figlio. Che preferisse la sorella era lapalissiano e, anche se non erano mai state pronunciate conferme, Eyr non aveva alcun dubbio a riguardo. Il padre che uccide la figlia prediletta. A volte il destino sapeva essere brutale e, pur spezzato in due non metà diseguali, qualche frammento di lui reputava quella faccenda merito di una giustizia beffarda ma efficace. Il padre che uccide la figlia prediletta e poi muore a sua volta. Assurdamente divertente. Eppure grandi tranci di lui non lo perdonavano di essersi fatto affondare trascinando Coco e Cassandra nella disfatta insieme a lui.
    Non riusciva a parlare di Coco, del padre, della madre. Non voleva dirlo perché sarebbe stato del tutto inutile farlo. E con chi avrebbe potuto farlo, poi, ora che anche Eld ed Elise l'avevano deludo.
    Forse in fondo non riteneva nessuno dei due abbastanza da offrirglisi completamente, questa era la verità. Non importavano il vissuto, gli anni passati tra i banchi di scuola e nella setta, le notti passate a parlare di piani folli teorie senza snenso: se si sentiva tradito Eyr ti tagliava fuori, e se eri fuori lo eri da un secondo all'altro. Da lì in poi, la porta rimaneva sbarrata. Gli avevano voltato le spalle, ognuno a modo loro. Come Elise, che individuò molto prima che lei si rendesse conto della sua presenza. La sua Elise, con la pelle così bianca da scorgere il reticolo di vene bluastre, opalescente come un fantasma; la sua Elise, che non perdeva occasione di testare il suo affetto pretendendo chissà quale dimostrazione che lui non le avrebbe mai dato. Eppure doveva saperlo, Elise; in fondo lo conosceva da sempre. Tenerla d'occhio da lontano lo faceva sentire ancora in controllo, nella sua testa vide la propria mano scivolare sul braccio di lei, immaginò la pelle sotto le dita, morbida come tessuto pregiato. Sua. Avrebbe potuto ancora governare la vita di lei restandone ai margini? Come Eld, l'unico che lo aveva assecondato in tutto, l'unico forse che senza capirle rispettava però le sue convinzioni, le necessità di una mente sempre in subbuglio standogli accanto in qualsiasi situazione. Era stato così fino a quando anche Eld si era tirato indietro; tra tutti, proprio lui. Eyr individuò anche lui ben prima che l'altro si rendesse conto della sua presenza. C'era un che di vagamente eccitante nel giocare a freccette con quei due, inconsapevoli d'essere inchiodati da un pezzo alle sue cornee nere. Li osservò vedersi, riconoscersi e unirsi, un duo che non aveva previsto potesse mai esistere senza di lui. Era convinto che, mancando la parte più importante, il trio non si sarebbe mai retto su un paio di gambe soltanto e invece eccoli lì, quei due, vicini, così vicini da sovrapporsi confondendosi per diventare un unico nella penombra. Quella vista fu come una scossa di terremoto negli organi interni; fece tremare ogni cosa. Con uno scatto tirò indietro gli occhiali da sole, così forte da farli cadere dietro di lui senza che se ne curasse. Senza quelli a proteggerlo, invece di rischiararsi il mondo parve scurirsi ancora di più sfidando ogni legge della fisica.
    Fissava i lunghi capelli di Elise e dietro la fronte di Eld, due superfici baciate innumerevoli volte e che la mente provvedeva ora a odiare; pure loro, insieme a tutto il resto. Si sentì fuori, un poveraccio che osservava dall'esterno una scena che prima lo vedeva centro e che ora, invece, sembrava non prevederlo affatto. La cosa lo fece infuriare ancora di più. Uno come lui era sole, luna, forza di gravità, campo magnetico. Lui era il centro dell'atomo e da lì osservava tutto. A uno così non lo si poteva rilegare a satellite, quello era sempre stato il posto di Eld. I loro sguardi si incrociarono ma Eyr non mosse un muscolo, fermo come una statua di sale tanto da non sbattere neanche le palpebre. Servì il peso del corpo dell'altro per farlo muovere, finalmente, e l'onda d'urto della schiena contro il muro gli strappò il fiato come se stesse spirando sulla faccia di Eld. Alcuni capelli sfuggirono alla crocchia rovinata nella quale aveva stretto i capelli che, in quei mesi passati lontani, erano cresciuti e ne aveva tinto le punte di blu. Scostò brevemente lo sguardo oltre la spalla di Eld, incrociando quello ghiaccio di Elise. Lo riconosceva? Le piaceva che litigassero così? Tornò su Eld senza provare neanche a reagire fisicamente, non voleva interrompere quell'avvicinamento subito. Loro tre, insieme, quante volte erano stati a un soffio l'uno dall'altro? Aspettò che fosse lui ad allontanarsi, quindi strinse pollice e indice intorno alla pillola dentro la tasca per portarla alla bocca prima che l'uomo mascherato pensasse anche solo seriamente di mettergli le mani addosso. ≪Ti fornisco l'occasione di uccidermi.≫ Si rivolse per la prima volta a quello che un tempo, insieme ad Elise, era stato tutto. Lo sguardo glaciale era stranamente animato da una fiamma violenta lì, proprio nel bel mezzo della pupilla. Avanzò di qualche passo fino a stargli di nuovo perfettamente di fronte. ≪È l'unico modo che hai per essere il centro. O resti un'appendice del cazzo per sempre.≫ Era semplice, non avrebbe dovuto fare niente. Gli sarebbe bastato non portarlo indietro, aspettare che la pillola gli fermasse il cuore e all'alba Eyr sarebbe morto. Glie l'avrebbe perdonato, Elise? L'idea di morire non gli faceva né caldo né freddo, era preoccupante. Non aveva paura, con la morte conviveva da sempre. Lo sorpassò con una spallata lanciando uno sguardo intenso e assolutamente non amichevole a Elise prima di sparire dietro una tenda rossa. Non era lì per loro. Che bruciassero tutti all'inferno.

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    All'inferno ci andò lui quando, diverse ore dopo, giaceva tutto storto su un divanetto foderato di velluto bordeaux dove non ricordava di essere scivolato, o meglio, caduto. Non aveva idea del perché fosse riverso con la faccia a penzoloni dal bordo, i capelli sciolti che sfioravano il pavimento e un rivolo di saliva sul mento. I ricordi tornava in mente come flash convulsivi restituendogli immagini danzanti. L'euforia che l'aveva investito all'inizio l'aveva al contempo deluso. Non era lì per un comunissimo trip e temeva che fosse tutto lì, una fregatura. Poi le cose avevano iniziato a cambiare, volti gli si avvicinavano per sfaldarsi sotto le dita non appena cercava di afferrarli e delle voci lo chiamavano senza che riuscisse a individuare una direzione. A lui parve di non aver mai chiuso gli occhi, e nel tirarsi su dal divanetto provò la strana sensazione d'essersi scisso. Si guardò intorno. I volti erano stati sostituti da una nebbia fitta che lambiva le caviglie. Le voci c'erano ancora, sussurri che smuovevano l'aria come fossero tangibili e, quando aprì una porta rossa compiendo il primo passo nella foresta, quelle parole divennero grida disperate. Dovette fermarsi di botto, i palmi premuti sulle orecchie una protezione inefficace all'intensità di quel suono. Si voltò per scappare di nuovo dentro ritrovandosi però a fronteggiare solo il tronco di alcuni alberi; nessuna traccia della porta dalla quale era venuto. Barcollò in avanti, il fiato corto e il viso distorto in una smorfia. Non capiva di chi e da dove provenissero quelle urla. Aveva l'impressione che fossero nella sua scatola cranica, la affollavano come tutti i pensieri poco sani e terribili che nel mondo vero lo accompagnavano di continuo; era come se si fossero fatti carne e ossa e graffiassero l'interno della testa per uscirne. Poi, sul punto di non farcela più, una voce sovrastò il resto facendo tacere tutti. Figlio mio. Eyr alzò lo sguardo. ≪M-madre?≫ La voce tremò senza che lui potesse farci un granché. La riconobbe senza averla mai vista per davvero, non in quel modo, non in quelle sembianze così lontane dalla figura che attraversava svelta i corridoi di casa Evjen con fare austero ma rassicurante. Ora, di quel conforto non rimaneva molto all''apparenza, e Eyr sentì tremare ogni singola fibra del suo corpo mentre realizzava, pur comprendendo ancora marginalmente, chi fosse in realtà sua madre. Fa male, non è vero? Come fai a saperlo? Ma non lo chiese ad alta voce, l'avrebbe sentito comunque? Invece si ritrovò ad annuire, gli occhi si abbassarono per la vergogna di quel sentimento, per il terrore che la figura suscitava in lui. Avrebbe voluto fare un passo indietro, scappare, salvarsi e al contempo farsi avviluppare dalla mastodontica creatura per diventare un tutt'uno con lei. ≪Mi hanno tradito tutti, anche mio padre.≫ Ansimò, il fiato veloce mentre le mani fameliche della creature gli prendevano il viso senza grazia alcuna. Perché, allora, avvertiva anche amore in quel tocco? Era per lo stesso motivo che troppo spesso violenza e amore si mischiavano in lui? ≪Si è fatto sopraffare, è debole, sta morendo e porterà con sé Calypso.≫ Si avvertì in tutto il corpo la straziante consapevolezza del rendersi conto che i propri genitori non sono altro che semplici uomini, un ammasso di carne ossa e tessuti che possono essere lacerati; e con una facilità impressionante. Ma non Cassandra. Riuscì a sollevare lo sguardo su quello che doveva essere il viso di lei, cercandone gli occhi spaventosi che non riuscì a trovare. Era abbastanza terrorizzato e affascinato al tempo stesso da tremare lievemente.
    Sentirsi definire "straordinario" lo riempì di un calore tale da strapparlo al freddo della mani della bestia, della morsa della morte che aveva ridotto il cuore ormai a un ticchettio fin troppo lento. Tu potresti essere la loro nuova guida, lo sarai. Un suono simile a un rantolo fuoriuscì dalla gola ghiacciata del giovane uomo. Era una risata o un singhiozzo? Le labbra sottili si stirarono in un sorriso che di sano non aveva più niente. Lo sarai.Quando? Sono pronto, non gli permetterò di rovinare Libra come ha fatto con se stesso. Non ti deluderò. Sono più di lui, adesso.≫ Era avido di informazioni, Eyr, voleva sapere cosa avesse visto Cassandra, le immagini che gli forniva erano allettanti ma non bastavano. Aveva già la sua più totale lealtà, lei, era così da sempre. Le sottili trame che aveva intessuto erano molto più resistenti di quelle che Naavke aveva mai cucito. Solo chinando tutta la sua statura il mostro riuscì a piegarsi alla sua altezza, proprio come faceva quando impartiva all'Eyr bambino una lezione. In quegli occhi gialli Eyr si specchiò, ritrovando le promesse di un futuro che aveva sempre desiderato. Inconsciamente cominciò ad avvicinare il viso sempre di più, attratto da quello sguardo terrificante. Si sarebbe lasciato ingoiare se l'occhio non fosse stato attratto da qualcosa che rotolava ai suoi piedi. Raccolse l'oggetto, rigirandolo nel pugno per scoprire la pietra intrisa di sangue. Dimostra il tuo amore, Eyr. Un singulto divaricò le labbra sottili di Eyr come se volesse parlare, dire un qualcosa che però non uscì. Qualcosa l'aveva bloccata a metà nel petto, un cedimento del corpo che finalmente la dava vinta alla morte. Cadde in ginocchio senza sapere che proprio lì il padre prima di lui aveva piantato le proprie ossa. Sollevò gli occhi neri come acque stagnanti verso la madre implorandola in silenzio.
    Sono anche io come te? ≫ Così vicino alla morte, Eyr parve dimenticare che non era il sangue a unirli; che, qualunque cosa fosse Cassandra, Eyr non lo sarebbe mai stato. ≪Sono anche io un dio?≫ Prossimo a soccombere, la smania di essere di più continuava a prevalere su tutto, persino sulla paura. Non ricevendo risposta, Eyr allungò debolmente una mano verso la bestia, i cui contorni si stavano sovrapponendo a quelli di altri, gli alberi da neri diventavo dello stesso bordeaux della stanza rossa nel Perception e una luce fluorescente iniziava a sfavillare nell'angolo del suo campo visivo. Era bloccato in preda a un panico che non poteva rilasciarsi fisicamente viste le condizioni critiche in cui il corpo si trovava. ≪Quando tornerai? Ho bisogno di te, non lasciarmi. Madre...MADRE!!!≫ Eyr rovinò all'indietro sull'erba, sulla poltrona del Perception e così fece quel mondo mentre il cuore cessava di battere. Uno, due, tre colpi fortissimi. Silenzio. Qualcuno nella sua testa gridava ma non ne riconosceva la voce. Altri colpi, terremoto interno, ma Eyr non voleva mollare, voleva restare lì. Sarebbe riuscito Eld a smettere d'essere ai bordi e diventare centro? Gli sarebbe bastata così poco, bastava non fare nulla.
    Grida, scosse di assestamento, poi la luce intermittente legata al suo polso rallentò i suoi sfarfallii impazziti mentre il cuore tornava singhiozzando a battere. A quel risveglio violentissimo, il viso di Eyr era umido di lacrime.

    Edited by scarecrow! - 24/11/2023, 20:09
     
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    Sono qua fuori. Con l'invio di quel messaggio a Tara venivano eliminati anche tutti gli altri finali alternativi di quella serata: Tabby non si era tirata indietro e ora non restava che aspettare di vedere la porta d'ingresso del Perception aprirsi. Era passato del tempo dall'ultima volta che aveva posato lo sguardo su Tara e gli eventi del loro ultimo incontro le erano rimasti impressi nella memoria, anche se non erano riusciti a scalfire i sentimenti che nutriva nei confronti della donna. Ci sarebbe voluto più tempo, oltre ad una forte determinazione, per spostare Tara altrove, per relegarla al suo passato, atto che si sarebbe rivelato impossibile da portare a termine per Tabby. Era stato il lavoro di Tara, il Perception, ad allontanarle, e le sembrava ironico ritrovarsi proprio lì, in degli spazi che Tabby aveva sempre collegato a voci sotterranee, ma di cui non aveva mai avuto l'opportunità di delineare i contorni con certezza. Quello non era il suo ambiente - non sarebbe potuto esserlo - ma lo sarebbe diventato per quella notte, per poche ore. Quando la porta si aprì del tutto, Tabby trattenne il respiro, alzando con calma lo sguardo da terra fino ad incontrare quello di Tara.
    «Scusa per il ritardo, non volevo venire.» Disse subito, rispettando le contraddizioni che era sicura avrebbero caratterizzato l'intera nottata. Coperta da abiti di alcune taglie più grandi, Tabby voleva essere invisibile agli occhi di tutte e tutti, appiattendosi fino a non poter essere distinta dalle ombre che caratterizzavano il locale. Allo stesso tempo, non desiderava raccogliere dettagli, perché lo sguardo avrebbe avvalorato le parole di Tara, restituendo a Tabby la realtà dei fatti e lasciandola con la sola opzione di vedere il baratro aperto tra di loro farsi ancora più ampio. Non sarebbe stato difficile per Tara leggere negli occhi di Tabby, l'unica fessura aperta sul suo viso, altrimenti interamente coperto da un balaclava scuro e ulteriormente contornato dal cappuccio della sua felpa, la preoccupazione che come una morsa stringeva sempre più forte le sue interiora. Tuttavia ogni tentativo dissuasivo sarebbe stato un grosso ed inutile spreco di energie: Tabby doveva arrivare al fondo della questione, al costo di farsi del male. «Stai con me, vero?» Pronunciò più morbidamente, sperando che le sue parole non fossero in grado di raggiungere Tara e allo stesso tempo di poter avvertire le sue dita intrecciarsi alle sue, pur sapendo che l'avrebbe respinta.
    Nonostante le raccomandazioni ed i preziosi consigli di Tara, Tabby non si era recata con leggerezza d'animo fino al Perception e, sotto l'espressione vuota, si malcelava il terrore. Era difficile per lei concentrarsi sulle parole dell'altra, che le stava spiegando passo dopo passo ciò che sarebbe successo all'assunzione della Liquid Death: vedeva le labbra di Tara muoversi, ma le sue istruzioni non la raggiungevano, rimbalzando sulle pareti decorate di quello scrigno opulente. La stanza sembrava aver già preso a girare. In quel momento i ricordi della loro ultima telefonata si stavano intromettendo nella sua mente, e Tabby si lasciò assuefare con docilità da essi. "Non so che fare. Che dovrei fare? Tara, aiutami. Ti prego." I fatti di quel giorno le stavano attraversando la coscienza ancora lucida in un urto di ombre taglienti: la sparizione della madre, il panico, le dita sullo schermo più veloci della realizzazione. Si era resa conto di averle chiesto aiuto solo quando aveva sentito la voce di Tara dall'altra parte della chiamata, l'unica persona su cui sapeva di poter far affidamento. Era stata Tara, ora seduta di fronte a lei, ad offrirle quella via d'uscita, quella possibilità che le avrebbe permesso di vedere sua madre, di assicurarsi del suo stato di salute. Vide uno scintillio d'oro, un'ambra densa ed oscura, prendere il posto delle pupille chiare e familiari di Tara, in cui si era specchiata tante volte in passato. Tabby si domandò se avesse preso la scelta giusta.
    «Quanti giorni?» Domandò infine, strappandosi dalla testa il balaclava per liberare il volto e la chioma apparentemente infinita e ondulata, rendendosi solo nel momento in cui la pelle venne esposta del calore che aveva raccolto sulle guance. «Quanti giorni prima che arrivi in strada? Dove non ci sarà questo... o il tuo collega là fuori?» Aggiunse tirando su la manica della felpa per mostrare il braccialetto che Tara le aveva stretto al polso. Aveva riconosciuto la maglia che aveva addosso Tara, così come l'altra avrebbe potuto riconoscere la sua felpa, rubata e mai riconsegnata, addosso a Tabby. Erano tristemente comici i modi in cui entrambe cercavano di confortarsi a vicenda, senza sfiorarsi. «Cosa farai a quel punto? Vi occuperete del mercato o di quelli che ve l'hanno soffiata?» Domandò nell'appoggiare la schiena contro il divano su cui era seduta, stringendosi le braccia al petto, questa volta guardando con più intenzione Tara. Quando vide le labbra dell'altra schiudersi, Tabby tornò a parlare, coprendo le sue risposte. «È impossibile, giusto? Non arriverà mai in strada. Mmm... quindi ha ragione d'essere qui? Faceva parte del piano di qualcuno?» Provocatorie, le parole di Tabby comunicavano tutta l'insicurezza che la stava facendo tremare leggermente in quel momento, dalle spalle al movimento nervoso della gamba e del piede contro il pavimento. Non capiva cosa avesse spinto Tara a fare la sua parte in quella dinamica e nessuna delle opzioni sembrava rassicurarla: davanti a lei si stagliava una densa coltre di fumo e Tabby non era certa del volerla attraversare. Codarda dietro uno scudo e una lancia, ora che Tabby aveva raggiunto il cuore del labirinto, si rendeva conto di non poter dividere la testa del toro dal corpo della donna.
    Tutte le parole che seguirono, e la discussione più animata, non avrebbero mosso Tabby dalle sue intenzioni. Tara doveva esserne consapevole perché non sembrò tirar fuori tutta la sua combattività. Alla fine tutto si acquietò quando le dita di Tabby si strinsero attorno alla sfera dorata, che strappò da quelle di Tara e fece girare fra i polpastrelli come una biglia. «Grazie.» Sibilò Tabby prima di avvertire il sapore acido del limone sulla lingua, arricciando naturalmente il naso in un vago moto di disgusto. «Ora devo solo aspettare, vero?» Chiese tirando un piccolo sospiro, tornando finalmente a sedersi, prendendo posto sul divano da cui si era alzata prima. Nel portarsi le ginocchia al petto guardò con più intensità Tara e, quando riprese a parlare, la voce aveva perso ogni ruvidità, facendosi più morbida. «Prima di perdere conoscenza mi sarebbe piaciuto poterti fare delle domande su questo posto, ma credo di non volere le tue risposte. Essere qui rende già tutto quello che mi hai detto molto reale.» Parlò senza distogliere lo sguardo da Tara, cercando di trattenersi dallo sbilanciarsi per appoggiare la testa sulla sua spalla. «Lo so che è la cosa migliore ma è comunque difficile accettarlo. È difficile senza di te.» Confessò con trasparenza.
    Mano a mano il tempo iniziò a diventare un magma che scorreva lento e le parole di Tara diventavano bisbigli, sillabe senza senso, di quelle che si usano coi bambini o con le bestiole domestiche. Tabby le aveva detto che avrebbe avuto una brutta esperienza, ne era certa, e le sue parole e i suoi pensieri si manifestarono in forme inquietanti e irriconoscibili. I suoi sensi, come aumentati, erano in grado di captare rumori che non c'erano e forme che la terrorizzavano: ronzii di mosche, bisbigli che si susseguivano senza trovare una fine, lo zampillare distante e fastidiosissimo di un liquido, lo strisciare umido di tentacoli sul pavimento. Questi, in particolare, le sembravano essere ovunque. Pendevano dal soffitto, si espandevano sulle pareti, le raggiungevano le caviglie da sotto i mobili, circondandola fino a trattenere ogni suo arto, stringendole la gola, e impedendole il respiro. Anche se sentiva di non riuscire a proferire una sola parola, paralizzata dalla paura e da quelle allucinazioni che la tormentavano, Tabby non aveva smesso di chiedere a Tara di aiutarla. Nulla, tuttavia, fu in grado di placarla, tanto che iniziò a sospettare della stessa Tara, di cui conosceva le potenzialità e che ora riconosceva nelle forme delle sue allucinazioni. Eppure, così come i picchi più alti l'avevano gettata in uno stato d'ansia e sconforto, tanto da toccare la paranoia, altrettanto rapidamente arrivò la fitta ovatta che creò una spessa barriera tra di lei e l'esterno: isolata come una casa nel mezzo di una tempesta di neve, Tabby si lasciò andare a quella pace come se l'avesse cercata da tempo, osservando le finestre venire coperte da uno strato bianco che si faceva sempre più fitto. Chiuse gli occhi nell'abbandonarsi a quelle sensazioni e nulla sembrò farle più male.
    Distesa tra l'erba alta, Tabby non riuscì ad individuare nessuna stella nel cielo buio, cupo, che sembrava sul punto di crollarle addosso. Tornò seduta a fatica, disorientata, avvertendo il peso di ogni singolo arto, e della sua testa, e di un calore piacevole e familiare all'altezza delle sue ginocchia: un gatto bianco, sua madre. «Mamma, ti porto a casa.» Le disse e con lentezza si alzò, ficcandosi la gatta nel cappuccio della felpa, notando quanto fosse leggera; non sapeva in che direzione fosse casa, ma credeva che una volta superata l'erba alta ed attraversato il banco di nebbia avrebbe riconosciuto le forme della città che conosceva come le sue tasche. «Cosa è successo? Dove siamo?» Domandò, più a sé che a sua madre, ma la voce di Yumi raggiunse i suoi pensieri, infilandosi tra di essi per poter stabilire una conversazione. A differenza sua, Yumi poteva comunicare solo telepaticamente quand'era in forma di gatta e Tabby preferiva quei momenti, soprattutto perché non parlavano né la lingua dell'una né dell'altra, ma parevano comprendersi lo stesso. "Non lo so. È strano qui, ci sono i mostri." Tabby arrestò il passo quando raggiunse una strada sterrata: dovevano trovarsi sul finire del bosco. «Mi prendi per il culo?» La madre non rispose e Tabby ebbe l'impressione di sentire, in lontananza, il ruggito stridente di qualcosa tra gli alberi.
    Dopo breve tempo riprese a camminare con più velocità, ma nessun'altra preoccupazione parve sfiorarla mentre camminava per le strade deserte di Besaid: Yumi aveva iniziato a fare le fusa, regalando a Tabby un po' di calma. Questa non è casa mia. Tabby aveva raggiunto casa sua, lo spazio occupato dal collettivo, e solo quando si chiuse la porta alle spalle lasciò Yumi sul letto. La sua stanza era esattamente come l'aveva lasciata qualche ora prima di dirigersi al Perception. Qui è un casino. Prima che la madre potesse iniziare a riprenderla per la confusione e che Tabby decidesse di cacciarla dal suo prezioso spazio, la più giovane si abbassò al suo livello, prendendo posto accanto alla madre. «Sei sparita da casa tua, da qui posso tenerti meglio d'occhio. Cos'è successo? Stai bene?» Yumi rispose che non lo sapeva e che stava bene. «Sei morta?» Yumi non rispose e Tabby ebbe l'impressione di non essere sicura di poter negare quell'ipotesi. «Non importa. Stiamo qua per un po', okay? Insieme.» Offrì mentre si stendeva accanto alla madre, venendo trasportata a momenti lontani, sepolti nella memoria. A questi, placidamente, si affacciavano immagini che la madre stava descrivendo a tratti nella sua testa, senza utilizzare le parole. Vide di più del mondo che l'aveva assorbita, ma Tabby non riuscì a trovare molte risposte in quelle visioni. Socchiuse gli occhi e non si accorse di aver iniziato ad intonare una vecchia ninna nanna che continuò a cantare fino a quando non vide gli occhi della madre chiudersi del tutto. Quando Tabby fermò il suo canto mormorato, osservando in silenzio i loro ruoli che si erano rovesciati, Yumi la cercò con gli occhi cerulei. «Vuoi che ricominci? Posso farlo tutte le volte che vuoi.» Parlò il corpo che un tempo era stato di Yumi, sua figlia, sua madre, e riprese a cantare.
    Tra le vene di Tabby scorreva quel latte velenoso come il morso di una serpe: abbastanza per trasformarsi in cura, troppo per trasformarsi in morte. E mentre il suo corpo nel Niflheimr si era mosso, si era spostato, e la sua bocca aveva parlato, nessun movimento e nessun sussurro provenivano dal corpo di Tabby, ancora disteso sul divano del privé. Tutto ciò cambiò repentinamente, tuttavia, quando avvertì una scarica fortissima attraversarla, e il respiro tornò con prepotenza a far muovere il suo petto, riempiendo i polmoni d'ossigeno, costringendo il cuore a tornare a battere naturalmente. Quando sbarrò gli occhi trovò un paio di sguardi di fronte a sé ma, per via della confusione, credeva potessero esserci almeno quindici persone sopra di lei. Aveva paura, ma era troppo esausta per combattere. «Che... cosa è successo?» Provò in un sussurro, senza accorgersi di non star parlando in giapponese. Si strofinò le guance e gli occhi con i polsi, avvertendo l'indolenzimento trasformarsi con prepotenza in un dolore diffuso, come se avesse portato il suo corpo al limite senza avere il minimo ricordo dello sforzo. Si strinse le braccia al petto e nell'aggomitolarsi su di sé si accorse dell'assenza della madre, che capì di aver lasciato nell'altro mondo. Si domandò quando l'avrebbe vista di nuovo. Allora, a fatica vagò con gli occhi nella stanza - era il privé che ricordava - e, individuata Tara, cercò la sua attenzione allungando debolmente una mano fino ad afferrarla. «Voglio tornare a casa.» Pregò a bassa voce, sperando che la voce debolissima potesse raggiungerla.

    Edited by Kagura` - 25/11/2023, 13:22
     
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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: [immagini disturbanti (gore), violente o contenuti sensibili (descrizione dello stato mentale di un personaggio che attua dei comportamenti di autolesionismo, salute mentale compromessa);].
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.


    My vision was so unclear
    As I slowly revealed myself
    Now or never
    The time is right
    Out of your shelter
    Crawl back to life.

    209 giorni. Soren li aveva contati tutti, uno ad uno, scavandoli dal legno e nella pietra come tagli nella pelle, da quando era improvvisamente comparso nel Niflheimr. Mente eternamente curiosa, non aveva smesso neanche in quella situazione confusa e difficile di farsi domande e cercare risposte avidamente. Sembrava d'essere in una dimensione di sogno, di camminare tra le foreste scure e nebbiose come se non avessero fine, eppure, passo dopo passo, ogni centimetro in quella Besaid diversa corrispondeva con esattezza a quella riscaldata dal sole che Soren ricordava. No, non poteva essere un sogno: era passato troppo tempo, per quanto lento gli fosse sembrato: grida acute in lontananza lo riportavano a sensazioni sin troppo reali. Non si trattava di tocchi fantasma, allucinazioni o respiri rallentati, ma di un vero e proprio tangibile luogo. Il terrore ed il disorientamento avevano ceduto ben presto il passo a ciò che Soren sapeva di poter fare meglio: ricercare, studiare; e così aveva fatto, lanciandosi a capofitto nella scoperta del luogo in cui era approdato per volere di chissà quale influsso della città, nella speranza di riuscire a trovare un modo per tornare alla sua vita dall'altra parte. Così credeva, almeno. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, la sua mente brillante iniziò anche ad inquinarsi con la fame che minacciava di stringerla tra le sue spire ogni volta che si gettava più a fondo, guardando nel nero più totale e venendo salutato da un paio d'occhi che si aprivano di colpo e lo fissavano, pieni, tondi e senza palpebre, dritti nei propri, brillanti di verde in un mare di sangue scuro. Lo spaventavano, eppure non faceva che avvicinarsi a quello sguardo che lo fissava con odio, piantandosi dritto in ogni figura, nei suoi pensieri, nei suoi gesti che però vi si ribellavano. Soren, infatti, continuava a spingersi sempre più giù, come aveva fatto quando aveva sfiorato il cadavere di suo nipote e lo aveva riportato alla vita strappandolo al suo naturale riposo.
    Non era stato il Niflheimr a corrodere il sottile equilibrio su cui si manteneva la salute mentale di Soren, era stato lui ad aver trovato in quella nuova dimensione il laboratorio perfetto per condurre i suoi esperimenti ed abbandonarsi alla sete di conoscenza che da scintilla si fece incendio, pronta a bruciarlo vivo. Circondato da candele sparse tutt'attorno a sè, Soren veniva lambito dalla luce di quelle fiammelle mentre sotto di sè plic, plic, plic, pesanti gocce continuavano a cadere, una dopo l'altra. La camicia bianca che indossava era ormai dimenticata sulla pietra umida nonostante il freddo della grotta in cui era nascosto, nonostante tutto nel corpo del professore gridasse di smettere. Non l'avrebbe fatto, non ora che aveva scoperto così tanto. Una mano, tremante, completamente sporca di sangue lasciò tintinnare la lama che toccò il terreno coperto da un panno. La cicatrice che il ricordo di Saul aveva impresso su Soren era ormai stata superata da numerose altre lacerazioni, più o meno guarite, più o meno profonde, abbastanza da non danneggiare organi vitali ma sufficienti per strappare carne e versare sangue, là dove serviva. A palmi aperti sul costato morto, divorato dal tempo, Soren iniziò a recitare il suo incanto, il Val Galdral che comparve in rune antiche e sfavillanti di verde, così come sui dorsi delle sue mani il contorno di quelle iridi terrificanti che lo fissavano, due cerchi perfetti con due tondi al centro. Hel. La dea stessa minacciava in sussurri rauchi e sinistri il fato terribile che aspettava a Soren, disturbatore delle tombe da lei sigillate e protette. Tuttavia lui ne ignorò i segnali, spingendosi in avanti, lasciando che il sangue che gli scivolava via dalla pancia bagnasse la metà di quel corpo che ora iniziava ad assorbire la vita che da Soren scivolava via. Non smetteva, cantilenante e morbidissimo, a respirare oltre il dolore e ad evocare la propria particolarità, ma quel cuore fermo non intendeva riprendere a battere. In fretta, raggiunse la lama di fianco a sè, e scavò più a fondo, staccando un piccolo pezzo di carne rossa e viva direttamente dalla sua stessa ferita, rabbrividendo ma senza paura, ormai parte della penombra in cui era sfumato via. Proprio in quell'istante un rapido movimento catturò l'attenzione del negromante, che voltandosi subito in direzione di quel suono così verde, come la spessa foresta e le acque torbide dei laghi, trovò una persona che non immaginava potesse apparire in carne ed ossa davanti a lui.
    Sorrise, dolce, nel ricordare i lineamenti ora adulti in entrambi Vilhelm. Era stato un periodo felice e colmo di affetto quello che aveva visto i due frequentarsi come amici e amanti, ed era passato del tempo da quando Soren aveva visto Vilhelm per l'ultima volta. Tanto era cambiato, loro erano cambiati, e nello sguardo dell'altro vide iridi del tutto opposte alle sue. Da un lato, un uomo nel cui sguardo profondo brillava una luce spiritata, luminosa di follia e dolore, e dall'altro delle iridi smeraldine svuotate da un passato violento. Ah.. Vilhelm. Da quanto tempo. Trillò a bassa voce e sinceramente felice Soren, distratto nel suo incantesimo, il cui bagliore prese a svanire, rivelando le numerose cicatrici anche sulle braccia ed il resto del torace. Non preoccuparti! A lei ho potuto chiedere il permesso. Ci tenne a specificare, lanciando uno sguardo ai resti umani accuratamente distesi vicino a lui. Diversamente da Saul, con cui per ovvie ragioni non riuscì a parlare prima del rituale di necromanzia, Alfhild si rivelò curiosa delle pratiche poco ortodosse di Soren. Gliel'aveva comunicato lei stessa, spettro evanescente tra le nebbie del Niflheimr. Il rituale, tuttavia era stato interrotto, ed a Soren poco importava se Vilhelm fosse reale o creato dalla sua mente: gli avrebbe comunicato i risultati delle sue ricerche, ora che poteva operare indisturbato ed approfondire ogni domanda, facendone germogliare di nuove. Ci riproverò dopo, spero che tu stia bene Vilhelm. Ma ascolta, ascolta. Ho tanto da dirti. La fronte imperlata di sudore rivelava uno stato quasi febbrile in Soren, che pallido e con occhiaie scure doveva non aver dormito da giorni. Venne fermato solo dalle domande di Vilhelm, che il professore registrò velocemente mentre deponeva la lama al lato del proprio corpo esattamente nello stesso posto in cui l'aveva presa. Come sei arrivato qui? Non è un sogno, lo so, ne sono convinto, non sentirei dolore. La mitologia è chiara, siamo nel Niflheimr, la terra delle nebbie, governata dalla dea Hel, la gigantessa. E di nuovo, quei terrificanti occhi tornarono a lampeggiare nella mente del professore, fermandolo nelle sue parole, finchè non piegò le labbra in un sorriso. Anche lei sarebbe stata curiosa di sapere come sarebbe andata a finire? E nella morte, sì, è lì che c'è la suprema conoscenza Vilhelm, tu lo sai, l'hai studiato proprio come me. Soffiò il professore, senza smettere di sanguinare. E sai che ciò che sto dicendo è vero. Ci troviamo in acque inesplorate, è tutto collegato: l'eclissi, i rumori in spiaggia, una luce e poi questo, improvvisamente mi sono ritrovato qui. I livelli del tempo e dello spazio si sovrappongono, qui sembra scorrere tutto più lentamente. Vilhelm, ho visto creature descritte solo nella letteratura, eppure sono vive, esistono e si muovono tra noi. Nascosto, Soren aveva vagato a lungo nel Niflheimr, osservando, appuntando, disegnando, registrando nella mente ogni dettaglio. Aveva utilizzato la sua particolarità più e più volte, evocato corpi umani, vegatali ed animali, aveva udito urla disumane, notato sagome aliene tra gli alberi, visto spettri fluttuare, eventi sovrannaturali in un mondo liminale tra questo e l'altro.
    Non riesco a trovare il legame, ma lo sto cercando. Dev'essere qui, nella città, è lei nella natura, nelle persone, a formare i nostri destini. Devo capire come. L'Unico, la sua sparizione, la creazione del Niflheimr come meccanismo di difesa da parte sua e di Besaid, come tornare indietro? Un nesso dopo l'altro, Soren cercava di comprendere tutto ciò che poteva per svelare il mistero ed al tempo stesso acquisire più conoscenze, scoprire ciò che rimaneva celato sotto veli di nebbie e timori. I morti... chi meglio di loro conosce la propria casa. Una mano, insanguinata, andò a raccogliere gentilmente quella putrefatta di Alfhild nella propria. Vedi, qui è diverso. A prescindere dal credo delle persone defunte, siamo in un posto che ha regole precise. Le conosci bene, sono quelle precristiane. Come vedere "spiriti" di persone defunte se esse non possiedono un'anima? Sono riuscito a parlare con Alfhild ben prima di poterla evocare per chiederle... La voce del professore si spense, perso nei suoi pensieri quando nel parlare si rese conto di aver raggiunto la propria ferita con la mano libera, accarezzandola con la punta delle dita. Se solo fosse stato raggiunto da Saul lì, avrebbe potuto chiedergli perdono? Ironico come stesse girando in tondo, cercando di rimediare ad errori passati utilizzando i medesimi comportamenti che lo avevano portato sin lì - probabilmente di perdono non si trattava affatto. Gli spettri... Sono tutti testimonianze, connessioni. Se non esisteva un concetto monolitico come l'anima ed il sè era diviso in più parti*, tutte collegate alla propria posizione sociale ed alle proprie azioni in vita, ciò significa che ogni persona è il tessuto della città, ogni persona è Besaid. Colpito da quella realizzazione, Soren si allungò dalla propria seduta vicina al cadavere per aprirle le mani al suolo sino ad afferrare il proprio taccuino, in cui aveva raccolto tutti i dati, esemplari e note delle proprie scoperte. Ed ogni persona diventa Niflheimr. Se non si usa la propria particolarità si svanisce.. Si diventa ombre e spettri. Tragico e affascinante. Trascrisse in fretta e furia tutto ciò che aveva appena pronunciato, sporcando i fogli di rosso, dopodichè si rivolse a Vilhelm. Perchè sei arrivato qui adesso? Perchè sei venuto da me? Dopo tutto quello che è successo.. Vilhelm. Per qualche istante, tutta l'agitazione che muoveva Soren in ondate d'energia si placò, fermandosi nel contatto e nella connessione che egli stesso aveva per primo delineato, ora che senza paura il professore piantò le mani al terreno, mettendosi con fatica in piedi per poter finalmente fronteggiare il precedente amante ed amico. Sei davvero tu. La risposta l'aveva davanti agli occhi, sotto le mani: dopo tutto quel tempo in solitudine, Soren aveva persino ritrovato una persona tanto importante per lui, a cui ancora pensava con affetto - lo stesso con cui si fece avanti, incurante del sangue, del dolore ancora acuto, delle rune ormai quasi del tutto scomparse sulla pelle e soprattutto di poter intimorire il suo interlocutore, di cui raccolse una mano tra le proprie per stringerla con premura e lasciarvi un bacio. Ti lascerò un messaggio, in università, dove ci incontravamo anni fa, te lo ricordi? Esordì determinato ma sempre molto piano, senza lasciar andare Vilhelm per il momento. Ma non posso tornare indietro, devo ancora parlare con Alfhild e con molti altri..

    Disponibilissima ad espandere tutto ciò in una role!
    Qui la reference: *https://norse-mythology.org/concepts/the-parts-of-the-self/
     
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    So I will wait for the next time you want me
    Like a dog with a bird at your door

    Aveva perso da tempo ogni stilla di vergogna - anche se forse il termine più adatto a lui era inadeguatezza. Intento a fissare apertamente Naavke, il cui viso altrimenti inghiottito dall'oscurità dell'abitacolo era illuminato fiocamente dalla luce blu del display, Vilhelm finalmente catturò il momento preciso della transizione tra due sentimenti contrastanti ma coerenti: l'espressione succube della fascinazione si ingrigiva fino a spegnersi, lasciando spazio all'emergere di ricordi complicati che lo legavano a Naavke. Sensazioni di colpevolezza, di risentimento, di euforica lealtà persistevano in Vilhelm come nel momento struggente in cui il cane sussulta sotto la mano del padrone, accettando il tocco confortante della sua carezza ma rivelando una traccia di fiducia ferita. Lo sguardo si sposta sottilmente e si socchiude appena, perché il cane ha memoria della crudeltà della mano di cui permette le carezze. Eppure il cane non è in grado di nutrire rancore, né capace di vendetta. Contemporaneamente, in quei momenti non poteva sfuggire alla consapevolezza di ciò che aveva fatto a Naavke, un tradimento inciso nella trama della loro connessione. Non era amore quello che spingeva Vilhelm a camminare al fianco di Naavke ma un miscuglio pericoloso di motivazioni che, stranamente, non mancavano di senso. Era stato Vilhelm a condannare Naavke e, tra le ragioni, non poteva ignorare anche il sinistro senso di superiorità acquisita con quella promessa eterna - più di quella che lo legava a Cassandra. Per questo avrebbe raggiunto la sua mano e avrebbe accolto la sua carezza, anche se lo sguardo sarebbe stato leggermente distolto, nello stringersi. «È già qui, tra di noi.» Rispose in un sospiro più denso. Naavke non l'aveva mai trascinato a sé, gli aveva solo aperto la visione su una strada che Vilhelm stava già percorrendo, un sentiero tortuoso di auto-distruzione, di oscurità, di follia.
    Apparentemente disinteressato a qualsiasi dettaglio o elemento che nascondevano le mura inesplorate, fino a quel momento, del Perception, Vilhelm assunse un'aria distaccata e seria nel fare i primi passi in quello spazio sconosciuto. Sebbene non fosse estraneo all'assunzione di funghi allucinogeni, che certamente accettava molto più di buon grado che gli psicofarmaci che gli avevano prescritto, malcelava una certa dose di incertezza dietro l'espressione ombrosa. Le istruzioni erano chiarissime, eppure il problema non sembrava risiedere tra le righe di descrizione della Liquid Death. Era la fiducia cieca in colui che si sarebbe dovuto occupare di risvegliarli a preoccuparlo, soprattutto quando questo era occupato a riempirsi di noccioline al bancone del bar. Eldjàrn. Vilhelm si sforzò di fissarlo per qualche secondo, così da ricordarne i lineamenti del viso. Vagando con lo sguardo avrebbe potuto riconoscere anche il volto di uno dei figli di Naavke, Eyr, ma Vilhelm sapeva che non sarebbe stato saggio intromettersi in affari di famiglia. Se si fosse fermato ad indagare ulteriormente quel giovane uomo avrebbe riconosciuto in lui un desiderio non dissimile a quello che covava dentro di sé, con l'unica differenza che Vilhelm non avrebbe permesso a nessuno di soddisfarlo al posto suo. Di lì a poco ricevette la sua dose, pronto a spostarsi altrove. Dopo non molto, tuttavia, arrestò i propri passi, girandosi di poco per fissare lo sguardo sul professore Losnedahl, con cui Naavke aveva deciso spontaneamente di intessere una conversazione. Si fissò sulla postura del professore, sul cipiglio dell'espressione colta allo sprovvisto da quel dialogo breve ma carico di significati con Naavke, sulla paura che si nascondeva tra i suoi gesti. Non vuole perderla. È un bravo padre. Con un movimento nervoso del capo cercò di scacciare via i filamenti invisibili della mente affamata, pronta ad immergersi nei fantasmi che animavano quella del professore. Terrore. Troppi spettri abitavano già tra quelle pareti che si erano fatte abbastanza anguste. «Quale soluzione migliore di prendere le parti di un lunatico per provvedere a sua figlia, professore... soprattutto quando il prezzo da pagare sono le vite degli altri.» Parlò con voce piena di veleno, quando sapeva che, nella sua situazione, avrebbe compiuto le stesse scelte. In fondo, Vilhelm su quella spiaggia aveva preso le parti anche di Naavke, schermandolo dagli attacchi altrui e permettendogli di muoversi nell'ombra. Allo stesso tempo,, Vilhelm aveva segretamente accarezzato l'idea di diventare padre e, in quei momenti, percepiva la vicinanza a Losnedahl come una carezza salata su ferite mai cicatrizzate. «Buona serata a lei.» Salutò il professore, come riemerso da una febbre che l'aveva reso cieco per qualche secondo. A quel punto non mancò di lanciare un'occhiata piena di risentimento ma più spenta a Naavke - che l'aveva privato di una vita normale, che aveva privato la figlia della sua maternità, che parlava dei compiti dei padri -, e riprese a camminare verso il privé che avrebbero occupato di lì a poco.
    «In vena di fare un giro per il tuo palazzo delle memorie?» Offrì in risposta Vilhelm, raccogliendo la sfera tra le dita e prendendo posto esattamente di fronte a Naavke, senza imitarne la postura. Si appoggiò interamente allo schienale dell'ampia e bassa poltrona che occupò, allargando le gambe sulla seduta come se stesse per assistere ad uno spettacolo che avrebbe catturato la sua completa attenzione. Respirò più profondamente, rilassando la postura dopo aver volontariamente fallito il tentativo di ingannare Naavke: non avrebbe assunto la Liquid Death, nonostante lo scintillio ne solleticasse la curiosità in maniere sinistre. Almeno, non per il momento. Avrebbe assistito e guidato Naavke nel suo viaggio, assicurandosi che niente e nessuno potesse mettere a repentaglio la sua incolumità: la vulnerabilità dell'uomo e non del dio era una prerrogativa esclusiva di Vilhelm e di cui, anche se non l'avrebbe mai ammesso, era molto geloso. «Non questa volta, ma sarò dietro di te.» Confessò subito le sue colpe con rilassatezza, mostrando la piccola sfera che non aveva ingerito agli occhi taglienti di Naavke, che scrutò con attenzione, per poi prendere nota mentale dell'ora dell'assunzione. «Tra non molto dovresti iniziare a sentire i primi effetti e tra qualche ora dovresti arrivare a destinazione. Non ci resta che attendere.» Si domandò quale fosse lo stato mentale dell'altro che, per quanto familiare, gli era quasi del tutto imperscrutabile: decidere di cedere il controllo della situazione a Vilhelm non doveva essere stata una scelta facile, anche se non presa nel pieno della coscienza. Vilhelm era sicuro che l'altro gli avrebbe perdonato le sue mancanze nei confronti della parola data.
    "Hai fatto bene a scappare. Nascere fa male." Quali immagini si susseguivano di fronte allo sguardo di Naavke? Dove l'aveva portato la sua immaginazione sotto la guida della droga scioltasi contro la sua lingua? Vilhelm lo sapeva bene: la quiete di quella stanza decorata in modo raffinato, senza però risvegliare in lui alcun senso di accoglienza, non sarebbe stata interrotta da nessuna voce che portava con sé le risposte alle sue domande. Al contrario, in un dialogo intimo ed interno tra sé, Vilhelm sarebbe stato accarezzato da conclusioni che faticava ad accettare. "Tu sei stato la mia primavera". A quel punto Vilhelm soppesò le parole di Naavke come si fa con una pietanza nuova, spostandole nella sua bocca da una parte all'altra per accogliere ora il sapore più dolce, ora quello più amaro. Se davvero era stato per Naavke una primavera - sempre che fosse un esercizio utile quello di tenere in considerazione le parole proferite da un uomo che stava attraversando uno stato alterato di coscienza -, Vilhelm credeva che si sarebbe trattato di un risveglio alieno della natura, allo stesso tempo mai sfociato nella sua grandiosità perché non in grado di nascere in una terra desolata, ed eccessivamente precoce e maturo, spinto con dolore fino alla putrefazione. Semmai la loro fosse stata una primavera, Vilhelm non avrebbe potuto individuare nel campo ai loro piedi le ricchezze dell'iris, degli alberi del tasso e del mirto, del ranuncolo, dell'erba viperina, della viola e del papavero. Sarebbe mancata nel torrente l'acqua cristallina dovuta allo scioglimenti dei rigori invernali ma, al contrario, Vilhelm avrebbe gettato lo sguardo in un'acqua stantia di un pozzo senza fine. Da quello stomaco orribile sarebbe strisciata fuori una creatura ibrida, immonda, dai palchi che spezzavano il cielo e gli zoccoli la terra. Eppure Vilhelm non ne sarebbe stato disgustato, e avrebbe riso della creatività dell'amante che riusciva a paragonare alla primavera quella decadente visione.
    Vilhelm si alzò solo quando fu il momento giusto. Quando ogni movimento si arrestò, l'uomo si avvicinò al corpo immobile di Naavke per scrutarlo come se fosse stato lui, nascosto agli occhi dell'altro, a colpirlo con il farmaco che ora lo rendeva innocuo. Raccolse il polso dell'altro tra le dita e prima di verificare che il battito cardiaco si fosse arrestato del tutto, Vilhelm si soffermò sul viso pallido di Naavke. L'aveva sognato in quelle stesse condizioni in spiaggia, tempo prima, e sapeva di essere stato lui quello ad averlo accompagnato nel sepolcro: era la seconda volta che lo vedeva in quello stato e Vilhelm si domandò se avrebbe avuto la fortuna di vederlo una terza, ed ultima, volta. Solo a quel punto notò del sangue rappreso scendere viscoso e lento lungo il polso dell'altro, fino a raggiungere nella sua discesa la mano di Vilhelm, macchiandogli le dita. A quel punto alzò la manica della giacca di Naavke per scoprire una ferita aperta ma non sanguinante e gli parve come essere di fronte a certe nature morte di Snyders Frans. Come un bracco, Vilhelm aveva gli occhi su quel bottino di caccia, rendendosi conto di trovarsi di fronte ad una scelta: avrebbe potuto rispettare le parole del padrone, allontanandosi senza avventare un morso alla carne sanguinante, oppure dare ascolto all'istinto, stringendo le fauci al collo della grossa preda. Avrebbe potuto godere di quella morte quieta e spettacolare, prendendo il suo posto in prima fila. Sarebbero stati pari, a quel punto? Avrebbe gioito, nel sentir la catena allentare la sua presa sul collo, mentre i denti affondavano nel collo del cervo morente? C'è ancora tempo. Infine decise, nell'abbassare il polso privo di battito di Naavke, che avrebbe abbandonato ogni brama più cupa: si pulì la mano senza fretta, aprì la porta e chiese l'assistenza di Eldjarn per permettere a Naavke di svegliarsi.
    Il suo passaggio, all'ingestione della Liquid Death, non fu difficile, nonostante domandò a Vilhelm molto più sforzo e fatica di quella che gli avrebbero richiesto le sostanze a cui era abituato. Non si rese conto del momento esatto in cui aveva abbandonato il privé. Ora stava attraversando il bosco con un passo che si faceva sempre più accelerato, e credeva di star sfuggendo da qualcosa, da qualcuno che sarebbe stato in grado di fiutare ogni suo passo. L'umidità della notte si attaccava alla pelle esposta, mischiandosi al sudore, e sebbene lo sguardo di Vilhelm stesse cercando tra i tronchi l'origine della sua inquietudine, nulla confermò la ragione della sua corsa. Tuttavia, continuò a correre in quel silenzio spettrale, almeno fino a quando davanti a lui si aprì la visione di una casupola, ben nascosta nel bosco, mangiata dalla fiamme. C'erano delle mani contro i vetri opachi, volti squagliati dal calore e bocche deformate e spalancate che pregavano d'essere ascoltate. "Aiutaci. Tu sei uno di noi, aiutaci..." Come se l'esplosione fosse divampata nel momento stesso in cui aveva posato lo sguardo sul legno, Vilhelm reagì d'istinto, cercando di mantenere l'equilibrio mentre si allontanava con più fretta. Ignorò le grida che si alzarono con le fiamme. Quando si accorse di essersi fermato, Vilhelm era completamente al buio. Mai, prima d'ora, aveva visto niente del genere: un nero così puro, così avvolgente, da fargli riscoprire un calore che non aveva mai dimenticato. Nell'incontrare con una mano una parete, e nel privarsi perfino del respiro, Vilhelm riuscì a capire di essere in una delle aperture cavernose di Besaid. Le aveva esplorate, da bambino, e perfino in compagnia di altri, aveva sempre creduto che l'unica presenza che dominava sulle altre fosse la caverna stessa. Non c'era nient'altro se non la completa oscurità, lo zampillare dell'acqua, il lento scorrere di un fiumiciattolo che andava avanti da secoli, forse millenni. Per qualche strana ragione, Vilhelm si sentì a suo agio - e, facendo della parete umida la sua guida, s'incamminò nell'oscurità.
    Il crepitare timido di una miriade di candele, accese come occhi intenti a fissare una scena con la massima attenzione, costrinse Vilhelm a socchiudere le palpebre. Si era abituato all'oscurità, ma credeva di essere di fronte a qualcosa di ben peggiore: anche lui diventò spettatore di una raccapricciante e macabra rappresentazione. Per quanto lo desiderasse, non riuscì a smettere di guardare la lama che attraversava la carne, il sangue che ne usciva, uno strano bagliore illuminare il corpo di chi si stava sacrificando. Solo quando il rumore dei propri passi destò l'attenzione dell'uomo immerso nel rituale, e sentì la voce chiamarlo per nome, Vilhelm parve essere attraversato da un lampo di consapevolezza. Quell'oscurità lo conosceva, lo riconosceva. «Søren.» Emise in risposta, molto meno entusiasta dell'altro, mentre gli occhi si puntavano su un altro corpo che, data l'immobilità immaginò essere un cadavere, un altro lugubre oggetto di scena. Allora iniziò a fare qualche passo verso di lui, almeno fino a quando non sentì il tintinnare della lama sul terreno; a differenza di Søren, Vilhelm era disarmato, ma non credeva che l'altro avrebbe potuto fargli del male - almeno, non senza il suo permesso. Se Søren lo riconosceva, Vilhelm non poteva dire lo stesso: mutato nell'indole e nell'aspetto, Vilhelm si domandò se quella sete di conoscenza, fonte a cui Søren si era abbeverato copiosamente e ora desiderava con tutto sé stesso condividere anche con l'amico ritrovato, non ne avesse inquinato la psiche. In fondo, anche Vilhelm era cambiato - per sua volontà o per volontà degli altri, non c'era alcuna differenza. Dunque rimase in silenzio, per ascoltarlo, ricevendo dall'amico informazioni preziose, presentate in maniera così lucida da spaventarlo. Le sue parole si estinsero in un bacio, un punto alieno all'intera dinamica e, poi, una richiesta.
    Vilhelm non arretrò, soppesando la risposta sulla lingua. Così come Søren, lui stesso aveva credeva di aver vissuto l'incontro con il Niflheimr, anche se in modalità e tempi diversi, e credeva che sarebbe stato utile alle ricerche dell'altro conoscere di più. Sapeva che, condividendo quelle informazioni, l'avrebbe spinto ancora di più verso quella follia di conoscenza che lo inebriava, eppure non riusciva a trovare un giusto motivo per cui avrebbe dovuto Søren di quelle notizie. «Non dovresti tornare indietro, qui sei molto più libero.» Gli rispose serio, allungando una mano per toccargli una spalla, stringendola leggermente nella presa ma senza l'intenzione di arrecargli dolore. «Il giorno in cui sei arrivato qui, quando si è aperto il cielo, è successo qualcosa di strano sulla spiaggia...» Mentre ripercorreva nella memoria quegli eventi, facendoli vivere una seconda volta tra di loro attraverso le parole, Vilhelm non risparmiò a Søren nessun dettaglio. Gli parlò dell'arrivo in spiaggia, dell'emergere di un gruppo di sconosciuti e dell'Unico, delle sue parole, delle fazioni, delle divinità accorse in loro aiuto, e del sangue versato. «Non devi essere il solo ad essere qui, ma forse questo lo sai già. Ci sono persone che sono state portate dallo squarcio nel cielo, come te, e persone che sono state portate qui per poco tempo da un fungo, come me.» Disse, nel concludere la descrizione degli eventi, apprezzando per qualche secondo il silenzio del piccolo ambiente. Per poco tempo... almeno lo spero. Respirò più profondamente, vagando con gli occhi attorno a sé, tornando al viso pallido di Søren dopo poco tempo. «Devi fare attenzione, Søren, non posso immaginare quali siano le intenzioni di quell'uomo, di quelle persone. Io andrò in biblioteca, e tornerò a farti visita quando potrò, quindi tu devi rimanere... in vita. Per quanto possibile.» Ultimò, pronto a raccogliere le domande di Søren. Per quanto perspicace, Vilhelm brancolava ancora nel vuoto. Infine, gettò uno sguardo a terra, verso Alfhild, che aveva privato delle cure e delle attenzioni di Søren. «Perché non mi mostri quello che stavi facendo?»
     
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    Sei gentile, Tara. Tra tutti i modi in cui avrebbe pensato di definirsi sul lavoro, gentile era l'ultima delle parole che avrebbe sfiorato Tara, tuttavia nel soppesare lo sguardo di Eldjàrn nel proprio, trovò interessante capire dove le parole del collega li avrebbero condotti. Non le dispiacevano la sua espressione seria, le iridi ferme, le palpebre immobili: Eldjàrn era molto più di quel che intendeva dare a vedere, Tara ne poteva riconoscere i contorni potenti stagliarsi contro l'ombra che avvolgeva entrambi. La rassicurazione è per me, o...? Sei preoccupata per qualcosa in particolare, forse? Eldjàrn non aveva torto: Tara non era serena. Sarebbe stata una serata difficile, forse più di altre da quando gli affari del Perception erano passati sotto la sua supervisione. Pensò al fatto che molte persone più o meno conosciute, più o meno care, avrebbero varcato la soglia del locale, diventato per davvero il passaggio verso gli Inferi. Niente di cui tu debba preoccuparti. Soffiò infine lei, ferma e intenzionata ad elaborare oltre: non avrebbe dato Tabby in pasto ai propri colleghi, persone che come lei avrebbero potuto fiutare sangue nell'aria. Oggi ognuno avrà le proprie gatte da pelare, Eld.. Facce note anche per le siepi intricate del Labyrinth erano comparse sulla lista del Perception, e Tara le aveva delineate nei ricordi come ombre della mente - era certa che Eldjàrn aveva fatto lo stesso con le proprie, di ombre preferite. Come sopra, così sotto. Poco dopo fu Xena ad interrompere il flusso di pensieri della donna, che le dedicò delle attenzioni rivolgendo comunque un pensiero al suo interlocutore prima di voltarsi nuovamente del tutto verso di lui. E' lavoro, ti basterà fare il tuo. Commentò lei mansueta, esalando un ultimo respiro prima di alzarsi in piedi. Con questo, Tara si congedò da Eldjàrn, abbassando lo sguardo sulla mano dell'uomo posata tra le orecchie di Xena, che scodinzolava tranquilla - Eldjàrn sembrava piacerle. Pepi, ragni, serpenti; tutto nella stessa frase, non fa una piega. Sono un adoratore anche io. Un cenno del capo ed il solito sorrisetto scoccato in direzione dell'altro, e Tara richiamò Xena a sè; il suo lavoro non le avrebbe concesso fiducia in altri, ma se non avesse potuto riporre totalmente la propria in Eldjàrn, contava su ciò che da generazioni garantiva alla sua famiglia la buona riuscita dei propri piani: il semplice, brillante e crasso denaro.
    Da lì in poi il passaggio di Tara tra le sale del Perception si fece continuo e fluido, un rivolo nero tra gli avventori che scorreva senza fare rumore ma toccando tutti con lo sguardo, finchè esso non venne catturato da una persona a lei familiare. Dunque, era tutto vero: Ares stava morendo. Difficile immaginare uno come lui piegato dalla malattia, quello spirito fiammeggiante spento sino a diventare carbone color pece. «La natura di fantasma non fa per te.» Eppure, era proprio spettro che Tara si sentiva quella notte: una figura che si muoveva tra i morti, ma che non poteva raggiungerli - un fantasma al contrario, l'unica viva tra le acque dell'Acheronte. «Sto morendo. Non so precisamente quanto mi rimane, forse un anno, forse più o forse meno. E’ stato quel giorno alla spiaggia. Io e lei siamo condannati.» Tara lo sapeva: che fosse stato per via di un incidente, di una pallottola, di una persona malfidata, le vite di persone come loro restavano appese ad un filo sottilissimo estremamente facile da recidere, eppure non si aspettava questo. Una lenta, disturbante malattia sovrannaturale. «Non cadrò da solo, perciò smetti di fare quella faccia.» Ne avevano parlato, neanche troppo tempo addietro: avrebbero voluto andar via, se fosse successo a loro, a proprio modo. Quasi si sarebbe messa a ridere, se non fosse stata dispiaciuta per la notizia appena udita. Solo uno stronzo sovrannaturale avrebbe potuto buttare giù uno come Ares, ed ancor più una donna come Athena Drakos. Anche esseri umani mastodontici come loro, però, dovevano avere paura. Tara soppesò quella riflessione qualche istante sulla lingua prima di muoverla per parlare. Manca ancora un anno, per te e per lei. Sottolineò lei, lasciandosi risvegliare dai propri pensieri dalla stretta in cui l'altro le aveva raccolto una spalla. Dovevi strappare un bacio al tribunale anche in punto di morte, eh? Lo scherzo flebile nascondeva nubi all'interno della mente e dello sguardo, che affollarono le iridi azzurre una volta che Tara le portò in quelle del collega e amico. Se proprio ve ne dovete andare e non ci sarà niente che potrò fare per fermarlo, allora dovete andare a modo vostro. Si fece pronunciare un'ultima promessa, ed un altro bicchierino si scontrò cristallino a quello di Ares. Le conversazioni allora si affievolirono, e con esse Tara tornò a scivolare via nell'ombra, oscurata da una nebbia di pensieri che si stratificavano sino a renderle la mente un cielo impenetrabile. Almeno sinchè V non lo trafisse con le sue parole. «Il cane possiede la bellezza senza la vanità. La forza senza l'insolenza. Il coraggio senza la ferocia. E tutte le virtù dell'uomo senza i suoi vizi.» La voce dietro la maschera, umana ma non solo, fece capolino sino ad accarezzare l'udito di Tara ed a spingerla ad incrociare le braccia spesse al petto, mentre mansueta ed incuriosita, la donna inclinava appena il capo nel riflettere sulle parole appena pronunciate dal carismatico cliente. L'uomo non ne ha neanche una, di virtù. Lo corresse solo poi, con la facilità con cui si parla ad un amico, formulando le sue considerazioni sotto le immagini che notte dopo notte si fissavano nei propri occhi bianchissimi e senza pupille quando questi si fissavano in quelli atterriti di uomini colplevoli, tutti colpevoli. «E' un buon periodo per tutti noi, Tara, eppure mi sembri così melanconica.» Sembrava come se, tra i gesti evocativi e teatrali di V, lui stesso delineasse sul volto di Tara la lacrima che non vi era ancora passata. Sapeva di star raggiungendo il limite: la propria particolarità, la spada che pendeva sulle teste di tutti a Besaid, il peso di una vita che lei stessa aveva scelto, la perdita di persone che poteva definire amiche ed il pericolo che sfiorava il suo cuore già incrinato e lo stringeva minacciando di romperlo in mille pezzi. «Il dolore è forza motrice del mondo, sfruttalo». Anche dopo la graziosa uscita di scena dell'uomo, Tara si trovò a fare i conti con le sue parole ricolme di una saggezza che ancora non l'aveva raggiunta. Ma come? Come avrebbe sfruttato il suo dolore? Cosa le avrebbe portato se non ulteriore violenza? La domanda restò aperta, intrappolata in eco che non avrebbero lasciato andare Tara per tutto il resto della serata.
    Tra un giro e l'altro, Tara affidò la preziosissima Xena alle cure di membri dello staff a lei fidati, ora che la serata iniziava a sciogliersi verso la fine, proprio la parte che temeva maggiormente. Di nuovo gli strati si infittivano, proprio quando dopo tutta una notte filata liscia come l'olio Wade la contattò ridacchiando mentre le spiegava di avere un "problema da Fear Street". Non appena Tara apparse all'entrata, avrebbe voluto rimanere sorpresa, ma adocchiare la figura di Ana le parve così ridicolmente possibile. «Taaaraaaa, mia caraaa» Alzò quindi gli occhi al cielo sino a far scomparire del tutto le iridi e fece cenno a Wade di non preoccuparsi - di chi altri poteva trattarsi per un caso di carta d'identità contraffatta ad un evento blindato come quello se non di Ana? Da quando l'aveva conosciuta nei meandri scuri del Labyrinth, Tara poteva rivedere se stessa nello sguardo acceso e ribelle della ragazza più giovane, riconoscendosi in forme che aveva già percorso e che non l'avevano più abbandonata: aveva iniziato, proprio come lei, a spezzare le proprie catene, ed ancora lottava per non lasciarsi imprigionare mai più. Ana le ricordava tutto questo, come la sorella minore che non aveva mai avuto. Così, infatti, che l'avessero esplicitamente condiviso o meno, Tara trattava Ana, lasciandosi pungolare come avrebbe fatto da un membro della propria famiglia se avesse avuto il dono di un rapporto solido con loro. «Come va, come stai bellezza, raccontami tutto… Ma sei dimagrita? Ti sono cresciuti i muscoli, vero? Non mi dire – hai fatto qualcosa ai capelli, eh? Ci ho azzeccato?» La raffica di domande passò oltre Tara come vento su una montagna, e chiusa nel silenzio ascoltava il rumore appiccicoso delle zampine dell'altra arrampicarsi sugli specchi. Fece allora un passo avanti mentre Ana si spostava indietro, lasciando casualmente riposare una mano sul calcio della pistola al proprio fianco. Tu, con me. In silenzio. La inchiodò lei, avvolgendo una mano attorno al suo braccio per tirarla via dall'entrata, fermandola così nell'anticamera del locale. La lasciò andare solo allora, senza realmente volerle recare alcun danno con la sua stretta. L'hai visto il tizio vestito da preservativo rosso armato fino ai denti? La vedi la pistola che porto io? Sai perfettamente perchè ce l'ho. Questo posto è pericoloso, Ana. Non è un garage dove si prova droga a caso per farsi un trip del cazzo con gli amici. Specialmente oggi. Forse, proprio perchè sapeva di avuto bisogno di una persona che fosse stata così dura con lei anni prima, Tara sentì di dover essere quella donna con Ana, sporcata anche dallo stress delle ore precedenti. La guardo dritta negli occhi, cercando il motivo per cui Ana aveva persino provato ad entrare con un ID falso all'interno del Perception. «Diciamoci la verità, nessuna delle due vorrebbe essere qui in questo momento, perciò direi che prima risolviamo, prima ce ne andiamo entrambe a casa, che ne dici? Ti faccio una proposta, tu mi lasci passare, ed io…» Non convinta dai gesti e dalle parole della ragazza, Tara la colpì con lo sguardo gonfiando il petto in sospiro che esalò poco dopo, sollevando un sopracciglio. Si abbassò appena, sino ad arrivare alla stessa altezza di Ana per potersi avvicinare tanto da poter registrare ogni piccolo spasmo del suo viso, la cui espressione sicura si era incrinata già mentre parlava. E tu? Domandò a bassa voce, restando lì per qualche altro secondo prima di farsi indietro e scuotere la testa, intenzionata a far uscire Ana il prima possibile dal locale. Ana, sei grande, se vuoi sballarti al Labyrinth è roba tua, ma qui no. Se fai un passo falso qui, stasera, muori. Torna a casa. La dichiarazione adamantina di Tara non ammetteva risposta, e si preparò ad accompagnarla fuori, nonostante ogni protesta, quando il telefono si illuminò fermando Tara nei suoi passi. Sono qui fuori. Non appena abbassò lo sguardo per adocchiare la notifica, Ana si spostò tanto velocemente da sparire.
    Piccola peste! Sibilò tra i denti, sicura che l'avrebbe ripresa più tardi, ma consapevole anche del fatto che, probabilmente, anche lei avrebbe fatto lo stesso. Ora tutti i fili che durante la serata si erano dispiegati nell'ombra di Tara si raggomitolavano in un'unica matassa. La preoccupazione che Eldjàrn aveva subodorato, il dramma di Ares ed Athena condannati insieme, il dolore che V le aveva letto addosso. Tutto l'aveva portata a quel momento, agli occhi affilati di Tabby che le avrebbero spezzato il cuore. Gliel'avrebbe permesso più e più volte, specialmente ora che la trovava in carne ed ossa davanti a sè dopo la loro rottura non ancora superata. «Scusa per il ritardo, non volevo venire.» Anche se coperta da un balaclava scuro e dal cappuccio a nasconderle i capelli, Tara riconobbe Tabby immediatamente dalle sue iridi brillanti e scure, nella speranza di mantenere la propria maschera di tranquillità anche quando sentì il cuore colpirle la cassa toracica più forte di quanto avrebbe desiderato. Doveva lasciarla andare, eppure non aveva idea di come riuscirci. Lo so. Soffiò pianissimo, instintivamente voltandosi dall'altro lato come a nascondere la pistola al fianco destro. Non sarebbe stata una serata facile per Tabby, e Tara si rese conto allora, mentre si orientava nel suo stesso cuore, di dover essere forte anche per lei - del resto aveva chiesto il suo aiuto, e Tara glielo avrebbe offerto come tutto ciò che avrebbe potuto darle. «Stai con me, vero?» Forse dovevano essere i vestiti, tra cui anche i propri, o la paura nello sguardo di Tabby, a farla sembrare ancora più piccola agli occhi di Tara, ma anche indipendentemente dalla richiesta appena mormorata l'avrebbe accontentata senza esitare. Tutto il tempo. Le promise, e si fece allora da parte, in modo che potesse entrare del tutto nel locale. Sarebbe stato superfluo chiedere a Tabby di starle vicina, giacchè nel condurla tra una sala e l'altra e spiegarle tutto il necessario a bassa voce, Tara sembrava essere diventata la sua ombra. Si guardava intorno e si avviò senza perder tempo oltre il primo bar, il club dalla musica altissima che restò ovattata nella destinazione finale, il privè in cui oltrepassò lo sticker sulla porta che annunciava "lavori in corso". Prima di farlo tuttavia, si fermò nell'angolo nero dove Eldjàrn era annidato, avvicinandosi a lui per lasciarsi scivolare un favore dalle labbra. C'è una ragazza, capelli lunghi e ricci. Là, la vedi? È di famiglia. Indicò Tara con un cenno della testa in direzione di Ana, già avviluppata tra le onde della Liquid Death. Io ho una persona da accompagnare, se ti servo ed è importante chiamami.
    Ora racchiuse tra le braccia di un'ampia stanza solo per loro, Tara aveva preso posto tra gli ampi cuscini di un divano che ne rispecchiava un altro, al cui centro si trovava un tavolo basso da cui potè finalmente osservare il viso di Tabby scoperto dal balaclava. Se lo tolse di dosso velocemente, e Tara si domandò come si sentisse lei davvero. Ricordava i tremori della sua voce dall'altra parte del telefono, quando le aveva chiesto aiuto, e del fatto che non importava lo stato della loro relazione, non ci sarebbe stato litigio ad impedirle di aiutarla nel momento del bisogno. Ora la voce di Tabby non tentennava più, nel scoccare le sue frecce una dopo l'altra. Nel stringere appena la sfera di Liquid Death nel palmo della mano, dove l'aveva ricevuta al bar pochi minuti prima, Tara si strinse anche in se stessa, ricordando di non dover reagire con impulsività. Le parole di Tabby la irritarono, e si notò solo nel suo silenzio tombale. Le ricordavano delle sue debolezze, di ciò che aveva permesso che sgretolasse la loro relazione. Era colpa sua. Fece comunque per risponderle, ma richiuse le labbra non appena l'altra riprese a parlare. Lasciandosi scivolare la mano libera contro il tessuto ruvido dei jeans nel rilasciare un frammento di tensione, Tara si fermò dal pronunciare alcuna replica, ma anche dal sbilanciarsi in avanti e chiudere la bocca di Tabby con la propria. Sapeva che ogni sua provocazione emergeva dalla sua preoccupazione, dal fatto di trovarsi al Perception che non aveva mai visto, tante situazioni nuove e spaventose. Non l'avrebbe biasimata per questo, nonostante la sua pazienza si stesse affievolendo ogni secondo. Il mio. È il mio piano, Tabby. Rispose solamente, il timbro basso sporco di frustrazione, puntando lo sguardo, mai timido, nuovamente in quello dell'altra donna, da cui era scappato poco prima per evitare che leggesse ancora l'ovvia scintilla innamorata nelle iridi chiare. Ma tanto non ascolterai niente di ciò che ti dirò, quindi lascia perdere. Si permise allora, in quei momenti più concitati, di tagliare la conversazione nettamente, lasciando che gradualmente una quiete carica di energia si posasse tra di loro finchè Tabby non le prese la sfera morbida dalle mani.
    «Grazie.» L'occhio ora estremamente attento di Tara scivolò tra le dita di Tabby proprio come la sfera che reggeva con attenzione tra le unghie lunghe e curatissime nel captare ogni cambiamento. Stava per prendere la droga, e sarebbe stata una menzogna se Tara avesse negato di essere spaventata. Si trattava di una sostanza pericolosa, ed avrebbe potuto perdere Tabby per sempre se tutto fosse andato storto. La sfera scomparve e si dissolse proprio tra le sue labbra, e nell'osservarle Tara sentì di avere un respiro imprigionato nella gabbia di ossa nel suo torace, incapace di farlo uscire se non direttamente interpellata dalla compagna. Sì, devi solo aspettare. Sei stata brava. Sfiatò pianissimo lei, notando Tabby più vicina a sè ora sul divano anche lei. La droga avrebbe fatto effetto in poco tempo, e prima che sprigionasse le sue proprietà sovrannaturali, Tara si soffermò ad osservare Tabby. Volevo dirtelo di nuovo. Non qui e non così. Si ritrovò a pensare, abbassando lo sguardo verso il pavimento. Se Tabby avesse riscontrato complicanze non avrebbe ascoltato ciò che di più importante Tara aveva da dirle ancora una volta. «Prima di perdere conoscenza mi sarebbe piaciuto poterti fare delle domande su questo posto, ma non credo di volere le tue risposte. Essere qui rende già tutto quello che mi hai detto molto reale.» Le parole di Tabby tuttavia tornarono a vertere sul Perception e le sue attività, e Tara si costrinse ad accarezzare la compagna con lo sguardo ancora. Invece avresti dovuto volerle. Rassegnata al combattimento perso in partenza, Tara non rispose, lasciandosi ferire dalle sue stesse aspettative. Cosa sperava, di essere riaccolta a braccia aperte da Tabby una volta alla soglia del Perception? Che avrebbe ignorato ogni minaccia ed ogni lecita preoccupazione per saltarle tra le braccia? Naturalmente no. Cose del genere accadevano nella finzione ma non nella realtà, che dura e sinistra com'era, non lasciava tregua a nessuna delle due, per quanto doloroso confrontarsi con essa.
    «Lo so che è la cosa migliore ma è comunque difficile accettarlo. È difficile senza di te.» Solo allora Tara non potè trattenersi dal scattare, scuotendo appena il capo nel lasciar schioccare la lingua contro i denti in un segno chiaro di negazione. Zitta. Non riusciva ancora a sopportarlo, le sue forze non raggiungevano il distacco da Tabby e non pensava di sentirsi così esposta e vulnerabile anche quella sera, anche dopo un periodo di assenza. Non si sarebbe compromessa, per il bene stesso di Tabby, e quindi di punto in bianco si alzò in piedi. No, Tabby- ferma. Non posso, non adesso. La fermò subito più bruscamente di quanto avesse voluto, guardandola dall'alto, guardando quello stesso viso su cui aveva posato le labbra tante e tante volte. Vado a prendere da bere. Chiudendosi la porta alle spalle, codarda di fronte alla donna che amava e aveav bisogno di lei, Tara si fece attraversare da un pesante sospiro. Tuffò lo sguardo nel buio del club, e si richiamò con violenza all'attenzione. Devi farlo per lei. Se lo ripetè ancora e ancora, finchè non riemerse pochissimi minuti dopo all'interno della stanza, posando sul tavolo alcool per sè e acqua per Tabby. Di lì a poco avrebbe iniziato a fluttuare in altri spazi, e Tara voleva essere al suo fianco. Glielo aveva promesso, per tutto il tempo. Avrò una brutta esperienza, ne sono certa. Se fosse stata nella sua forma scura e ultraterrena, Tara era certa che avrebbe fiutato la paura di Tabby da metri di distanza, come una fitta nebbia a ricoprirla, giacchè quella sola convinzione avrebbe determinato l'andamento delle ore successive. Non esitò, anche senza paura di essere respinta, a raccogliere una mano di Tabby nelle proprie, finchè era ancora lucida, come scusandosi per le parole più aspre di poco prima. Te l'ho detto anche quando ci siamo parlate la prima volta, al concerto. Ti ricordi? Ci sono anche io. Asserì ferma Tara, lasciando un paio di carezze sul dorso della mano di Tabby. Non l'avrebbe lasciata andare, anche se avesse subito la compagnia dei mostri più terrificanti. Restò quindi con Tabby tutto il resto del tempo, allentando la tensione nel svuotare un paio di shot ancora una volta, la vodka calda e pungente in bocca. Capì immediatamente quando la compagna scivolò nelle percezioni fittizie della droga, quando si voltava di scatto e la sua espressione le mostrava i suoi timori pian piano sempre più acuti. Abituata ad osservare il terrore negli altri, Tara non poteva che sentire quello di Tabby come proprio, germogliare in ogni fase che la Liquid Death imponeva sui sensi dell'altra, ed ogni "va tutto bene", "sono qui" o "non ti lascio" si ancorarono alle richieste di aiuto di Tabby finchè anche la presa calda sulle sue mani non si spezzò nei frammenti dei suoi tremori. Tara sapeva riconoscere quando, nei tagli della paura altrui, questa era diretta verso di lei. Si trattava solo della droga, nulla di più, e questo razionalmente lo comprendeva, ma scottò inevitabilmente vedere Tabby ritrarsi, sospettosa e guardinga, terrorizzata anche nell'osservare una donna che la amava e non le avrebbe mai fatto del male. Tara restò comunque dove si trovava, limitando al minimo i suoi movimenti per non intimidire oltre Tabby: anche quella parte tanto difficile sarebbe terminata, e non appena i muscoli della compagna si rilassarono sino a spegnersi in una morte apparente, le si avvicinò per controllare che, anche in quello stato tanto fragile, non stesse soffrendo. Le circondò il polso con le dita e adocchiò il suo bracciale; pulsava di luce blu.
    Stai arrivando. Solo allora Tara si spinse più infondo tra i cuscini del divano, raccogliendo con estrema cura le membra addormentate di Tabby tra le braccia per lasciare che fosse almeno con la parte superiore del corpo al sicuro in una lieve stretta contro di lei. L'altra mano le si posò al centro dello sterno, captando oltre il palmo il suo respiro sempre più profondo, il battito del cuore sempre più debole. Il bracciale ancora pulsava, la luce più intermittente, più fioca. Si fermò prima il respiro a Tara, in un taglio netto, mentre teneva lo sguardo fisso su Tabby e la guardava appassire, finchè non le si interruppe del tutto il battito del cuore sotto il palmo della mano. La meraviglia che ne seguì fu piena di attesa e dolore. Neanche nella corsa più ansiosa dei suoi pensieri Tara avrebbe mai immaginato di conoscere l'immagine dei lineamenti di Tabby toccati dalla morte. Era ormai oltre, persa nella foschia di un posto altro, dove Tara non avrebbe potuto raggiungerla. Non smise però di tenerla vicina, incoraggiandola pianissimo e respirando oltre la paura mentre portava una mano a sfiorarle i capelli, per darle un conforto che non avrebbe sentito. Restò a vegliare su di lei come promesso, senza uscire dalla stanza morbidamente illuminata per ore senza trovare pace, ma quantomeno rincuorata dal fatto di essere lì, se qualcosa fosse andato storto. Difficile dire quali pensieri avessero attraversato Tara in quelle lunghe ore; aveva ricordato tutto e non aveva riflettutto su niente, perdendosi nel tempo in maniere diverse da come Tabby stava facendo in quel momento. Come sarebbe stato scappare, allontanarsi da tutto per lei? Lasciarsi ogni cosa alle spalle e fuggire da ogni responsabilità, anche dandola vinta a Roger? Era davvero così importante, quando nessuna delle due sarebbe vissuta per sempre? Mi dispiace. Era l'unica eco che riverberava di tanto in tanto e rimbalzava tra le pareti della stanza sino a tornare tra le labbra chiuse di Tara, e alla sua quinta ora si chinò, pressando un bacio sulla fronte della compagna. Dagli occhi semichiusi però la scintilla del bracciale, ora rossa, riprese a brillare, e Tara spalancò gli occhi, portandoli immediatamente sul viso di Tabby. Stai tornando- Sussurrò, ben consapevole di essere arrivata alla parte più pericolosa del viaggio. Sostituì il proprio corpo con un cuscino sotto il capo di Tabby con grande attenzione, e saettò fuori dalla stanza, pronta a cercare Eld. Lo trovò poco lontano, e gli raccolse una spalla in una mano, fermandolo subito nei suoi passi. Si sta svegliando, Eld. Raramente accadeva che Tara malcelasse le sue insicurezze, ma nell'avvisare il collega, per certo Eldjàrn avrebbe notato l'urgenza nella sua voce, prima che lo guidasse in fretta verso il privè. Mentre puntava gli occhi su Eld e Tabby, Tara sperò con tutta se stessa che la compagna uscisse illesa dal trip così pericoloso. Strinse le braccia al petto come a ripararsi da un possibile, devastante impatto, ma poi quest'ultimo si schiuse nel costato di Tabby diretto sino a colpirle il cuore e costringerlo a ripartire, con violenza, ma efficace. La sentì parlare in giapponese, e non appena Eldjàrn si fu allontanato Tara recuperò la mano che Tabby aveva allungato per afferrarla tra le proprie, abbassando lo sguardo su di lei. Si era aggrappata al filo della sua voce forse più forte di quanto Tabby stessa stesse facendo per esprimersi. È tutto okay. Ti porto a casa.
     
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