Quest V : Sykdom Apocalypse

Quest nr. 5 | Besaid

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    ~ Clara ~

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    Trascorso appena qualche minuto dal rigurgito di quelle infime parole, Jonah si ritrovò estraneo a se stesso – con vesti sconosciute indosso, un’arma sconosciuta tra le mani ed i propri scarponi affondati nella sabbia su di un fronte sconosciuto della battaglia. Aveva veramente scelto di schierarsi dalla parte dell’uomo auto-proclamatosi dio, di sacrificare quanto costruito con fatica in tutti quegli anni – ovvero se stesso – per salvarsi la pelle? Il ragionamento stesso era privo di fondamento e più le sue pupille vagliavano con orrore il destino dei pochi a cui si era legato, vittime d’una ingiusta giustizia, più realizzava che il dubbio era l’unica certezza nella sua mente e che non poteva neppure fermarsi a pensare. La sua malsana abitudine fu, anzi, mandata al diavolo quando gli venne imposto – quasi fosse anche lui un burattino nelle mani dell’Unico come le persone inginocchiate sulla pedana – d’esser esecutore della fine di una persona; e sarebbe già stato terribile da sé, se non fosse stato designato proprio ad Ares. Desiderò ardentemente di poter rimanere in quel momento, l’attimo in cui poteva soffermarsi sulle spalle dell’uomo che sempre lo aveva torreggiato piegate sotto di lui, quasi fosse un ironico segno del destino, quasi ora fosse effettivamente tanto forte quanto desiderato il primo giorno di palestra. Ora quell’immagine era irrisoria come la parola stessa, “forza”, associata al suo nome: quel potere non era suo, il proprio gli era appena stato strappato per la seconda volta, e l’aggettivo che poteva invece definirlo adeguatamente era solo uno, “codardo”, perché gli veniva da vomitare. La nausea era solo un briciolo del dolore che gli attanagliava le viscere al pensiero di dover strappare la vita a qualcuno – quella che per lui era il valore fondamentale dell’esistenza, sacra senza esser legata a religione alcuna, unica e sola ragion d’essere. Jonah venerava la vita, la studiava, aveva dedicato parte della propria ad essa, come avrebbe mai potuto compiere un gesto tanto disgustoso, premere il coltello contro la gola di qualcuno e premere, premere per lacerare, per far scorrere sangue simile a quello delle sue vene? Inciampò in avanti più che fare un passo quando tutti gli altri fecero lo stesso, invitati dal folle capo di quella tragedia a togliere quanto solo la natura poteva dare: non poteva farcela, ma doveva, doveva e non aveva scelta. Si rifugiò nel ricordo di sua figlia nella speranza che potesse rammentargli l’umanità che aveva sempre cercato di preservare, ma più si faceva avanti, con macigni al posto dei piedi, più sentiva il dolore della consapevolezza che, seppur stesse facendo tutto per lei, probabilmente non l’avrebbe mai più rivista. Che fosse per mancanza di coraggio dopo un atto tanto orribile come quello, per l’esser diventato parte di un superorganismo o per esser morto combattendo, non avrebbe più rivisto Anniken ed il pensiero gli spezzava il cuore – in qualunque modo vedesse quella situazione, lui ne perdeva, proprio come si era detto, e probabilmente avrebbe trascinato Ares con sé. Maledetto, perché non si ascoltava mai? Combattere non è per chi manca di forza come lui, sopravvivere è per gli inetti, se fosse morto scappando almeno non avrebbe dovuto convivere con le conseguenze delle sue azioni e, invece, si era detto d’esser padre prima di tutto – lui, che neanche aveva conosciuto il proprio, come avrebbe mai potuto essere da meno?

    I suoi pensieri, tuttavia, si impigliarono d’improvviso nelle parole d’una voce a lui inaspettatamente familiare quando s’accorse della presenza di Athena poco lontano, ed in quella notte, illuminata dalle lingue di fuoco e dai moniti d’un falso messia, finalmente Jonah sentì un linguaggio a lui familiare in occhi terrorizzati quanto i suoi per diversa declinazione d’orrori inconcepibili che vi si erano dispiegati davanti. «Lotta. Ribellati» lei disse, ferma, una morale straordinaria che quasi le invidiò, seppur la propria non fosse tanto diversa, ed il pugnale ormai vicino al capo di Ares s’arrestò tra le mani callose, meno tremanti a tale realizzazione: era fuori, era stato detto, quella era una possibilità e non più un’erronea speranza nel retro della sua mente. Era concreto, se avesse utilizzato quello strumento a lui poco familiare per il bene, non per uccidere ma anche solo per ferire, allora forse… forse avrebbe trovato la pace, forse avrebbe risolto la situazione, forse avrebbe rivisto sua figlia. S’era detto di reprimere quel desiderio innato di seguire la forza della vita, della libertà, esattamente come aveva sempre vissuto, perché non poteva certo ritornare su suoi passi o avrebbe perso la cosa stessa per cui stava lottando alle mani dell’uomo intento a compiere chissà quale insensato rituale. Mentre tutti gli adepti compivano convinti quel passo che li separava tra l’essere umani e l’essere bestie, Jonah seppe di non volerli seguire; e, fortunatamente, non dovette.

    Prima ancora che i suoi pensieri potessero concretizzarsi in una delle due scelte con cui si tormentava, fu qualcun altro a prender parola, ma senza lingua, bensì con lunghe radici oscure ed il feroce tremore che le accompagnò: in pochi secondi, ritrovatosi a terra, Jonah dovette ammettere di star impazzendo. Non era assolutamente possibile. Aveva riposto la sua fiducia assoluta nella natura, vissuto la sua vita per studiarla, ma mai si sarebbe aspettato di vederla giungere in soccorso di chi aveva avuto il coraggio di reclamare la vera giustizia – e neanche per una semplice rivolta, bensì per un richiamo di Besaid stessa, un urlo silenzioso eppur mastodontico che sentiva scorrere nelle sue vene come se ad essa fosse sempre appartenuto. Ed era così, fu costretto ad ammetterlo a se stesso dopo mesi (forse anni) di stallo, perché per quanto il tutto fosse inimmaginabile e scientificamente impossibile… lo comprese, aveva senso come quando le sue braccia prendevano forme inumane, come quando aveva conosciuto Thyelas ed aveva assistito ad altri fenomeni incredibili in quel breve tempo trascorso nella cittadina, nella sua casa. Non era ancora certo di poter pronunciare quelle parole con sicurezza, ma mai come in quel momento – gambe tremolanti ormai arresesi alla fredda sabbia e sudore di mille pensieri imperlanti il volto sconvolto e sopraffatto – aveva sentito di appartenere a qualcosa. Quella vita per cui aveva sempre combattuto era sotto di sé, un battito costante, quotidiano eppur silenzioso; ed ora capiva, Jonah capiva d’aver preso la scelta sbagliata, ma non perché s’era unito alla causa consapevole delle orribili conseguenze, bensì perché pur sapendo di avere scelta aveva atteso, giustificandosi con un turbinio di chiacchiere inutili in confronto alla volontà della vita stessa. Si alzò in piedi senza neppur accorgersene, ora conscio del proprio ruolo, impugnatura salda nell’arma che aveva così disdegnato come se una stretta maggiore avrebbe potuto tradursi in un attacco più forte; e forse lo era veramente, perché quella novità nella sua risoluzione pareva esser stata accompagnata anche da altro. Era cambiato, non era più se stesso (o forse lo era più di prima) e seppur avesse sentito l’Unico farsi strada fra i suoi seguaci – come se il suo cuore non fosse già dall’altro lato della battaglia – non realizzò l’accaduto finché non lo sentì: la connessione con il mondo animale era tornata, diversa ma nuovamente sua. Quasi gli scappò un sorriso quando sentì le creature marine farsi estensione della sua persona, finché non si accorse fosse lo stesso per quanto le avvolgesse; immediatamente, il suo sguardo incontrò quello dell’orizzonte e lui seppe di conoscerne a memoria, di sentirne sulla pelle, ogni singola goccia. E realizzò anche un’altra cosa mentre il suo corpo si abituava a quella leggiadra e possente sensazione, come se stesse fluttuando nell’oceano senza alcuna paura di sprofondarvici – che Skydom aveva voluto così tanto renderli tutti parte di sé, eppure ciascuno di loro era già parte di qualcosa di più grande. Qualsiasi fosse la realtà dietro quel miracoloso avvenimento che gli aveva reso possibile controllare la forza di un dio – la cui presenza sentiva celarsi dietro sé e sembrava guidare i suoi movimenti quasi come un padre – apparteneva a Besaid, esattamente come ciascuno di loro. E quel folle per pura cupidigia stava distruggendo quanto di meraviglioso già avevano davanti agli occhi, sotto ai piedi e sopra, nel cielo stellato dove sole e luna s’erano finalmente incontrati in un’oscurità che, però, sembrava illuminare i cittadini d’una nuova speranza, almeno agli occhi di una persona che così tante volte l’aveva persa. Ma non in quel momento, ora era deciso, doveva agire e sapeva di poter sfruttare quella situazione a suo vantaggio perché l’Unico era così preso dalla sua incomprensibile ricerca di potere, che non si sarebbe accorto d’una formica, anzi, d’un mollusco come lui – in fondo si era sempre definito privo di spina dorsale, ora forse avrebbe potuto dimostrarsi il contrario. Ma come?


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    Le urla della battaglia ed i rombi degli scontri che proseguivano incessantemente attorno a lui avrebbero di certo dovuto strapparlo da quella spirale di pensieri nella quale s’era nuovamente rifugiato, eppure, in quell’istante, neppure li sentì. Né si pose né riconobbe il motivo dietro le sue mani consapevoli d’una posizione teoricamente sconosciuta; invece, quando il piano tanto atteso si palesò nella sua mente, dovette arrendersi alla verità seppellita da tempo dentro di sé, e la rigurgitò istantaneamente. Si trasformò nella sensazione di grandi mani callose avvolte attorno ad altre così piccole in confronto alle pagine del libro da queste strette, parole a malapena leggibili al confronto di vividi immagini di terribili creature marine; la sensazione si diffuse ed ora v’erano lunghe gambe filiformi ad avvolgere le proprie, così piccole, contro le quali era spinta la rigida copertina della lettura del giorno, altre millemila che circondavano i due sullo scricchiolante pavimento legnoso. Il suo sguardo chiaro vacillò quando culminò in una voce, dolce e confortante, proveniente dalle sue spalle, in alto, qualcuno il cui volto probabilmente non avrebbe mai più ricordato ma il cui cuore sentiva battere contro la propria schiena, un calore che gli intrise la pelle dello stesso odore che ricordava d’aver notato tristemente abbandonare il suo Fedora – e lì non ebbe più dubbi. Gli mancò il fiato e fu come se per qualche secondo il tempo si fosse fermato, come se fosse tornato indietro quel poco che bastava per ricordargli quanto involontariamente accantonato, il motivo per cui lui stesso esisteva, viveva ed era diventato Jonah Losnedahl: suo padre, ed ora lui, padre. Una consapevolezza febbrile delle proprie origini e del proprio futuro imminente si prese possesso di lui e cominciò a controllare quel nuovo potere per approfittarne finché possibile, correndo ai ripari d’un errore già commesso migliaia di volte – l’ennesima attesa che gli aveva tarpato le ali per la paura, la paura, sempre la paura di sbagliare, libertà che lui stesso si strappava. Ma non avrebbe mai permesso all’uomo in volo davanti a sé di far lo stesso ad altri, perciò d’istinto urlò silenziosamente nel proprio animo, al centro del campo di battaglia, nel raccogliere quella grezza energia vitale e stiparla in ciascuna piccola goccia; forse era cieco del pericolo, tant’era ormai la necessità di compiere quanto aveva sempre saputo essere il giusto passo, però l’enorme onda che man mano cresceva all’interno della barriera non poteva più attendere. Come aveva potuto non pensarci prima, doveva arrivare suo padre da un altro tempo a portargli l’ovvia risposta alle sue domande, quando lui stesso aveva collaborato con qualcuno dal potere non troppo diverso da quanto accomunava le creature che stava richiamando? Tossine. La natura era tremendamente pericolosa di per sé, capace di difendersi con artigli e zanne senza che lui stesso dovesse diventare forte – poteva esserlo Besaid per lui.

    E l’onda crebbe, stagliandosi oscura contro una spiaggia già immersa nelle tenebre d’una guerra fratricida e, nonostante ciò, il dio, coraggiosa linfa nelle vene, gli concedeva di scorgervi all’interno ogni singola medusa e pesce e mollusco (suo simile) pronto a donargli il potere che gentilmente aveva chiesto di poter cogliere dai loro corpi, come una richiesta di un figlio curioso ad un padre desideroso di condividere con lui gli impolverati libri d’una malmessa biblioteca. Ed era pronto, lo era davvero, perciò si voltò improvvisamente per rivolgersi al suo nemico, momentaneamente ignorato onde evitare di risultar ovvio nelle proprie azioni, e quando il suo sguardo ghiaccio ebbe finalmente raggiunto con decisione quella figura fluttuante… Fu trafitto. La realtà della battaglia attorno a lui si riversò rapidamente sottoforma di sangue dalle labbra sottili, un colpo di tosse che lo fece retrocedere mentre dita tremolanti presero l’iniziativa ed esplorarono la zona ferita prima che gli occhi avessero il medesimo coraggio. Questi, piuttosto, a malapena ebbero il tempo di riconoscere il dolore di Athena tra gli svariati scontri di cui malauguratamente poco s’era curato prima d’accorgersi veramente del proprio, manifestatosi sottoforma d’un tremore improvviso – e poi solo l’umida sabbia della notte. La dolorosa costellazione di pugnali di ghiaccio conficcati in fianco, gambe e braccia, fortemente strette attorno alla maggior ferita al livello dell’addome, pretendeva con prepotenza la sua completa attenzione, e tuttavia ciò non gli impedì di tornare ad osservare il mondo attorno a lui, sguardo supplichevole la sua rivolta fosse andata a buon fine. Non seppe trattenere un sospiro di sollievo quando scorse l’Unico nella sua medesima posizione, steso contro la sabbia prima considerata proprio regno, e volle credere d’esser stato responsabile di tale miracolo, per quanto speranza infondata, che proprio lui, solo padre e professore, fosse riuscito nel suo eroico intento. Ed in parte era vero, poiché tutte quelle creature precedentemente raccolte lo avevano eroicamente accompagnato nella sua caduta ed ora giacevano per la maggior parte nei pressi d’un uomo così potente ed ora così debole, suo simile sorprendentemente, un pensiero che quasi lo fece sorridere: lo fermò la mancata certezza d’essere riuscito ad iniettare il quantitativo sperato, sostituita invece dalla gravosa consapevolezza d’aver forse contribuito al dolore altrui, considerato il raggio d’azione dell’onda ormai trasformatasi in lieve pioggia all’interno della cupola. Eppure, vi era comunque riuscito: un semplice mollusco aveva fatto la sua parte, e ciò bastò, assieme al sangue perso ed il pensiero d’aver potuto arrecare danno ad innocenti, a convincerlo fosse giunto il momento di farsi da parte, lasciando alle tossine il tempo di paralizzare colui che tanto terrore aveva portato nella cittadina, aggrappandosi alla speranza qualcun altro avrebbe colto tale ghiotta occasione per fermarlo.
     
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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: [gore, azioni violente].
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.
    Le azioni descritte non sono ad ogni modo condonate e sono diretta responsabilità creativa di chi ha realizzato tali contenuti.



    Black he stood as night, fierce as ten furies, terrible as hell.

    No, non ho dato nulla. Sei stato tu a prenderla.

    Naavke non aveva mai ucciso. Era arrivato a sfiorare l'omicidio, la rottura di un patto vitale con un altro essere umano ed il riscatto di una promessa estinguibile solo nel sangue con una sola persona, la stessa che si trovava a pochi metri da lui. Avrebbe sempre ricordato quella notte come la sua vera iniziazione, il rituale apparentemete incompiuto che aveva consacrato Naavke al suo divenire. Poteva ancora sentire il sangue di Vilhelm pungergli le labbra, scivolargli sotto le mani: in quel momento aveva capito di esserne capace, sigillando così il nodo pericoloso tra l'amore e la violenza che da tempo danzava dentro di lui ma che non era mai riuscito prima d'allora ad afferrare e far proprio. Il modo in cui il suo cuore batteva ed in cui l'adrenalina iniziava a correre nei rami delle vene lo preparava, tanti anni dopo, a ciò che aveva già vissuto. Naavke non poteva prevedere quanto pericolosa la situazione si sarebbe rivelata, ma era disposto a correre ogni rischio. Davanti a lui si dispiegavano ventagli di possibilità incarnati nelle persone che in una direzione o nell'altra si muovevano verso difficili decisioni. Doveva ammetterlo, quella sequenza di prese di posizione lo compiacque non poco: Vilhelm, la giudice Drakos, la dottoressa Greseth, Ares Maleros, padre Doyle, Sam Bezuchov e Lars Berg si erano dimostrate persone coraggiose - situazioni estreme come quelle avrebbero suscitato reazioni molto diverse in molte persone, e se l'instinto di autopreservazione si fosse manifestato certamente Naavke non si sarebbe permesso di esprimere un giudizio. Tuttavia loro avevano scelto diversamente, individui pronti a mettere la propria vita a rischio ma al tempo stesso a reclamarla con tutte le loro forze. «O siete con me, con Besaid, o verrete distrutti. Ripensate a coloro che amate, a coloro a cui avete regalato le vostre patetiche vite, i vostri miseri cuori. Non preoccupatevi però. Sapranno che è stato l'Unico, Sykdom, ad annientarvi. E poi, l'intera città vivrà con me, sarà me. Un solo uomo, una sola Besaid, un solo illimitato Potere.» La minaccia non aveva tardato nel diventare realtà. Eppure Naavke respirava lentamente, osservava. Accanto a sè registrava un gruppo vario di persone al fianco dell'Unico: Nikolaj Mordersønn, lì per essere testimone del caos più che per codardia; Poison, fidato adepto ma pericoloso come una mina inesplosa; Jonah Losnedahl, forse lì proprio per preservarsi, oppure, come per tutti gli altri, per amore. Nel valutare ogni singolo viso, Naavke aveva riconosciuto quella scintilla - che fosse amore per la propria città, se stessi, altri esseri umani, il potere, tutto poteva trovare la chiusura del cerchio in quel sentimento tanto complesso quanto potente. Naavke lo avrebbe onorato a suo modo. Nel farlo non si preoccupò dell'indurirsi dello sguardo di Sibylla Greseth, era disposto a rendersi incompreso ed a mostrarsi come un codardo se ciò gli avrebbe permesso di raggiungere l'Unico in tranquillità.
    Ogni iniziazione esige un atto di fede, e Sykdom stava chiamando i suoi nuovi adepti a compierlo. Quante volte aveva Naavke stesso chiesto agli adepti di Libra la medesima devozione? Ed al suo stesso figlio? Ancora ricordava la luce tremare nello sguardo di Eyr, il respiro pesante di Matthew, l'audacia di Iago, la crudeltà di Cassandra, la propria sofferenza. Ogni iniziazione esige un atto di fede, ed ogni atto di fede esige un sacrificio. La pedana era pronta, e Naavke avvolse le dita attorno alle lame che improvvisamente avevano posato il loro peso in ognuno dei suoi palmi. Come il sacrificio originario. La storia di Besaid si compiva ancora, ma non come avrebbe dovuto - i primi abitanti erano stati sacrificati agli dei per la sopravvivenza della loro terra sacra, ma ancora una volta più che di sopravvivenza si trattava di un altro divenire - quello di Sykdom, a cui tutti loro dovevano essere assoggettati. Naavke non era disposto a permetterlo. Si fece avanti, stagliandosi alle spalle di coloro che avevano osato affrontare la grandezza dell'Unico, persone più o meno conosciute, avversari, amanti, amici. Lars Berg, e per un bizzarro scherzo del destino, Vilhelm, si trovavano ora sotto la sua lama, posata sulle gole di entrambi. Le nocche sfioravano il collo di Vilhelm e ne percepivano il pulsare caldo del sangue, così come la freddezza della pelle di Lars. Non così. Il tempo di prendere un respiro più profondo, e Naavke era pronto. Dopo aver osservato a lungo Phobos, rassicurandolo per quanto possibile nel fargli capire che sì, un piano si stava muovendo, mentre Athena Drakos pronunciava il suo coraggioso appello, fiera e maestosa anche nella morte, Naavke si svelava per ciò che era realmente - non il dottor Evjen, il sofisticato curatore, non Nero, il leader di una pericolosa Setta segreta, non il padre che i suoi figli avevano conosciuto - solo Naavke. Si chinò appena, solo per sfiorare le teste degli uomini inginocchiati davanti a sè, lambendo con la punta del naso i ricci scuri di Vilhelm. Gli era mancato, la separazione era stata straziante. Dovrete correre. Soffiò, e con uno scatto del polso, girò velocemente le due lame, in modo da lambire la pelle di Lars e Vilhelm con la parte non affilata, pronto ad ingannare l'Unico ed attaccarlo.
    Ciò non fu necessario, tuttavia, giacchè fu la città ad accorrere in soccorso dei suoi abitanti. La terra tremò, e da essa emersero le serpeggianti radici dello Yggdrasil: la pedana scomparve, e le mani tornarono a riempirsi di sabbia. Qualcosa di realmente miracoloso si presentava davanti agli occhi luminosi di Naavke: la città si era risvegliata, così come accadeva ogni anno durante il Giorno Nero, e rimproverava il figlio la cui ingordigia di potere trasformava in segni distorti le lettere già abbastanza sanguinose della storia besaidiana. La spiaggia si fece scura, ed in quelle tenebre Naavke si ritrovò in un grembo da cui sarebbe rinato diverso, ma mai se stesso come in quel momento: nuovo sangue iniziò a scorrergli nelle vene, la vista si fece cristallina, l'odorato e l'udito capaci di registrare ogni minima variazione nell'aria. Un dolore lancinante costrinse Naavke a restare sulla sabbia, a contrarre le membra sofferenti e di lì a poco, mentre le radici dell'albero continuavano a trasportare rinnovata energia in lui, così come il pavimento naturale della costa si lacerò anche la stoffa della tunica sulla parte superiore, bagnata di sangue sulla schiena, dal cui piano ampio spuntarono ramificazioni ossee dapprima piccole, pronte e protrudere dalla pelle sino a spezzarla e fiorire in elaborati ed impressionanti palchi di cervo. Quante volte da giovane Naavke avrebbe dato la vita per avere una particolarità diversa, per alterare il corso della sua tragica esistenza, rimediare agli errori del passato: ora però era più maturo ed aveva raggiunto una ulteriore metamorfosi. Ciò che aveva ricevuto tramite Sykdom non era una particolarità migliore, era solo lo strappo della crisalide da cui la falena emerge per raggiungere la luce.
    Tapetum lucidum. Grazie a questa superficie riflettente situata proprio dietro la retina, alcuni animali sono dotati di una visione notturna eccellente, in grado di aiutarli nella caccia e nell'intessere relazioni sociali. Con il fuoco ormai spento, le iridi di Naavke brillavano nel buio nella più totale immobilità: l'Unico iniziava a fluttuare, pronto a privarlo di tutto ciò che per lui era importante: la sua famiglia, Cassandra, Vilhelm, Libra, la propria libertà. Doveva arrivare a lui, ma per farlo avrebbe prima dovuto annientare gli attacchi degli avversari, pronti e pronte a difendere Besaid con le unghie e con i denti. Ogni individuo su quella spiaggia era ora tornato allo splendore sovrannaturale che la città aveva donato loro sin dal principio in forme diverse, e raccogliendo una delle lame tra i ciottoli e le perle di sabbia, Naavke la strinse in mano pronto a rialzarsi, annodando in vita quel che rimaneva della tunica, lasciando che l'aria marina gli bruciasse i polmoni. La sua mente machiavellica non era stata intaccata dal rinascere degli istinti che in lui erano sempre presenti, ora risvegliati dal loro torpore per aiutarla a formulare piani più brutali, necessari, una questione di sopravvivenza o, in tutta onestà, di semplice sopraffazione. Voltandosi di scatto sentì l'odore di Poison poco lontano da sè: aveva paura, poteva percepirlo in distinte note acri, sporche di dolcezza, di incanti arcani e potenti come incenso - Phobos era un ragazzo pericoloso ed imprevedibile, un giovane che nella sua età acerba aveva compiuto più atti efferati di quanti ne avesse portati a termine Naavke alla stessa età. Per questo era così prezioso per lui: un segugio che attacca con ferocia. Eppure, Naavke sapeva: poteva anche lui essere uno dei suoi figli, legato indissolubilmente alla sua adorata Coco. Dunque gli andò incontro con facilità, afferrandolo per una spalla, la grazia solitamente insita nei movimenti affilata da una forza poco gentile. Non ti chiederò di combattere per me, non stavolta. Devi sopravvivere per te stesso. Posò quindi il coltello nella mano di Phobos, e scoccò uno sguardo in direzione di Nikolaj Mordersonn. Solo uno. Poi tornò a Poison. Chi pratica la magia deve avere un pugnale. E così lo lasciò andare, tornando a brillare nell'oscurità che si era fatta più umida, rugiadosa, sapeva di tempesta. Ma quell'odore non era solo pioggia, nubi e nebbie, ma anche casa, un posto sicuro, un passato ormai inafferrabile. Eppure quello stesso ricordo diventava reale, lampeggiava impietoso su una spiaggia squarciata dalla violenza. L'acqua del mare si sarebbe tinta di rosso? Il sangue sarebbe arrivato sino a quelle rive affamate?
    Era arrivato il momento di liberarsi, di correre. A piedi nudi sulla riva, Naavke era diventato invisibile, nero come la notte, percepibile come uno spettro sotto la luce intermittente dei fulmini, mentre su di loro il mare prendeva forma, plasmato dalla volontà di Jonah, il freddo e la tenebra si annodavano tra le dita di Athena Drakos pronta a farne il suo ricamo più elaborato. Naavke si era annidato nel temporale che Vilhelm aveva fatto proprio, scattando veloce e recuperando da terra una delle lame cadute dopo il terremoto e circondò uno dei grossi crateri formatisi nella sabbia e nella pietra. L'affinità della donna con le ombre l'avrebbe protetta, ma non nascosta. Naavke dal buio si rivelò poco dopo, brutale ed acuto, proprio come il dolore che inferse ad Athena, colpendola senza pietà ad un fianco, scomparendo subito dopo: sapeva che avrebbe dovuto eliminare la creatura a lei legata per metterla in ginocchio, ma capì informazioni ancora più cruciali. Il suo sguardo viaggiò sino ad Ares Maleros ed i suoi sospetti furono confermati. Per annichilire una generale come Athena Drakos bisognava indebolire anche i suoi uomini, ed in questo caso, il suo amante. Doveva muoversi in fretta, allora caricò Maleros il più rapidamente possibile, prima che la grifone fosse completamente formata, al suo fianco, svelto e agile come il cervo che scappa dal cacciatore ma pronto a mietere vittime a sua volta. La grifone correva e Naavke cercava di superarla, scivolando su un fianco per gettarsi sulla sabbia e squarciare le gambe di Maleros alle spalle, affondando la lama all'altezza dei tendini d'achille, per girare e rialzarsi colpendolo con i palchi violentemente. Colpito Ares Maleros, Naavke guizzò con gli occhi brillanti verso Athena - odorò l'aria, e vi trovò adrenalina, paura, non per sè, ma per l'uomo che ora sanguinava anche se straordinariamente ancora in piedi. Naavke caricò Athena direttamente, ancora nascosto nella foschia e nell'oscurità, strappando le stelle dal filo che legava la giudice Drakos alla sua nuova Thyelas, aprendo ferite alle spalle della donna ed incombendo pericolosamente su di lei, sporco di sangue e ferocia. «NO!» E con un ultimo colpo alle spalle, sferrato direttamente con i palchi proprio come al suo amante, Athena iniziò a vacillare, e la grifone esplose in mille schegge, molte delle quali ferirono alleati e nemici.
    Il peso del combattimento iniziava a gravare sulle spalle di Naavke, che col fiato corto si guardò intorno, registrando Poison impegnato in una lotta brutale con Samantha Bezuchov, Nikolaj Mordersonn altrettanto coinvolto con Lars Berg, Sykdom che bruciante fluttuava in aria, colpito ma ancora preso dalla sua brama di poteri. La caccia tuttavia non era ancora terminata, e Naavke sapeva dove andare. Il loro tempo stava per scadere, e prima che Besaid venisse eliminata del tutto, Naavke avrebbe sfruttato ogni occasione per indebolire chiunque gli avrebbe ostacolato la strada nel caso in cui la città sarebbe stata salvata e rimodellata in un futuro diverso dopo l'Apocalisse. Tenne stretto il coltello e si diresse, inevitabile e sicuro, alle spalle di Nikolaj Mordersonn, suo improbabile alleato, ora consumato dallo scontro con Sibylla Greseth. Naavke non sapeva se Poison avrebbe partecipato al banchetto, ma era certo che avrebbe sradicato sino all'ultimo filo d'erba. Io ho intenzione di divorarla. E lei, cercherà di fare lo stesso, Nikolaj? Si fece avanti prendendo la rincorsa sino a balzare alle splle dell'altro uomo, e tra un respiro e l'altro Naavke non sentì che sangue nelle narici e sotto i denti: aveva aperto le fauci per affondarli nella carne del collo di Nikolaj, lacerando la pelle in un morso, prima di lasciarlo andare e rimuovere il suo corpo indebolito dal suo campo visivo. Ora vedeva solo Sibylla Greseth, sua prossima preda. Non odorava di paura, ma di vene acri di presunzione e sicurezza che si sporcavano di note stranamente fragili - Sibylla Greseth, come tutti gli esseri umani, poteva cadere. Ma per farlo, Naavke doveva agire in fretta, prima che la donna potesse trasformarsi: aprì completamente la mano che non stringeva il coltello ed afferrò senza esitazione la testa di Sibylla, spingendola violentemente contro la roccia per far in modo che sbattesse contro di essa. Fiutò del sangue, e potè dirsi soddisfatto di aver colto il frutto maturo del caos che gli si era posto davanti. Non si sarebbe più nascosto, chiunque su quella spiaggia avrebbe potuto vederlo con chiarezza, così come Naavke riusciva a vedere tutti gli altri - nella loro potenza, brutalità, emozione. Con la bocca grondante di sangue si fermò a sbuffare una risata, incurante dei colpi che aveva subito dagli avversari precedenti e da Sibylla in quel momento. Si trattò di un solo attimo, e con una falcata più ampia le colpì un braccio con i lunghi palchi prima di arretrare.

    Mi hai amato e ti darò la caccia per questo. Se il verde vivo delle foglie si tingerà di sangue, il tuo, il mio, poco importa.
    "Sei stato tu. Hai ucciso tuo padre, Naavke."
    "Le metastasi ormai sono diffuse in molte parti del corpo, non c’è più nulla da fare."
    "Naavke. Mi… Dispiace. Però… Ha scritto che sarebbe meglio che tu non ti occupassi del funerale e che non venissi."
    Il fruscio della corsa quando dai rami filtra solo la luce della luna fa paura.
    "Scappare significa anche non volersi far trovare. Sto diventando un tuo complice, Naavke?"
    Corri, Vilhelm.
    "Noi siamo unici, Naavke, ciò che la gente sogna di essere negli angoli più nascosti dei loro cuori. Ti sei nascosto abbastanza."


    Mordace, abrasivo, impietoso, Naavke aveva seguito i sussurri che echeggiavano nella sua mente dal passato, dando loro scopo e significato. Aveva trovato un diverso equilibrio, lo stesso che lo aveva spinto ad inseguire Vilhelm ed catturarlo crudelmente nella foresta di Besaid anni prima, e proprio a lui tornò, ben sapendo che le sue prossime azioni avrebbero potuto determinare la propria morte. Lo raggiunse e si fermò di fronte a lui, posando lo sguardo luminescente nel suo, ingentilito di tenerezza nonostante il sangue che gli cadeva alla bocca. Il cielo si ritirò come una pergamena che si arrotola; e ogni montagna e ogni isola furono rimosse dal loro luogo. I re della terra, i grandi, i generali, i ricchi, i potenti e ogni schiavo e ogni uomo libero si nascosero nelle spelonche e tra le rocce dei monti. E dicevano ai monti e alle rocce: «Cadeteci addosso, nascondeteci dalla presenza di colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello; perché è venuto il gran giorno della loro ira. Si prese qualche lungo secondo per osservare Vilhelm in tutta quella potenza, visibile nella perturbazione ultraterrena che aveva scatenato sulla spiaggia e che Naavke era certo avesse sempre custodito nel cuore. Con la mano libera andò ad avvolgere una di quelle di Vilhelm, superando la sua resistenza per racchiuderla in una presa ferma e calda, senza lasciarla quando si inginocchiò dando le spalle all'altro uomo. E raggiungendo con quelle mani giunte uno dei palchi più acerbi, appuntiti ma ancora ricoperti di velluto che spuntavano direttamente sotto la nuca, guidò il palmo di Vilhelm attorno ad esso, in modo che potesse spezzarlo. Un colpo secco, e dal moncone iniziò a sgorgare sangue fresco, il dolore rimasto impigliato tra le labbra chiuse ed il ringhio sommesso di Naavke, che lasciò andare il coltello per spezzare egli stesso il palco gemello. Rotto negli ansiti tornò in piedi, più tremante di prima, raggiungendo ancora una volta il polso di Vilhelm per accarezzarlo - sarebbe stata sua la scelta su come proseguire, così come Naavke compì la propria, allacciando un braccio attorno alle spalle del primo amante e piantare in quell'abbraccio l'osso dritto nell'addome di Vilhelm. Lo lasciò lì mentre attorno ad esso si formava un anello rosso sempre più esteso, e dopo aver ricevuto la risposta del passato compagno lasciò che un palmo scivolasse sul suo collo, mentre l'altro si sporcava del suo sangue e versava il proprio per dichiargli amore.
    Naavke sapeva che se fosse andato incontro all'Unico non avrebbe superato quella notte, eppure non avrebbe permesso che un solo uomo gli portasse via ogni persona, progetto ed ideale a lui caro. Sono felice di averti rivisto, Vilhelm. Sospirò, allontanandosi solo allora dall'altro, fissando poi triste lo sguardo su Sykdom. Non sarebbe riuscito a raggiungerlo se fosse stato troppo in basso, dunque tra un passo e l'altro Naavke tornò a correre, prendendo una spinta più poderosa di tutte le precedenti. Avrebbe cercato di saltare da uno degli scogli che si ergevano sulla costa, nella speranza di essere raggiunto da un sortilegio di Poison o un vero e proprio miracolo. Naturalmente a persone come lui non spettava questo tipo di grazia, eppure una parte di sè sperava, anche nella più nera brutalità, di essere entrato nei favori di Besaid. Mentre l'onda di Jonah si infrangeva, facendogli perdere la propria direzione, Naavke si rialzò ancora una volta, e non si sarebbe fermato finchè Sykdom non fosse stato ucciso. Jonah e l'esplosione di Athena Drakos ebbero un grande impatto su Sykdom, che però non venne fermato dagli abili attacchi dai concittadini: fu la sua povera, limitata mente umana ad imporgli limiti durissimi, che lo costrinsero al suolo. Naavke era certo che Sibylla Greseth sarebbe arrivata a reclamare il suo premio, così come Athena Drakos e possibilmente anche Ares Maleros. Dunque si avventò su Dominik il più velocemente possibile, proprio mentre sentiva le forze venir meno, le ferite dolere, i palchi cadere come quelle dei cervi a primavera. Era tornato umano, eppure la determinazione malvagia che lo muoveva non si sarebbe mai estinta, a prescindere da quale particolarità la rafforzasse: l'Unico era debole, si era offerto a lui vulnerabile, e Naavke avrebbe saggiato ogni centimetro di carne disponibile. Mi auguro che ti risveglierai. Sibilò, piantando le membra a fermare quelle di Dominik, un uomo altrettanto voluminoso, per raccogliere una delle pietre ancora umide dell'acqua marina scatenata da Jonah, pronto a colpire. Caino si levò contro suo fratello Abele e lo uccise. Sollevò un braccio, con l'intenzione di uccidere - perchè sapeva di poterlo fare, perchè questa volta non si sarebbe fermato, perchè ne avrebbe tratto una grande soddisfazione e perchè in realtà aveva ucciso in passato, e l'avrebbe fatto ancora e ancora. L'azione venne interrotta nel momento in cui, levando lo sguardo verso il cielo, Naavke notò gli strappi al suo interno. La città lacerata, e così anche il cielo e la terra. Era troppo tardi.
     
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    Morire non avrebbe dovuto spaventare un uomo di chiesa. In fondo, si era sempre detto, la morte non era che l'inizio: esisteva un paradiso, fatto di bei ricordi, di nuvole di zucchero, di persone care che non si vedono da tempo tempo. Se l'era sempre raccontata quella favoletta, probabilmente era stata proprio essa a farlo avvicinare a Dio. Gli trasmetteva un senso di appartenenza, uno strano calore che si diramava dal petto fino ad irradiare tutto il suo corpo: pensare che dopo aver esalato l'ultimo respiro in Terra, avrebbe potuto avere occasione di trascorrere una "vita" migliore, lo rinfrancava. Eppure in quella situazione a tutto pensava fuorché ad un dopo: in quel momento, per lui, non esisteva nient'altro che il presente, un presente complicato, che non riusciva ancora a capire, che gli appariva surreale, come un quadro di Dalì. Aveva osservato i suoi compagni di viaggio dire di no con un certo orgoglio, fiero di poter far parte di quella piccola combriccola di giusti che si era opposta con coraggio ad un sogno d'odio e di repressione, mascherato con ideali che, pur cercando di entrare in quella logica malata, non riusciva a comprendere. Dall'altra parte, aveva invece provato pena per chi aveva detto di sì: in cos'è che speravano? Potere? Fama? Rispetto? Tutti aspetti della vita che aveva sempre ritenuto poco importanti, poco confacenti all'individuo che era diventato e voleva continuare ad essere. A costo di morire, non si sarebbe mai piegato a quell'assurdità.
    Volse lo sguardo verso le facce amiche, che aveva scorso in quel tempo indeterminato, scorgendo il volto di Sybilla, che a sua volta non aveva ceduto. Non chiuse gli occhi, abbracciò quello che stava per avvenire, con addosso gli occhi dei suoi carnefici, munito di un coraggio che non sapeva di possedere. In quel momento però, il tempo si fermò: non avrebbe saputo dare un nome a quello spazio, a quella situazione di candore che lo circodava, eppure se avesse dovuto farlo, l'avrebbe definito come "il paradiso in terra". C'era una flebile luce che filtrava attraverso il cielo, così lieve da rendere l'ambiente quasi ovattato: era un giardino rigoglioso, il cui prato era di un verde intenso da riportargli alla mente la Diamond Hill, nel Connemara, a casa sua, in Irlanda. Si ritrovò immobile, incapace di pensare, con la testa completamente vuota, fino a quando una bellissima donna, dall'aspetto sconosciuto, ma allo stesso tempo familiare, gli toccò la spalla: le sue mani erano lunghe ad affusolate, ma gentili, con un tocco talmente delicato da non sembrare nemmeno umano.
    La donna lo riportò alla realtà, indicandogli un punto all'interno di quel giardino: seduto su un trono di pietra, un uomo della sua età ma dalla stazza fisica decisamente più massiccia, sollevò un braccio, puntando il palmo della sua mano verso il clerico ed emettendo un fascio di luce intenso, ma sottile. Sirius si sentì trapassato da parte a parte: aprì la bocca per parlare, ma nessun suono ne venne fuori. La donna era sparita, c'era soltanto lui, con lo sguardo rivolto verso il petto, diretto ad una ferita che aveva percepito, ma che non era presente.
    Chiuse gli occhi per un attimo, ancora incredulo e confuso, e in quel singolo battito di ciglia tutto s'interruppe: il giardino non c'era più, era tornato nel caos, dai suoi carnefici, ma questa volta con un nuovo potere che sentiva fluirgli attraverso tutto il corpo. Lo sentiva come fosse sempre stato suo, ma non come la sua particolarità iniziale, per la quale gli era servito qualche buon mese di pratica al fine di poterla maneggiare con cura, anzi, percepiva quella luce come fosse sempre stata parte di lui, come se lui stesso fosse sempre stato luce.
    In circostanze normali, Sirius non avrebbe mai alzato nemmeno un dito contro altri esseri umani, ma si sentiva come rinnovato, quasi come la divinità che gli aveva donato quel potere mistico, avesse ceduto con sé tutta la sua fermezza: sentiva di potersi fidare del dio, di Dio, di qualunque entità avesse deciso di offrirgli quella possibilità, e di sfruttarla al meglio, di difendere chi lo circondava come meglio poteva.
    Ad un rapido sguardo, Naaavke gli sembrò il cacciatore più minaccioso: l'aveva visto liberarsi rapidamente di alcuni dei suoi compagni e gli si era avvicinato nella speranza di salvare Sybilla, finita nelle sue grinfie prim'ancora che potesse anche solo reagire. Lasciò che la sua luce lo accecasse, cercando di approfittare di quel momento per ferirlo, ma quell'uomo era un cacciatore fin troppo esperto, probabilmente il migliore di tutti, e non impiegò molto a liberarsi di lui, gettandolo in terra con ferite appena lievi alle braccia. Sirius non si perse d'animo, si alzò in piedi, dirigendosi nuovamente nella sua direzione, ma prim'ancora che potesse raggiungerlo si bloccò: alle spalle di Naavke, erano apparsi i volti delle sue sorelle: Bella e Vega se stavano immobili, quasi come se stessero proteggendo l'uomo dinanzi a sé.
    Perché erano lì? Cosa avevano intenzione di fare? Le conosceva bene, non potevano aver abbracciato la causa, ma soprattutto non potevano esser lì. Aveva parlato con loro, si era sincerato che quella sera rimanessero a casa, al sicuro, o in qualunque altro posto che non fosse quella maledetta spiaggia. «Sei patetico.» disse Bella, mentre Vega nemmeno lo degnava di uno sguardo. Naaavke era sparito, come in una nuvola di fumo, ma per Sirius in quel frangente non aveva importanza: non si era nemmeno reso conto di esser finito nell'illusione di Nikolaj Mordersonn, ed era questo che probabilmente l'avrebbe condotto al delirio. «Bella, Vega, perché siete qui? Io vi-» «Ci avevi chiesto di rimanere lontane dal divertimento? Ci avevi tenute...» «..."Al sicuro"?» lo sbeffeggiò Vega, concludendo la frase della gemella. «Perché è questo ciò che fai, giusto? Ci tieni al sicuro, come hai sempre fatto.» «Già, Sirius, proprio come quando eravamo bambine, no? Quando andavi via, occupandoti di vivere la tua vita, mentre noi, patetiche gemelle mai desiderate, ce ne stavamo chiuse in quel buco che ti ostinavi a chiamare "casa".» «Aspetta, aspetta, com'è che diceva? "Famiglia"?» «Sì, esatto, si divertiva a chiamarci "famiglia". Chissà se ha mai capito quanto fosse patetico definirci tale.» Nemmeno lo guardavano, non c'era spazio per lui in quella conversazione così pregna di disgusto verso un uomo che, da che aveva memoria, aveva sempre cercato di fare del proprio meglio: Sirius lo sapeva però, sapeva che "il meglio" non era abbastanza, sapeva che avrebbe dovuto fare di più, cercare di dare ad entrambe una vita più felice di quella che avevano avuto. Un'infanzia degna di questo nome, fatta di giochi, non di urla, non di disprezzo. «Curioso, vedo che il vizio di scappare dai problemi allora non l'hai sfoggiato solo con me.» La voce veniva da lontano, dalle sue spalle, in quello spazio che ormai non aveva più contorni: la spiaggia era sparita, c'erano solo ombre che a poco a poco si miscelavano le une con le altre. Bella e Vega erano sparite, ma alle sue spalle, con il più falso dei sorrisi, c'era la donna che aveva abbandonato per Dio. «Cosa c'è, ti sono forse mancata?» Rise. «Guarda, che tenero, sei così sconvolto nel vedermi qui.» Rise ancora, questa volta in maniera più sommessa: Lauren lo stava guardando come si guarda un bambino ancora incapace di stare al mondo. «Sei così...» «Patetico.» L'avevano detto tutte insieme, le donne più importanti della sua vita al completo, l'avevano giudicato per quello che era, l'avevano finalmente visto dietro la maschera di buonismo che continuava ad indossare da un tempo immemore.
    Padre Sirius Doyle, esempio di moralità, esempio di giustizia, esempio di buon comportamento e voce del Signore: quante bugie, quanta falsità. Era un uomo, nemmeno uno dei migliori, un piccolo e gretto uomo che non era mai riuscito a prendersi una singola responsabilità al mondo. Redimersi, era questo che aveva pensato di fare scegliendo di indossare quelle vesti: era semplice no? Dopotutto poteva rimanere casto, era un giusto modo di fare ammenda per aver vissuto una vita patetica come la sua. Era così che doveva andare. Non l'ho fatto perché ho paura di qualcosa, no? Iniziò a chiedersi, non sapendo se quelle parole le avesse pronunciate a voce alta o le avesse solo pensate. Io... Io non ho donato la mia vita a Dio solo per questo. Non è così? Se lo chiese da solo, ma da quel momento delle voci esterne, tutte femminili, iniziarono a fargli eco: "Non è così, Sirius?" chiedevano incessanti, mischiandosi al vento proveniente dall'oceano.
    Le braccia di Sirius, coperte solo da una camicia bianca, iniziavano a macchiarsi di rosso: qualcuno, non seppe bene chi, lo stava attaccando. Sentiva il sangue fluirgli a poco a poco lungo la pelle: era caldo, e si spargeva a poco a poco lungo i suoi arti. Non sapeva chi lo stesse attaccando: forse era il ragazzo dai capelli scuri che aveva parlato con Naaavke, forse qualcun altro. Sirius non riusciva a concentrarsi, perso in quella visione, in quel delirio senza fine che lo stava trascinando sul fondo dell'abisso. Iniziava a sentirsi sempre più piccolo, sempre più piccolo, sempre più piccolo: era lui che si stava rimpicciolendo oppure erano Lauren e le sue sorelle a diventare più grandi. Era sul fondo di una buca, guardato dall'alto in basso.
    - E' stato bello giocare con te. - ancora una voce, ancora diversa, questa volta però più reale delle altre. Il volto di Sibylla era accanto a lui, ad appena una ventina di centimetri dal suo: sulla fronte, ornata solo da un'espressione fintamente contrariata di solito, c'era invece una grossa ferita ancora sanguinante. Era stato Naaavke? Era successo davvero? Sirius si avvicinò a lei, a quella che credeva fosse lei almeno, cercando di tamponare come poteva - con lembo della sua camicia - quell'orrenda ferita. - Se solo fossi stato meno codardo. - gli disse, con un sorriso, chinando il capo verso il basso. Il luogo dov'erano, non era semplicemente un buco, ma era una fossa: i piedi del clerico stavano su una targhetta dorata, sul quale era finemente tarsiato un nome. Col cuore in gola, Sirius mise a fuoco i caratteri corsivi: Sybilla Zara Greseth, 3 Marzo 1988, Besaid - 31 Marzo 2023, Besaid.
    Aveva finalmente capito: non era morire che lo spaventava, quanto perdere qualcuno di importante che lo terrorizzava. Attorno a lui, come in un mare in tempesta, una fila di lapidi iniziarono a comparire, mentre voci familiari ed arrabbiate continuavano ad incolparlo. Colpa tua, colpa tua, colpa tua.
    Sirius cedette. Cadde ai piedi di Nikolaj, sbattendo con violenza dapprima le ginocchia ed in seguito tutto il resto del corpo contro il suolo: i suoi occhi erano aperti, vitrei, ancora tersi in una visione di cui non aveva visto nemmeno l'inizio e dalla quale, iniziava a temere, non sarebbe mai uscito.

    Disclaimer: non ho sentito la mia omonima per controllare che tutto le vada bene in questa visione del burattinaio hehe quindi questo post è suscettibile di cambiamenti!
     
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    Oh, the skies tumbling from your eyes
    So sublime the chase to end all time

    Far sparire tutto. Gettare la testa all'indietro. Chiudere gli occhi.
    Immergersi nella quiete del ruscello.


    «Non voglio morire.» La preghiera fattasi sussurro lontanissimo di alcune persone a pochi metri da lui non era che una vacua eco nella mente di Vilhelm. Pur chino su di loro, inginocchiato fra chi aveva provato a fuggire, Vilhelm avvertiva uno svuotamento peculiare, l'assenza di connessioni umane che, fattesi rapidamente più flebili, sembravano ora mancare del tutto in lui, come recise. Tutti loro, sullo fondo, ai margini, lontani dalla scena, avevano provato ad evadere dal crudele dispiegarsi della storia su di loro, colei che li chiamava a rispondere nonostante loro non desiderassero far parte del suo piano. Era certo di aver margine di scelta? Credeva che voltare le spalle all'uomo che aveva chiesto loro di schierarsi con lui costituisse una presa di posizione? Per Vilhelm tutto ciò, in quel momento, sembrava uno scherzo che mancava della battuta finale. Una strana sensazione era calata su di lui come un narcotico, rendendogli impossibile l'elaborazione di ciò che stava succedendo. La mente, prima così vigile e analitica, ora sembrava assopita.
    «Un solo uomo, una sola Besaid, un solo illimitato Potere.» Potere. Quella parola non aveva alcun significato per lui, sarebbe risultato alieno ogni contatto con quel concetto per una esistenza come quella di Vilhelm. Che quella parola fosse stata in grado di ricordare note familiari in chi si era unito al coro dei sostenitori dell'uomo? Quella promessa aveva pizzicato le corde dei loro cuori o gli ingranaggi dei loro cervelli? In momenti delicati come quelli, sarebbe stato complesso per Vilhelm anche definire i motivi che si nascondevano dietro la sua scelta: l'aver opposto resistenza aveva lo stesso peso di aver aderito alle richieste dello sconosciuto e, in fondo, le scelte di tutti quegli esseri umani erano irrilevanti di fronte al destino. Come flutti del mare, il destino nelle mani dell'uomo sconosciuto e terribile avrebbe inghiottito tutti, e tutto si sarebbe concluso fra quelle onde nere.
    «Voi che non potete capire la grandezza di questa città sarete i primi a cadere.» Se erano vuote di significato le parole dell'Unico, Vilhelm non avrebbe potuto negare la solidità e il peso delle catene che ne intrappolarono i polsi, conducendolo verso il patibolo. Si dice che una pena condivisa sia meno dolorosa, eppure non poteva trovare sollievo nemmeno nel trovare facce amiche fra chi sarebbe stato sacrificato. Gli sguardi vacui o pieni di terrore, o ancora brucianti di impavido coraggio, non risvegliavano alcuna sensazione in lui, come se in quel momento non fosse Vilhelm a passare in rassegna le loro espressioni, ma uno spettatore esterno. Ora stretto fra Lars Berg e Athena Drakos, aveva avuto modo di individuare chi aveva deciso di opporsi alle imposizioni dell'Unico. Prima viaggiò su Sibylla Greseth, chiedendosi cosa avrebbe provato l'altra a sentirsi privata della propria libertà e, sebbene non fosse mai stato bravo ad associare i nomi ai volti, subito dopo credette di riconoscere una giovane donna che aveva visto girare per il bosco, probabilmente una vicina di casa. Alla realizzazione l'espressione si incupì leggermente: sapeva che Samantha Bezuchov era molto giovane, fin troppo per meritarsi una fine del genere. Anche a lei doveva mancare il suo cane, come a lui mancavano i suoi.
    Pur credendo si trattasse dell'ennesimo scherzo del destino, Vilhelm ipotizzò che il copione a lui occulto di quella tragica fine avesse un senso. Non aveva bisogno di guardarlo in volto per capire chi fosse stato assegnato alla sua esecuzione e quella di Lars Berg: fu sufficiente venir sfiorato dalle nocche di Naavke o avvertire il suo profumo avvilupparlo, fino a sovrastarlo del tutto. Porterai a termine ciò che hai iniziato anni fa? No... non così. Chiuse gli occhi, pronto ad abbandonarsi docilmente al coltello, sorpreso da un passaggio momentaneo e freddo della lama non tagliente. «Dovrete correre.» L'invito si era unito al soffio velocissimo del movimento e la gola di Vilhelm non registrò che un taglietto, immediatamente raggiunto dal proprio palmo aperto. Prima ancora che l'incredulità potesse assestarsi nel suo corpo, un rumore profondo lo fece tremare insieme alla terra, mentre radici nere spaccavano il terreno prendendo sempre più spazio. Davanti al suo sguardo si stagliava l'altissimo e imponente Yggdrasil, l'albero cosmico.

    Prima di tutto, un po' di contesto. Avevo appena incontrato il demone in salotto e mi hanno detto entrambi che i funghi erano malvagi, quindi forse è una buona idea prenderli e basta, mi sbagliavo, penso, ma ora non c'è motivo di spiegarsi troppo. E poi mi è venuta in mente un'idea, ho iniziato a fissare il soffitto. Ho guardato il soffitto come se andassi su una giostra, ho visto le persone che sgusciavano fuori con i tentacoli! Poi, sul pavimento, c'erano vermi, e poi, ho pensato che stessero nuotando. Mi sono guardato allo specchio e c'erano i vermi. Mi sono guardato allo specchio e ho pensato di sciogliermi. Tutto il mio corpo sentiva di essere della forma di qualcosa dentro un bicchiere e la mia faccia sembrava esattamente la mia faccia. Ricordo che guardavo le scogliere e mi sembrava che stessero lentamente tornando al loro posto. Mi sono sentito molto bene ed era come se stessimo fluttuando accanto a una stella molto vicina. Sono andato fuori a guardare nella finestra sul retro e ho visto quello che sembrava un grosso animale in cielo: era in fiamme e cadeva dal cielo. Dopo circa un'ora di viaggio, una delle poche cose che ho notato e che mi ha fatto sentire felice è stato qualcosa che ha acceso la luce: il bagliore delle luci del faro. La luce dava al mio corpo una certa sensazione di bagliore, un tocco in più che mi faceva sentire in contatto con l'ambiente circostante. Le luci si sono fatte improvvisamente più rumorose e ho capito di avere qualcosa sul mio braccio. Mi pungeva come degli aghi e si muoveva verso la mia bocca. Non aveva confini era enorme e minuscolo. Dopo l'accensione della luce, però, ho avuto la sensazione di avvicinarmi sempre di più e di vedere dei fari di una barca sotto di me: una sensazione incredibile. Potevo anche sentire la nebbia dell'acqua fredda sulla superficie, ed era chiaro come la luce del giorno - mi ha ricordato i miei ricordi d'infanzia. C'erano tonnellate di nuvole intorno al porto, e i sentieri lasciati dal passaggio della barca avevano un senso, ed erano tutti colorati e più poveri di colori. L'animale pieno di luce stava facendo un milione di movimenti finché non l'ho inghiottito. Non si respira, non si respira. Tutto è ancora fermo in casa mia, tranne il fondo. Fuori era buio.

    Impressionato e immobile, Vilhelm si guardò i polsi e le braccia, studiando con attenzione le vene fattesi luminescenti: era possibile vedere il sangue scorrere velocemente in quelli che sembravano piccoli rivi di lava incandescente e bianchissima. «Su, puoi muoverti». L'invito di Athena, da cui venne strattonato con una certa forza, lo riportò parzialmente al presente. Prima che rivolgesse la sua attenzione altrove, la mano di Vilhelm raccolse il polso di Athena per una frazione di secondo, mentre segni sottilissimi e rossastri segnarono la pelle della giudice senza che potesse provare dolore. "Cambierà anche te... o sei già cambiata?" Domandò, pronto a raccogliere più l'invito di Athena che la sua risposta. Come se fosse stato da sempre abituato ad agire in quel modo, Vilhelm si lasciò sollevare da una potente folata di vento che spronò anche le persone più vicine a ritornare in sé - o a cadere contro la sabbia, casomai distratte da tutti gli altri elementi che componevano quel caos.
    Sospinto in alto, mentre la brezza marina e il movimento d'aria generato da lui stesso continuavano ad attraversargli i capelli, ora completamente bianchi, Vilhelm calcolò in maniera molto rapida quanto sforzo sarebbe stato necessario per eliminare tutti coloro che aveva iniziato a vedere come nemici: avrebbe potuto terminare la vita di molte persone scaricando su di loro fulmini dall'alto. Il pensiero non lo spaventò e, al contrario, una furia glaciale parve impossessarsi sempre di più di ogni suo pensiero. Raramente lo psiconauta tornava in sé in uno stato tanto alterato eppure, sebbene riconoscesse la propria presenza dentro di sé, avvertiva una spinta sempre più forte verso il rilascio totale e l'abbandono di ogni freno. Era una voce femminile e forte a parlargli, invitandolo a non imbrigliare le proprie emozioni, e Vilhelm decise di ascoltarla. Allargò le dita come parafulmini, avvertendo l'energia elettrica che si concentrava sulle punte delle dita: un attimo più tardi Vilhelm si trovava già altrove e la sua caduta dal cielo, dovuta alla forza sprigionatasi dal suo stesso corpo sotto forma di fulmini, venne accompagnata da una nube densa ed elettrica. Dove erano atterrati i lampi in maniera imprecisa e casuale si alzavano altissime formazioni di fulgurite e, altrove, una manciata di corpi a terra: aveva forse fatto del male a qualcuno? Quelle persone erano morte?
    "L'hai già fatto in passato." La consapevolezza dell'innocenza logorata venne riconosciuta in modo quasi stoico da parte di Vilhelm: sapeva che qualcosa si era incrinato dentro di lui tempo fa e ora non poteva che convivere con quella presenza che lo tormentava, spaventandolo. "No. Non è così." Una nuova forma di collera lo animò e parve che pulsioni più intestine stessero finalmente ricevendo ascolto, come se la rabbia potesse dar loro soddisfazione. Attorno al suo corpo un turbine di nubi e scariche elettriche, mentre i tuoni spaccavano con il loro fragore quel dialogo interno. "È parte di quello che sei. Abbandonati ad essa." I lampi iniziarono ad allargarsi come fruste, illuminando una o l'altra scena di combattimento, spargendo luce là dove mancava e immortalando come dei flash i movimenti dei corpi mentre reagivano al caos. Chiunque si sarebbe avvicinato avrebbe dovuto attraversare un fitto campo elettrico e chiunque avrebbe provato ad avvicinare chi aveva posto resistenza sarebbe stato eluso da fumi di nubi che si allontanarono da lui correndo in loro soccorso, offrendo riparo o nascondendoli in un'ombra piovosa. Inevitabilmente molte delle sue energie si prodigarono per celare la caccia in corso fra le dune sabbiose; la figura di Naavke, raccolta in un fumoso scudo, avrebbe potuto agire con il favore delle tenebre, eludendo lo sguardo delle sue prede. Vilhelm non arrestò di scaricare ogni suo impeto contro chi gli capitava a tiro, nutrendo la tempesta indomabile e fiera.

    Inginocchiato tra la sabbia, Vilhelm stava cercando di riprendere fiato, spaventato dalla possibilità che ogni alito d'aria potesse far scattare la scintilla di un nuovo poderoso lampo. Era stanco e aveva bisogno di riposare. Aveva perso di vista chi dovesse difendere e chi attaccare, accecato dalla luminosità della nuova energia che gli scorreva nelle vene, bruciandole. Tuttavia, non fu difficile scorgere nell'agitazione generale una figura familiare procedere verso di lui. Si abituò presto ai palchi che ne adornavano la sagoma, come se avessero sempre fatto parte di Naavke. Prima che lo potesse raggiungere, Vilhelm si tirò in piedi, come se una fonte di energia avesse portato le sue gambe a stirarsi completamente. «Il cielo si ritirò come una pergamena che si arrotola; e ogni montagna e ogni isola furono rimosse dal loro luogo. I re della terra, i grandi, i generali, i ricchi, i potenti e ogni schiavo e ogni uomo libero si nascosero nelle spelonche e tra le rocce dei monti. E dicevano ai monti e alle rocce: «Cadeteci addosso, nascondeteci dalla presenza di colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello; perché è venuto il gran giorno della loro ira.»
    Non aveva mai avuto problemi a sostenere lo sguardo di Naavke e tutte le sfumature che esso possedeva, dalle più misteriose e indecifrabili a quelle spaventose, eppure Vilhelm si sentiva ferito dalla morbidezza e dalla riverenza che Naavke gli stava dimostrando. Avrebbe preferito leggere del disprezzo nei suoi occhi e poter comprendere in quale scalino più in basso l'avesse riposto. Sapere di essere considerato suo pari, di star per morire per mano di un uomo che non lo amava ma, al contrario, nutriva una malsana forma d'amore nei suoi confronti, non lo confortava. Gli occhi di Naavke glielo confermavano: loro due erano uguali. "L'agnello sacrificale... e questo cosa farebbe di te?" Domandò mentre la stanchezza si appropriava della sua voce, lasciandosi guidare dalla mano di Naavke come avrebbe fatto in un sogno: era caduta ogni difesa e la certezza della sofferenza non lo spaventava. Al contrario di ogni aspettativa, in quel momento fu Vilhelm a mutare Naavke. Al contatto con la pelle dell'altro generò sulla mano e il braccio di Naavke l'apparire di fiori di fulmine, sottilissime diramazioni rosse simili a felci, che continuarono la loro risalita fino a parte del collo e del viso. Una carezza che avrebbe voluto compiere lui con il suo palmo, lasciando una scia tenera ed eterna. Mentre l'altro si inginocchiava di fronte a lui, Vilhelm lo guardò dall'alto e l'odore pungente del sangue lo raggiunse ancor prima della realizzazione del dono che Naavke gli aveva fatto: avevano la possibilità di finirla come pari.
    "Saresti dovuto andare via..." Il peso che avvertiva sul palmo, quel pugnale che aveva sottratto a Naavke per sua volontà, sembrava nullo in confronto a tutte le implicazioni che portava con sé. Fissò lo sguardo nel suo per un attimo che gli sembrò interminabile, l'espressione non nascondeva tutto lo spavento e la fragilità. Aveva guardato nell'abisso e si era convinto di essere pronto a varcare la soglia, non sentire più il terreno sotto i piedi a sostenerlo, ma in quel momento Vilhelm aveva paura. Non aveva paura di morire, ma aveva paura di fare del male a Naavke. Il tempo è tornato indietro. In quel momento sapeva di non trovarsi più in spiaggia ma nel mezzo del bosco. Il cuore batteva un ritmo incessante, salendo fino alla gola, secca per l'affanno e per la corsa. Questa volta non si sarebbe nascosto, non si sarebbe ritratto al tocco di Naavke, respingendolo per poter salvare entrambi. Vilhelm non chiuse gli occhi quando avvertì il pugnale perforargli la carne, emanando un singulto strozzato che tradiva ogni risentimento. L'arma di cui l'aveva dotato Naavke sarebbe risultata inutile mentre le mani cercavano di aggrapparsi proprio a colui che l'aveva cambiato fino a non permettergli più di riconoscersi - o fino a conoscersi meglio di quanto avesse mai fatto in vita sua. Strinse il corpo esposto di Naavke, racchiuse in due pugni stretti le mani e lo abbracciò come avrebbe fatto anni prima. Incastrato nell'incavo del collo di Naavke, si abbandonò a lui, mentre gli spasmi del corpo e della voce cercavano di combattere il dolore che si irradiava dal suo addome. Sorte, amore, e morte avevano congiunto Vilhelm a Naavke, e Naavke a Vilhelm.
    In quella stranissima, momentanea beatitudine, mentre Vilhelm si accasciava al suolo rivolgendo lo sguardo al cielo aperto e dilaniato, le ultime parole di Naavke lo raggiunsero. «Sono felice di averti rivisto, Vilhelm.» Non era stato ancora in grado di dare un nome alle conseguenze di ciò che Naavke aveva fatto germinare in lui ma, mentre lottava contro il sanguinamento e contro il calare delle palpebre, guidato verso un piacevole tepore, Vilhelm sembrò allontanarsi ancora di più da tutto ciò che lo circondava. Esplosioni ghiaciali e improvvise, perfino il sopraggiungere dell'acqua salmastra che lo bagnò del tutto, lavando via parte del sangue abbandonato sulla spiaggia per poi ridursi in una pioggia che continuò a cadere, tutto appariva remoto. Non era solo in quella condizioni: altri e altre erano caduti, ma fu impossibile scansare la solitudine. Sentiva freddo, ora, ma credeva che la notte fosse quasi giunta al termine. In quel momento, per Vilhelm i fendenti del destino che avevano fatto sanguinare il cielo sembravano tanto belli quanto la visione della via lattea.

    Vorrei soltanto far sparire tutto, gettare la testa all'indietro, chiudere gli occhi, immergermi nella quiete del ruscello.
     
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    Il mondo ha deciso che Phobos è cattivo. Sua madre gli ha dato la paura come nome, la città una particolarità che lo rende letale. Come potrebbe essere, quel ragazzino, qualcos’altro che non sia odio e distruzione? La prima volta che ha ucciso non se la ricorda. Era in fasce, ciucciava il latte da sua madre.
    È così che è iniziato.
    Una prima vittima, caduta sul pavimento di casa. Una sorella dimenticata. Da allora il mondo gli ha chiesto solo di uccidere, la vita di non avere una morale, di essere cacciatore e preda in trappola allo stesso tempo. A Poison basta un tocco per uccidere qualcuno. Un modo dannatamente facile. Troppo, per un ragazzino.
    Non ne ha mai percepito la gravità, della morte. I committenti chiedevano, lui eseguiva. Pulito, senza obiezioni, non si è mai domandato chi avesse davanti, o di chi stesse decidendo il destino.
    Subdolo, letale, come un morbo che flagella il mondo, quel reietto è stato generato da una Besaid matrigna per portare il caos. O per ristabilire l’ordine.
    Si guarda la veste che gli copre i piedi, uno sguardo a quell’invasato. Mai come ora sa di aver fatto una scelta sbagliata. Ma la sua vita, in fondo, non è stata che una costellazione di decisioni mal prese?
    Una volta avrebbe voluto vivere d’arte, e invece ha vissuto di spacci e omicidi.
    Avrebbe voluto risparmiarsi l’amore, e risparmiare a quell’amore la sofferenza di averlo accanto. Il potere di Poison non è il veleno. E' lui stesso, un veleno, per tutto ciò che lo circonda. Fosse morto, forse, Milo sarebbe stato meglio. Sarebbe al sicuro, lontano dal mostro che è. Lui che è così speciale, così ancora capace di sognare un futuro tanto da convincere anche lui a farlo.
    Non ci sono mali da combattere, sono io il male.
    Chissà, se alle origini di Besaid c’è stato un altro male come lui? Chissà se c’è stato un altro elemento simile nel medesimo rito? Quello da cui tutto ha avuto origine.

    C’era il serpente, nella genesi.

    Non vuole assecondarlo in quella pazzia. Poison sa di aver fatto una cazzata. Ma l’essere dalla parte del più forte gli permette di nascondere la sua fragilità. Da solo, Poison, sa di essere nulla.
    E un omicidio in più non cambierà la sua vita.
    È un sicario, per lui la morte è la sua committente.
    Guarda Naavke, il suo Faro. Sa che ha un piano, deve solo attendere. Ma prima c’è un ostacolo sulla sua strada. Una ragazza dai capelli biondi [Sam], in ginocchio. Lo sguardo fiero di chi è convinto di ciò che sta facendo.
    Poison quello sguardo non ce l’ha. Sembra spaventato. Lo è.
    Tiene la lama lungo il fianco, si avvicina. Freddo, impassibile. Sa come si fa.
    Eppure pensa a che avrebbe fatto se ci fosse stato Milo al suo posto. A quante coltellate si sarebbe preso e si prenderebbe, per lui. Perché ne è certo, Milo avrebbe seguito la scelta degli altri. La ribellione, la giustizia.
    Povero scemo.
    «Chiudi gli occhi, sarò veloce.»
    Sussurra a Sam, gelido. Non riesce ad essere empatico, a consolarla nel momento della morte, mentre poggia la lama fredda sulla sua pelle.
    Poison ha imparato ad annichilirsi, a non provare sentimenti. Fin quando non ha smesso di provarne davvero. I sentimenti sono una distrazione. Sono per gli stronzi rammolliti.
    C’è qualcosa che lo ferma, ma non è la sua vittima. La terra trema, si rivolta. Sembra voler essere lei a uccidere i suoi figli. La Madre di tutti.

    La madre che uccide i suoi figli e poi li rigenera come divinità. Divinità arrabbiate, pronte a rivoltarsi ai loro aguzzini. È come se gli dei avessero incontrato i Titani. Soggetto perfetto per un dipinto. Modo di merda per morire.
    È un animale, Poison, e si getta comunque sulla ragazza, col coltello sguainato. Prova a ferirla, la sfiora, ma lei è più veloce, più forte. Gli ritorce l’arma contro. Il ragazzino indietreggia.
    Ha esitato, questo è il risultato.
    Geme di dolore mentre percepisce il Suo tocco. Quello dei rami dell’albero sacro, portatori di vita.
    Di potere.
    Nuova linfa percorre le sue membra, mentre Skydom incita alla guerra. Mentre nella sua mente si materializza un potere che sembra conoscere da secoli.
    Dei contro dei, quella deve essere l’Apocalisse.
    «Sectumsempra! »
    Quella stronzata gli esce di bocca, perché fondamentalmente è un coglione anche in punto di morte. Se la lascia sfuggire mentre disegna dei simboli in aria con le mani. Sente di voler provare quel potere che gli scorre prepotentemente nelle vene. Sangue, morte. Mira a padre Doyle, il prete di Besaid. Perché Poison è il principe mezzosangue. #momentocrossover
    Riesce a sfilarsi il pugnale dal fianco, e indietreggia ancora.
    Davanti a lui Naavke si appresta a combattere. Gli da il suo pugnale, la sua arma.
    Poison lo guarda, si interroga sul perché di quel gesto. Perché sta dando a lui una possibilità? Lui è il Sommo, e il ragazzo solo una pedina.
    Sa che c’è altro, oltre quel gesto, ma non lo comprende.
    «Grazie. »
    Risponde semplicemente. Non sa perché, ma quello suona come un addio. Un testamento.

    La mano sulla ferita, ansima. Può guarire, se vuole, la magia può tutto.
    «Isch trièl na len namar.»
    e partiamo con l’elfico. Se ho detto qualcosa de strano in qualche lingua che conoscete nce fate caso
    Sente la magia scorrere dalle proprie mani, eppure qualcosa la blocca. Qualcuno. Qualcuno gioca col suo corpo, ed ha un potere più forte.
    La ragazza di prima, quella che ha quasi ucciso, mantiene il contatto visivo. Il sangue inizia ad uscirgli a fiotti.
    «Fermati, stronza. »
    Sibila strozzato mentre cade in ginocchio. Quella ferita non gli sembrava così grave, eppure gli sta impedendo di respirare. Il sangue macchia la tunica, la terra, le sue mani.
    «Artiel, livesha. »
    Agonia. Sul corpo di lei, a distanza, traccia una runa di sangue. Un segno che finché non sarà cancellato provocherà un dolore lancinante. Come una maledizione. Una cicatrice che porta con sé ben più di un ricordo.
    Si volta. Skydom è a terra. È lì che capisce cosa intendesse Naavke. Quale fosse il grande piano.
    A fatica, avanza. Arranca, con la testa che gli gira e un dolore tale da dargli la nausea. Si tiene il fianco e avanza. Un colpo secco alle sue spalle, ferma la sua corsa. Un dolore lancinante. Una scheggia di ghiaccio si conficca nella sua schiena, dopo l’esplosione.
    Cade a terra, senza più respiro.
    Per un attimo niente ha più senso. Quella violenza, tutta quella cazzo di storia.
    Sfiora la terra, con le dita, chiedendo a quel dono un’ultima coccola prima del buio.
    « Sannhet. »
    Verità. La terra lo ascolta e gli dona una visione.

    Una madre coccola un neonato e una bambina, felice.
    La stessa donna è a terra, con la bava alla bocca. Il neonato è accanto a lei.
    Coco Evjen lo prende per il culo, per un attimo Poison si chiede cos’abbia di così famigliare negli occhi.
    Naavke gli da il suo coltello.

    Milo lo osserva dormire e sorride. Lui gli ha dato più amore di quanto ne meritasse. Lui non merita di soffrire più.


    Ha ancora il coltello che gli ha lasciato Naavke. Milo non merita quel mondo. Non merita di trovarsi su quella spiaggia, tra qualche tempo, a rischiare di morire. Lo conosce, se venisse a saperlo proverebbe a sfidare Dominik e ci lascerebbe le penne. E allora la Consorte Morte avrebbe vinto.
    Milo merita di continuare a giocare quella partita.
    Una lacrima riga il suo viso. Non potranno giocare insieme. Non è mai stato possibile.
    La magia impregna quella lama, ne diventa essenza. Essa parte in direzione di Skydom, pronta a trafiggerlo.
    Non avrà vincitori, quella guerra.
    È stata solo un enorme, inutile, sacrificio.


    Resta con me, cuore mio, un ultimo istante. Sii il mio ultimo pensiero, quello più bello.
     
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    Sentì Lars cercare di trattenerla quando si mosse in avanti, per esprimere il suo disappunto di fronte a tutta la folla e in particolare davanti a quell’uomo che voleva convincerli a unirsi a lui. Mentre veniva trascinata all’indietro vide alcune persone puntare le armi contro quella figura dallo sguardo folle, persino Lars estrasse una pistola dalla tasca, puntandola verso di lui. Sam lo guardò con aria stupita. Sebbene quelli fossero tempi folli non si sarebbe mai aspettata che il suo amico potesse andare in giro armato. Aveva temuto che lui potesse scegliere di unirsi a quel pazzo, spinto dalla sete di conoscenza, ma non aveva saputo dirsi sollevata quando anche lui si era rifiutato di muoversi verso di lui. Era bello sapere che stavano dalla stessa parte, che i loro ideali erano ancora gli stessi, ma temeva che quegli ideali li avrebbero presto portati alla morte, insieme. A qualche metro dal centro della scena si fermò a osservare quello che accadeva dall’altro lato. Una pedana apparve a dividere le due fazioni che si erano formate, adornata di fiori e grano. Sentì un brivido al ricordo di ciò che le era stato raccontato riguardo l’anno prima, cercando di cancellare l’immagine di Lys che combatteva per la sua vita. Non ebbe il tempo di riflettere che subito percepì una stretta attorno alle sue mani e una forza silenziosa che la trascinava verso il centro, proprio su quella pedana, in ginocchio. Si aspettava forse che pregassero e chiedessero pietà? Percepì la rabbia farsi largo dentro di lei, ma si morse la lingua per evitare di parlare. Cercò di dimenarsi mentre con la forza qualcuno la costrinse a guardare verso il mare, così scuro in quella notte da sembrare un vuoto sconfinato. Quanti ricordi aveva di quella spiaggia, di quella città e di tutte le persone che erano state la sua casa, sin dal primo momento. Per un istante la sua intera vita le passò davanti e i volti delle persone a lei più care le strapparono una lacrima. Non voleva credere che un folle potesse davvero mettere fine a tutto.
    Aveva sempre creduto di avere tutta la vita davanti, di avere tempo, così tanto da poterne sprecare e invece eccola lì, appesa a un filo sul punto di spezzarsi. «Chiudi gli occhi, sarò veloce.» Il sussurro gelido del ragazzo alle sue spalle parve risvegliarla dal torpore, riaccendere la rabbia in mezzo alla paura. -Ma cosa stai facendo? - raccolse tutto il suo coraggio per rivolgere quelle parole al ragazzo che teneva il coltello, dietro di lei. Sembrava avere più o meno la sua età, ma aveva deciso di compiere una scelta diametralmente opposta, di unirsi alla morte piuttosto che alla vita. -Non capisci che stai solo rimandando l’inevitabile? Ucciderà anche tutti voi quando avrete finito. - disse, la voce salda mentre cercava di girare la testa per poterlo osservare in volto. Voleva che la vedesse, che l’immagine del suo sguardo sicuro e arrabbiato lo accompagnasse per il poco che gli restava da vivere. Aveva paura ma lottava con tutte le sue forze per cercare di non renderlo evidente, per non dargli anche quella soddisfazione.
    Chiuse gli occhi, trattenendo il respiro mentre aspettava che la lama ferisse la sua pelle. Senza la sua particolarità non era che una ragazzina qualunque, incapace di difendersi davanti a una persona armata. Prese un altro respiro, cercando di trovare un pensiero a cui aggrapparsi in quegli ultimi istanti, prima che tutto divenisse buio. Ripensò ai suoi genitori, agli amici che negli anni avevano lasciato la città, perdendone ogni memoria. Pensò a Lys, a Cat, a Coco, a Beat, che l’ultima volta ci era quasi rimasto secco in una situazione come quella. Pensò a Lars, a pochi metri da lei, a Holden, a Fae, a Lucas… Era impossibile scegliere un solo pensiero e trattenerlo. Poi un boato squarciò il silenzio e le parve che stesse per arrivare un terremoto. Aprì gli occhi, osservando una lunga crepa segnare il terreno e poi un vigoroso albero ergersi con le sue radici, lì dove un tempo c’era stata soltanto sabbia. I fuochi si spensero e l’unica luce sembrò arrivare proprio da quelle radici che, luminescenti, si facevano strada verso di loro nel buio. Fu subito ammaliata da quel movimento lento e inesorabile, dall’aura di potere che emanavano. Puntò le ginocchia a terra, cercando di spingersi in avanti per raggiungerlo e poterne saggiare la consistenza. Riuscì a muoversi a malapena di alcuni centimetri prima che il buio avvolgesse ogni cosa attorno a lei, trasportandola lontano.

    Quando riaprì gli occhi si ritrovò distesa su un prato verde, il cielo azzurro e limpido sopra la sua testa punteggiato di piccole nubi bianche che ricordavano lo zucchero filato. Si portò un braccio davanti agli occhi per coprirli da tutta quella luce. Le sembrava di essere stata al buio per così tanto tempo, era strano ora trovarsi davanti un paesaggio del tutto inaspettato. -Ben svegliata. - una voce allegra e cristallina la fece voltare velocemente. Intravide una cascata di capelli del colore dell’arcobaleno e il volto dell’amica di sempre, con quel sorriso sulle labbra, sempre in grado di infonderle coraggio. -Fae? Che cosa ci fai qui? Dove siamo?- domandò, confusa, mentre si metteva seduta e si guardava attorno. Non era più sulla spiaggia, su quella pedana creata solo per il sacrificio. Si trovava in un ricordo passato. Ricordava ancora quel giorno come se fosse accaduto ieri. -Siamo in un posto che tu consideri sicuro. - disse la donna quindi, guardandola con una dolcezza quasi materna mentre le accarezzava il volto. Trovò strano quell’atteggiamento da parte dell’amica ma non ci badò troppo, spaventata dai ricordi che iniziavano ad accavallarsi nella sua mente. -Che cosa è successo sulla spiaggia? Eri lì anche tu? - mormorò, preoccupata e sempre più confusa. Era certa di essersi persa un pezzo della storia. Come era finita in quel prato? E cosa voleva dire quella strana frase di Fae? Provò a richiamare l’aria, cercando la naturalezza di una vita, senza riuscirci. -Tu non sei qui, non è vero? Io sono ancora su quella spiaggia. - continuò, corrucciando le labbra in un’espressione preoccupata. La donna annuì, senza parlare. -Un frastuono, l’albero.. - disse ancora, guardandosi attorno alla ricerca di qualcosa di familiare, di un dettaglio in grado di riportarla indietro. La donna sorrise, soddisfatta della sua capacità di riunire i punti. -E’ venuto in vostro soccorso, e anche io. - si mise in piedi, mostrando un’armatura di pelli e pelliccia mentre il paesaggio attorno a loro cambiava, divenendo una scogliera. -Tu? Chi sei tu? - le chiese, la voce concitata di chi aveva fretta di trovare delle risposte. -Devo fare in fretta, non posso restare qui. - aggiunse, ripensando a Lars e agli altri compagni che aveva lasciato indietro, su quella stessa spiaggia. Anche loro erano vivi?
    -Io sono Eir. E ora, anche tu avrai un po’ del mio potere. - spiegò, allungando il braccio e offrendole il palmo della mano aperta, affinchè Sam la stringesse. Unì la mano alla sua senza pensarci mentre quel nome faceva riecheggiare racconti che aveva letto da piccola. La dea Eir era la dea delle arti curative, poteva guarire le ferite. Sorrise, capendo solo allora perché avesse scelto di manifestarsi in quella forma. Era un po’ come la sua Fae. Glielo avrebbe detto se fosse riuscita a rivederla, che non aveva bisogno di volare per essere la favolosa protagonista di una storia. A contatto con la mano della dea si irradiò una strada luce e lo scenario cambiò di nuovo. Vide un paesaggio luminosissimo dove altre donne fiere e coraggiose indossavano armature simili a quella di Eir. Ognuna di loro aveva i capelli di un colore diverso e tutte insieme formavano un caleidoscopio di colori che la rinvigorì. -Voi siete con noi, è sempre stato così. - mormorò, con un sorriso, come se finalmente tutto le fosse chiaro e non ci fosse bisogno di altre spiegazioni. -Ora però devo andare. I miei compagni hanno bisogno del mio aiuto. - aggiunse, guardando la dea affinchè, come l’aveva portata lì, la aiutasse a tornare indietro. -Sì, è il momento. - mormorò l’altra, annuendo seria. Ma ricorda, ciò che può guarire può anche ferire. Non mettere limite alle tue possibilità. Scrivi la tua storia.

    Fu questione di un attimo. Battè di nuovo le palpebre e si ritrovò di nuovo su quel campo di battaglia, i polsi finalmente liberi e il caos attorno a lei. Non provò l’istinto di scappare, di proteggersi, non ora che sapeva di non essere sola. Sentiva come una mano invisibile posata sulla spalla, che le imponeva di andare avanti, di non avere paura, di plasmare quella forza per scrivere una degna fine. Si guardò attorno, trovando uno dei pugnali del sacrificio e lo raccolse velocemente. Il ragazzo alle sue spalle cercò di fare lo stesso nel buio, ma lei lo anticipò. Strinse il coltello tra le mani e lo piantò nella coscia di lui con forza. Un ringhio sommesso le fuoriuscì dalle labbra approfittando del suo arretrare per rimettersi in piedi. Si guardò attorno, anche gli altri compagni sembravano aver preso coscienza del nuovo potere che scorreva nelle loro vene, così come, purtroppo, i loro nemici. Nemici. Solo in quel momento quella parola si marchiò a fuoco nella sua mente, mentre cercava di fare la conta dei loro feriti e accertarsi che i suoi compagni stessero bene. La voce di Lars le arrivò nelle orecchie nonostante lui si trovasse lontano, nascosto all’interno di un cratere che si era appena creato. Nonostante lui sia più alto di lei, sente soltanto una gran rabbia e la voglia di mettere fine a tutto quanto. Le chiese di occuparsi del ragazzino, di cercare di metterlo fuori combattimento visto che, con la magia che gli era stata appena donata, si sarebbe potuto dimostrare un avversario sin troppo temibile. Lei annuì appena, senza dire una parola. Ciò che può guarire può anche ferire. Le ultime parole della dea le tornarono alla mente mentre, concentrandosi sulla ferita che aveva poco prima causato al ragazzo, cercò di metterne a fuoco i contorni e poi di espanderli. Un ghigno divertito le tinse le labbra quando il ragazzo la vide, intimandole di smettere. Lo guardò con più forza, ampliando ancora di qualche millimetro il taglio, osservandolo cadere in ginocchia per la sofferenza.
    Fu il suo turno poi di stringere i denti, quando il ragazzo le restituì il favore, provocando come un dolore acuto alla sua spalla. Si portò una mano a tastare la pelle, trovandoci impresso un simbolo che non seppe comprendere ma che bruciava come se fosse stata una lama rovente. Soffiò inviperita, osservando la schiena del ragazzo che sembrava aver cambiato obiettivo, lasciandogli un ultimo regalo. La ferita si sarebbe infettata, l’infezione si sarebbe propagata, non avrebbe impiegato molto a cadere a terra, privo di energie. Forse quel ragazzo sarebbe giunto nel Valhalla e le valchirie lo avrebbero raggiunto per indicargli la giusta via. Si mosse lentamente, tenendosi ancora la spalla pulsante, notando altre escoriazioni sul suo corpo, che non aveva notato nella concentrazione. Cercò di alleviare il dolore con la sua nuova particolarità, almeno il minimo necessario a tenersi in piedi. I segni sarebbero rimasti, ne era sicura, ma almeno avrebbe reso le ferite più sopportabili.
    Si guardò attorno, mentre la voce di Lars nella sua testa sembrava come sparita. Non riuscì a scorgerlo in mezzo al tumulto e allora si fermò a osservare gli altri compagni, tutti presi da scontri mortali. Si piegò sulle ginocchia, cercando riparo all’interno di uno dei crateri formati dalla giudice, posando le mani a terra, cercando così di percepire quelle stesse radici nere e brillanti che le avevano donato quel nuovo potere. Una sorta di sesto senso dentro di lei le disse che in quel modo sarebbe riuscita a raggiungere più velocemente il resto del gruppo, per aiutarli con le ferite che avevano subito sino a quel momento. Le divenne subito chiaro che il suo ruolo in quella storia forse era proprio quello di supporto, aiutare gli altri a compiere il proprio destino, a restare in piedi, essere testimoni di quello che sarebbe giunto in seguito e del mondo che sarebbe riemerso da quella oscurità.
    Notò il folle disegnare segni sulla sabbia e sul suo corpo, poi una nuova luce e un’esplosione che la fece finire a terra. Non aveva più molto tempo per aiutare gli altri. Doveva fare in fretta. Affondò le mani nella sabbia e, cercando di isolarsi dal mondo circostante, utilizzando il nascondiglio che le era stato offerto, cercò di trovare a uno a uno i suoi compagni. La prima che riuscì a individuare fu Athena, con la sua profonda ferita lungo il fianco, sanguinante. Le sembrò come di far fluire parte della sua energia, attraverso la terra, fino al corpo della giudice. Percepì i bordi del taglio farsi più vicini, i tessuti rigenerarsi. Si fermò soltanto quando i colpi le sembrarono ormai solo delle piccole ferite. Frammenti di ghiaccio le ferirono il viso, ma non si mosse. Si spinse più in là nella sua ricerca, verso padre Doyle che con tanta gentilezza l’aveva sempre supportata. Cercò di lenire le sue ferite, di alleviare un po’ della sua sofferenza fisica, ma non riuscì a trattenersi a lungo su di lui. Un grido euforico da parte di quel folle le fece capire che avrebbe avuto abbastanza tempo per curare bene ogni ferita. Il posto dove si trovava non era poi così sicuro, qualcuno avrebbe potuto raggiungerla. Doveva fare in fretta. Raggiunse Sibylla e Vilhelm con una certa fretta, poi Ares, per poi alla fine cercare di concentrarsi sulla persona a cui teneva di più tra quelle che aveva attorno in quel momento. Non riuscì a trovarlo e allora aprì gli occhi, cercando di rialzarsi in piedi, venendo così travolta dall’onda scura che si era levata sulla spiaggia, per poi infrangersi con uno tsunami. Scivolò a terra, completamente zuppa, ma si rimise in piedi, combattendo contro la stanchezza e il dolore per raggiungere Lars. Un pensiero spaventoso aveva iniziato a farsi largo nella sua mente. E se fosse stato ormai troppo tardi? No, non voleva crederci. Cercò di schivare gli scontri e i diversi tipi di proiettili che si infrangevano sul campo di battaglia da tutte le parti mentre una nuova luce rischiarava la notte, facendosi sempre più intensa. L’Unico era sospeso in aria, con quel sorriso folle sul volto e il suo corpo emanava una luce irreale.
    Le sembrò quasi di scorgere tutto al rallentatore. Individuò il corpo di Lars, riverso a terra all’interno di uno dei crateri. Non riuscì a pensare lucidamente. Iniziò a correre nella sua direzione, troppo preoccupata per ricordarsi di poterlo raggiungere anche a distanza. Un fragore alle sue spalle la fece sobbalzare, ma non si fermò, continuando a correre. Non si rese neppure conto di essere tornata di nuovo semplicemente umana, senza più la protezione di Eir al suo fianco. Si inginocchiò accanto all’amico che era stato al suo fianco per tutto il tempo in quella festa maledetta. Lars? - lo chiamò, sforzandosi di riaccendere un potere ormai spento. -Ti prego, ti prego svegliati. - gridò, cercando di farlo ridestare con qualche leggero strattone. Il cielo e la terra parvero squarciarsi a quel suo grido e una nuova paura si accese dentro di lei: sarebbero davvero morti tutti? Era stato tutto quanto inutile?

    Edited by 'misia - 20/7/2023, 20:03
     
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    Qualche anno prima aveva assistito ad un massacro da dietro le quinte, aveva giurato di non aprir bocca di quello che avevano fatto per il bene della scienza, per il bene della città, per la strada che stavano intraprendendo nel prepararsi a quello: al male, all’origine che diviene fine prima di richiudersi su sé stessa e ripartire da zero. Un cerchio senza capo o coda, solo un enorme massa di vite al centro, venivano sballottolate a destra e sinistra, sopra e sotto e lei, lì in piedi, assisteva all’ennesimo massacro senza poter fare niente, questa volta dalla parte del bene, sempre dalla parte del bene, quello la cui violenza avrebbe soffocato il male vero. L’esperimento del Luna Park era costato loro una vita, ma era stato per il bene dell’informazione, avevano detto gli scienziati della fazione governativa. Era stato per comprendere quanto avrebbero resistito le particolarità una volta poste in condizioni di stress estremo: solo ora, Sibylla, si guardava intorno e capiva cosa avesse imparato. C’era un limite davvero a tutto, a qualsiasi potere, a qualsiasi forza e volontà. Dagmar si era lasciato prosciugare dai poteri. Dagmar ci era morto, nella casa degli specchi.
    Un solo uomo, una sola Besaid, un solo illimitato Potere. Quando quel limite veniva superato, come in un cerchio, si tornava all’origine e si ripartiva da zero: reset. Forse l’Unico non lo aveva ancora capito?

    Quando apparì la pedana in mezzo alla folla, Sibylla non ebbe davvero il tempo di chiedersi cosa stesse accadendo, erano immagini, quelle, che aveva avuto modo di vedere. Alcune erano frutto degli interrogatori svolti l’anno precedente, la portarono difatti a pensare a quanto reale dovesse essere stato tutto ciò che i ragazzi avevano visto, a quello che i due in coma avevano vissuto forse durante il loro lungo sonno. Si chiese, più che altro allora, se anche quello non fosse uno stato vegetativo all’interno del quale tutti loro erano caduti senza neanche accorgersene. La risposta non la cercò fra i pensieri o tra le parole rimaste cucite in gola, secche e flebili. Allungò una mano verso la propria coscia, chinandosi appena da un lato mentre le dita andavano a premersi nella stoffa dei pantaloni neri per raggiungere la fetta di pelle che sembrava aver sottratto alle gambe di sua madre. Non poteva vederle, le piccole mezzelune, ma avvertì l’estremità delle proprie unghie affondare nella pelle. Non bruciò, eppure si rese conto d’essere lì. Quando sollevò lo sguardo, l’incubo dell’anno prima era tornato a prendere forma su di lei nel presente. In ginocchio, il busto rivolto verso l’orizzonte ancora invisibile nel buio della notte, Sibylla provò a muovere le dita e i polsi per liberarsi dalla presa stretta attorno alla sua pelle, invano. Si voltò con il capo in direzione dell’Unico, eppure la sua attenzione venne attirata dall’unico punto debole che scoprì d’avere in quel preciso istante. Aveva impiegato tutta la vita a farsi forte dinanzi ai problemi, a correggere gli errori, a correggere i comportamenti, le persone, le relazioni. Aveva passato tutta la vita consapevole di aver pianto solo per sua madre, mai prima, mai dopo. Scelte di vita che l’avevano resa marmorea, un cuore che batte perché robotico, non per pompare del sangue, la vita che scorreva dentro di lei era generata dalla mente razionale: era stata messa al mondo per quel motivo? Per vivere senza paure, senza emozioni? Eppure, quando si accorse di chi aveva accanto, lo stomaco le si attorcigliò dentro: la sconvolse riconoscere così tanti volti fra quelle fila, riuscire ad abbinarli ad un nome preciso ed essere consapevole di averci avuto a che fare almeno una volta nella vita con la maggior parte di essi. Era per la prima volta in una schiera di combattenti che non avevano scelto di combattere, non come i colleghi della fazione che, al contrario di tutti loro, erano stati addestrati anche per l'eventualità che, un giorno o l'altro, avrebbero potuto esser messi a confronto con una situazione di quel calibro. Sabylla vedeva il volto angelico di Sam, ne avvertiva l'incredibile forza che sprigionava a parole ogni volta che parlava; Lars, la sua compostezza anche in una situazione come quella; Athena, meravigliosa anche nel momento in cui cominciava a realizzare che, forse, non tutto nella vita prendeva la direzione del giusto; Vilhelm, lo sguardo stranamente lontano, diverso da quello che Sibylla aveva conosciuto; Ares, mai davvero una piacevole visione per la donna - anche in quel momento, in quelle precise circostanze - eppure soddisfacente vederlo schierarsi dallo stesso lato; Non fu poi definitivamente più capace di proferir parola alla vista di Sirius, l’unico pensiero che si presentò a lei fu la traduzione di una piccolissima speranza, la stessa che l’aveva portata a chiedersi se quello che stava vivendo fosse anche reale. Era reale anche la visione di Sirius che le stava inginocchiato accanto? «Uccideteli.» e al comando, la lama ora sostenuta dalle mani di Nikolaj Mordersonn le si posò fra mento e busto, nel mezzo della gola. Il freddo del metallo venne accompagnato da un fruscio, catturò il verde della barriera che vedeva in lontananza e immaginò s’illuminasse ad intermittenza per qualche secondo. Quando calò il silenzio, l'ombra prese la forma di un maestoso albero che sbucava dal terreno e, poco dopo, Sibylla venne risucchiata nel cuore della terra, lontana da qualsiasi rumore, qualsiasi materia liquida, vi erano solo radici, alberi, puntini di luce calda che li attraversavano tramite i suoi rami e le sue radici, arrivarono a lei e le si attaccarono alle dita dei piedi ora scalzi. Era stesa su un’insieme di tronchi, o forse radici, le gambe pendevano nel vuoto nero. Si ritrovò a sollevare le mani per guardare come le strane lucciole si aggrappavano ai suoi polpastrelli, i capelli fluttuavano intorno al suo viso senza rispettare le leggi della gravità. All’improvviso, sebbene non volesse crederci, Sibylla seppe con certezza di esser parte di essa, parte di una città che l’aveva cresciuta per farla propria, un soldato, un vigilante, una parte a sé stante dei suoi confini, fatta di radici solide, scavate nel profondo del suo petto e difficili da estrarre, forse impossibile. Si sentì parte completa di sé stessa, della città, dei misteri che l’avvolgevano, della terra e delle piante, del mare, del sole e della luna. Si sentiva tutto questo e, al contempo, sapeva che qualcuno stava provando a portarle via quella sensazione. E, mentre la mente vagava su strade di pensieri per trovare l'uscita in una soluzione o spiegazione che potesse essere plausibile per la sua razionalità, osservò come, dalla punta dei piedi e delle mani, dei capelli, il suo corpo si trasformava lentamente in rami, in tronchi sottili che, connessi dalle piccole lucciole alle radici su cui dondolava, l'attiravano a sé per fare di lei un vero e proprio tutt'uno con la terra, con la città. Sebbene avrebbe voluto scrollarsi da quelle luci, ritirarsi dalla presa delle radici, Sibylla schiuse le labbra, serrò gli occhi ed inalò l'ultimo respiro, consapevole di non potersi sottrarre al proprio destino, a quella sensazione di appartenenza che la stava letteralmente mangiando, trasformando la sua pelle in tronco e foglie.

    Seppe d'esser di nuovo fatta di carne e ossa, mente e sentimenti, non appena una forza inaudita prese a correrle sotto pelle. Ritrovandosi in piedi sulla sabbia, tutt'intorno a lei prendeva vita, si muoveva veloce. I contrasti che durante un battito di ciglia esplosero intorno a lei furono chiassosi sin da subito. La guerra era iniziata? Sollevò appena le mani dinanzi a sé per osservare le proprie vene luccicare flebilmente, proprio come nel sogno le lucciole si erano avvolte attorno alle sue dita, così ora sembravano intrappolate sotto pelle e vagavano dentro di lei dai palmi fino ai polsi, proseguendo lungo le braccia e tutto il corpo. Strinse le dita contro i palmi delle mani per chiudere queste in due pugni stretti, quindi sollevò lo sguardo per individuare il proprio punto d'attacco. Intercettò diversi combattimenti, poi s'incamminò fra alcune scaglie di ghiaccio, deviandole ai propri lati con l'uso delle braccia e noncurante dei piccoli tagli che le lasciarono nella pelle, il focus sul corpo di Nikolaj Mordersonn intento a colpire Sirius. Tre metri, due metri, un metro di distanza, ora la schiena dell'erede Mordersonn le era vicina, avrebbe dovuto solo sollevare un braccio. Lo fece, posò le proprie dita sulla spalla destra di Nikolaj, ticchettò con il dito indice su di essa per richiamare la sua attenzione affinché lui potesse girarsi nella sua direzione e vederla: una cascata di capelli biondi ricoprivano ora due spalle minute, un fisico slanciato di chi spesso è in costante movimento, di chi non cerca mai la pausa, altrimenti nota come pericolo per una mente suddivisa in sin troppi scompartimenti come quella.
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    E questo Sibylla poteva saperlo senza neanche davvero conoscere l'anima devastata dalle emozioni più profonde come quella di Delilah Renoir, il punto debole di uno come Nikolaj che, al contrario, dice e si costringe a mostrare di non averne alcuno. Ed eccolo lì, lo sguardo di lui vagò attraverso lei, su di lei, Sibylla chinò il capo da un lato e gli sorrise come avrebbe fatto lei, l'ennesimo ticchettio del dito indice sulla spalla dell'uomo, sempre più di uno, sempre alla ricerca della sua attenzione, era per quel motivo che a Delilah piaceva Niko e che a Niko piaceva Delilah? Ingannevole ritrovarsi dentro il corpo di qualcuno e, d'improvviso, conoscere ogni segreto mai pronunciato a voce alta: quel fastidio che in Nikolaj, contro ogni previsione, invece che scaturire rabbia, generava affezione. Malsana, questo addirittura Sibylla lo poteva percepire, ma allo stesso tempo seppe che, qualsiasi cosa avesse provato a fare in quel momento, lui avrebbe tentennato, affogando lentamente nella domanda delle domande: avrebbe dovuto fidarsi di lei? Accoglierla significava cedere il controllo perché, con Delilah l'aveva capito, non c'era modo di soffocarla. Lascialo andare, non è importante. sussurrò avvicinandosi a Nikolaj, il braccio sinistro andava a posarsi sulla spalla libera, il palmo della mano si adagiava sul tessuto della tunica e le dita ne afferrarono i lacci intrecciati sotto al mento di lui, strinsero appena. Gli occhi ora azzurri restarono fermi dentro quelli dell'uomo, solo il mento si sollevò appena e il capo indicò nuovamente verso Sirius, disteso per terra afflitto da visioni che né Sibylla, né Delilah potevano vedere. Mi devi portare via di qui, Nikolaj. Dobbiamo andare, ora. Non puoi lasciare che mi accada di nuovo qualcosa, non è così? Non potrei mai perdonarti. Non è ciò che desideri? Liberarti di ogni senso di colpa? aggiunse, mettendosi sulla punta dei piedi per avvicinarsi al suo viso, la mano destra andava ad afferrare piano il mento e, nel momento in cui Nikolaj finalmente sembrò essere completamente da lei, Sirius riaprì gli occhi. Fu la frazione di un secondo ed ecco che le dita di Delilah scivolarono lungo il collo di Nikolaj, si unirono alle altre mentre, premendo sulla pelle, lo spingevano verso il basso, il giusto tanto da permetterle di lasciare la presa con una mano per muoversi e girargli intorno, posizionarsi alle spalle dell'altro ed intrappolarne la nuca nell'incavo del gomito. Avresti dovuto impararlo molto tempo fa: non mi puoi soffocare, Nikolaj Mordersonn. gli sussurrò nuovamente all'orecchio con il tono della voce serioso, la cascata di capelli biondi si scurì mentre il viso di Delilah spariva dietro quello di Sibylla, le labbra ora serrate e le sopracciglia corrucciate, la schiena che si curvava all'indietro per tirarsi il corpo di Nikolaj verso di sé mentre, lo notava, perdeva lentamente tutte le proprie forze. Provò a dimenarsi mettendole la meni in faccia, senza effettivamente riuscirci dato che iniziava a mancargli l'ossigeno. Solo quando, finalmente, vide gli occhi arrossarsi, Sibylla seppe di dover lasciare la presa: Nikolaj cadde pesantemente di pancia per terra, le braccia lungo i fianchi, privo di sensi, mentre qualcuno intorno a loro iniziava a generare crateri su tutto il terreno della spiaggia. Con il piede, sollevò il busto di Nikolaj per spingerlo in uno di quelli creatisi esattamente vicino a loro, cercando di proteggerlo da qualche altro possibile attacco a vista. Quando si voltò alla ricerca di Sirius, lo trovò disteso per terra a qualche metro di distanza e fece giusto in tempo a raggiungerlo per accovacciarsi su di lui mentre un'ondata d'acqua sembrò invadere la spiaggia dal mare, Sibylla fu capace di scorgerne i molluschi volarle sopra la nuca. Si strinse al corpo di Sirius tanto a lungo quanto ci volle per riemergere dal buio e dal sale del mare. Completamente bagnata, Sibylla cercò di riprendere respiro e, dopo essersi accertata che Sirius respirasse, si sollevò nuovamente, più stanca di prima, per affrontare quello che, lo sapeva, stava giungendo. Lo aveva osservato di sottecchi, non lo aveva perso di vista, consapevole della sua più che enigmatica personalità: Naavke la stava puntando, nello sguardo miliardi di parole mai pronunciate, si specchiavano in quello di Sibylla che, tanto quanto Naavke, taceva la presunzione di una verità che non avrebbe mai potuto realizzare a voce. E lo sapeva, chi fossero entrambi. Sapeva anche cosa fossero, quanto poco o molto avessero in comune e la testarda ambizione che nel profondo avrebbe potuto accomunarli: un credo in qualcosa ben più reale della fede, dell'universo, di poteri che vanno e vengono. Il credo nelle proprie abilità. Cercò quindi invano la pistola che aveva perso prima, impossibile ritrovarla in mezzo a quel caos. Fu di conseguenza preparata, aveva accettato la direzione che avrebbe preso quella serata nel suo spazio-tempo e, quando la mano di Naavke le afferrò il viso per condurre tutto il corpo della donna contro la roccia, l'impatto fu sgradevole, doloroso, Sibylla avvertì immediatamente il sangue gocciolarle lungo il viso, i capelli altrimenti zuppi d'acqua di mare si tinsero di un rosso scurissimo, quello che sarebbe dovuto scorrere sulla pedana prima del caos. Le ci volle qualche istante prima di riprendersi dopo esser caduta per terra col viso nella sabbia. Le girava la testa, la stessa che pareva volerle ora esplodere dentro il cranio. Restò per terra per quelli che le sembrarono minuti infiniti e, quando finalmente provò a risollevarsi, tutto girava violentemente dinanzi ai suoi occhi. A passo lento, tentennante, Sibylla provò ad avvicinarsi di nuovo verso il centro, e solo dopo qualche tentativo intercettò lo sguardo di Samantha, la giornalista. Fu in quell'esatto frangente che il dolore alla nuca sembrò alleviarsi, il sangue smise di scorrere a fiotti e prese a gocciolare sensibilmente. Sollevò il mento in direzione della ragazza per ringraziarla tacitamente mentre, con la mano sulla testa, premeva contro la ferita. Si accertò che anche Sam stesse bene e poi, voltandosi di nuovo verso Sirius, cercò di raggiungerlo gettandosi per terra, strisciava di nuovo nella stessa direzione dell'altro, caduto nelle estreme vicinanze della pedana e, quindi, degli adepti del tizio che si proclamava l'Unico. La testa le doleva, eppure la preoccupazione che Sirius potesse non risvegliarsi più era ben più grande di quella che la spingeva a chiedersi quanto profonda fosse ancora la ferita sulla nuca nonostante le cure di Sam. Raggiunto il prete, Sibylla cercò di farsi forza per riportarlo a lei. Sirius, devi alzarti, ora! cercò di smuoverlo afferrandolo per le spalle e scuotendolo con forza. Sirius! provò di nuovo e, mentre cercava di sollevarlo, qualcosa alle sue spalle attirò la sua attenzione: il corpo dell'Unico, dapprima sospeso per aria, cadde violentemente contro il terreno e, per un momento, tutto sembrò fermarsi intorno a Sibylla. Fu solo un'impressione, come se il tempo si fosse fermato solo nella sua testa e non nella realtà dove, ora, vedeva le piccolissime lucciole svanire da sotto la propria pelle assieme alla sensazione di forza che la città le aveva dato in prestito solo poco prima. E mentre vedeva il nuovo potere lasciare il suo corpo, nel buio una luce si fece spazio, frammentò il cielo e la terra e, per la prima volta, Sibylla ebbe paura.
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    Si sollevò piano, lasciando andare la presa su Sirius e, facendo scorrere lo sguardo dal cielo al suolo, vide la figura di Naavke Evjen dirigersi verso il corpo ora ancora inerme di quello che molti conoscevano come Dominik. Si fece forza e spinse i piedi contro la sabbia umida, cercando di essere veloce e ritrovandosi alle spalle di Naavke intento a bloccare Dominik: di fianco a loro, a solo qualche metro di distanza, giaceva una pistola. Incerta fosse la propria, Sibylla si precipitò a raggiungerla e, quando si voltò di nuovo in direzione dei due, il corpo agì automaticamente senza che lei potesse comandargli di muoversi o fare. Si avvicinò a loro pure restando a qualche metro di distanza, fra le mani il calcio della pistola ben saldo: Sibylla si accovacciò su sé stessa, le ginocchia contro la sabbia e le braccia ben distese nella loro direzione. Sparò uno, due, tre colpi, poi si voltò con la schiena verso la sabbia e rotolò in uno dei crateri per mettersi al riparo da eventuali successivi tumulti o attacchi. Aveva mirato all'agglomerato di carne composto da Naavke e Dominik, meglio farne fuori due che uno solo, seppur troppo frettolosa per accertarsi del risultato.
    Stanca, dolente, Sibylla lasciò la presa sul calcio della pistola, lasciandola scivolare verso il centro del cratere all'interno del quale si era distesa. Avrebbe lottato ancora, se fosse stato necessario, eppure la sensazione che presto tutto sarebbe cambiato la premeva con il corpo verso la sabbia, quasi volesse farsi sotterrare e rispuntare dall'altro lato del mondo. Cosa avrebbe trovato? Il tramonto?
     
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    ARES MALEROS
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    « Voi che non potete capire la grandezza di questa città sarete i primi a cadere. ».
    Al vedere apparire quella pedana in legno ornata di delicati fiori e simboli di fertilità, Ares non poté che tornare indietro alle sue radici greche e a quelle leggende che l’avevano accompagnato fin da bambino e che avevano spinto i suoi genitori a donargli quel nome.
    Pensò al divino Ade e alla splendente Persefone, l’uno simbolo di morte e l’altra simbolo di vita, uniti a rappresentare quello che era il ciclo naturale di ogni uomo. Tutto ciò che nasceva, doveva morire.
    Tutto ciò che vedeva la luce, doveva necessariamente accettare l’oscurità che si celava al di dietro.
    In innumerevoli occasioni Ares si era ritrovato a dover far fronte alla possibilità di morire sul campo di battaglia, di perire così presto e così in fretta da poter dire di non aver mai vissuto quella che in molti avrebbero definito la “vita vera”, sempre nascosto dietro il mirino di un fucile, facendo del decadimento altrui la propria linfa vitale.
    Affermare di non aver avuto paura in quelle occasioni sarebbe stato mentire: nonostante i suoi modi di fare bruschi e prepotenti, l’arroganza che sembrava circondarlo e formare un’aura di comando tutto intorno a sé, Ares era umano e proprio come tutti gli altri esseri umani temeva la morte.
    Eppure, in quell’occasione così particolare, in quel sabbioso campo di battaglia, la paura che aveva provato molto tempo addietro era più intensa del normale, più cocente, così tanto da infiammargli le vene e fargli pulsare i muscoli delle braccia come sarebbe successo se avesse ancora avuto la sua particolarità e avesse potuto lottare per la propria vita.
    I suoi occhi, scintillanti come fiamma alla luce del falò ormai agli sgoccioli, non riuscivano a staccarsi dal viso dell’unica donna che avesse mai amato.
    Com’era buffo quel destino che li aveva fatti ritrovare soltanto per vederli morire l’uno accanto all’altro, per mano di una giustizia crudele e arbitraria, sotto un cielo stellato che sembrava averli maledetti.
    Nel momento in cui le sue ginocchia toccarono la sabbia fredda e la voce dell’Unico risuonò ancora una volta nell’aria fresca della sera, « Uccideteli », Ares sentì il terrore mescolarsi alla rabbia e ad un senso di impotenza che raramente aveva provato in vita sua.
    Vide l’ombra di Jonah allungarsi dinanzi a lui mentre quest’ultimo gli si avvicinava alle spalle, armato della daga che l’Unico gli aveva fornito per provare la sua fedeltà, e vide la stessa ombra allungarsi anche dinanzi alla propria compagna mentre supplicava, implorava il proprio carnefice — di Ares, poiché avrebbe implorato per la sua vita più che per la propria — di tornare in sé, di lottare per ciò che era davvero e non per la paura che gli faceva contorcere le viscere.
    La pressione continuò a crescere all’interno del petto di Ares mentre cercava di ribellarsi, di tornare a muovere mani e gambe, di lottare perché non era così che doveva finire, non era così che sarebbero morti.
    Erano due guerrieri, eppure il destino — l’Unico — stava chiedendo loro di morire come agnelli sacrificali.
    Quella pressione aumentò, sempre di più, bruciandogli le vene e i polmoni e alla fine un grido pieno di rabbia e frustrazione abbandonò le labbra di Ares e lacerò il silenzio circostante. La quiete che si era venuta a formare tutt’attorno a loro era il risultato della fine incombente, una fine che lui si rifiutava di accettare passivamente.
    Avvertì la mano di Jonah tremare contro il proprio collo in seguito a quel grido di un cane rabbioso, eppure Ares non aveva che occhi per la daga che era pronta a scalfire il collo della giudice Drakos. Poté leggere nei suoi occhi il momento in cui si arrese all’inevitabile, raddrizzando le spalle sotto il peso della morte incombente e incatenando lo sguardo al suo per potergli dire addio un’ultima volta, un saluto seguito dalla promessa che forse si sarebbero rincontrati nell’Oltretomba.
    « Non osare! » gridò Maleros, gli occhi spiritati mentre cercava ancora una volta di ribellarsi alla forza esterna che lo teneva piantato nella sabbia, avvertendo qualche goccia di sangue scorrere lungo l’epidermide del collo quando si spinse inavvertitamente contro la lama. « Non osare arrenderti, non osare dirmi addio, ATHENA! ».

    E fu allora che il terreno si aprì sotto di loro, squarci di luce argentea creparono la terra e permisero ad intricate e nodose radici di penetrare in superficie, innalzandosi verso l’alto.
    La vista di Ares si offuscò per qualche istante dinanzi a quella visione soprannaturale, divina. La città stessa si era risvegliata e gli dèi di quella terra avevano deciso di venire in loro soccorso, se per il bene o per il male non era dato saperlo.
    Sbatté le palpebre, cercando di recuperare la sensibilità agli occhi, ed ecco che accadde qualcosa di così sorprendente da strappargli un ansito sorpreso: ad ogni battito di ciglia, il mondo attorno a sé cambiava, mutava, si scioglieva, frantumava e smantellava da sé per poi ricomporsi, riunirsi, ricrearsi sempre diverso, sempre nuovo. La spiaggia scomparve per lasciare spazio al prato erboso di una foresta, poi al pavimento di un maestoso palazzo, e poi ancora ad un ponte che splendeva di tutti i colori dell’arcobaleno e poi, infine, si ritrovò in cima ad una montagna a strapiombo sul mare.
    Sull’orlo del precipizio, un uomo dai lunghi capelli bianchi in armatura vichinga lo guardava con espressione seria e solenne, quasi lo stesse studiando.
    Ares sbatté le palpebre una seconda volta e quell’uomo, quel dio, scomparve insieme al mondo da lui creato, riportandolo sulla morbida sabbia di quella spiaggia trasformatosi in un campo di battaglia.
    La sensazione di impotenza di poco prima era sparita per lasciare spazio ad una forza così intensa, così profonda, da inebriarlo completamente: Ares sentiva di poter creare, conquistare, dominare e infine… distruggere.
    Rialzatosi in piedi, afferrò la prima persona — nemica — che gli capitò a tiro e, con un singolo battito di ciglia, lasciarono quella landa sabbiosa per atterrare nel fitto della Foresta Amazzonica, dove Ares aveva svolto una missione tanti anni prima. Tronchi massicci, radici sporgenti, sibili di serpenti, ululati di scimmie, ringhi di giaguari, tutti quei suoni e percezioni non poterono che indebolire il suo avversario, confonderlo, portarlo a tremare di paura, e prima ancora che potesse reagire contro di lui, Ares si era già mimetizzato nel verde per riapparirgli alle spalle e afferrargli i capelli in una presa decisa. Senza esitazione, gli sbatté la testa contro un massiccio pezzo di roccia, lasciandolo svenuto e con una ferita sanguinante sulla tempia.
    E tale riapparve sulla spiaggia di Besaid all’incirca tre minuti dopo, il guerriero in piedi accanto a lui pronto a gettarsi nuovamente all’attacco.
    Fulmini saettavano tutt’intorno, crateri ghiacciati si aprivano nella sabbia, il cielo ruggiva di tempesta eppure Ares non fermò mai, neanche per un istante, la sua avanzata verso l’Unico.
    Poteva sentire la voce di uno dei suoi “compagni” nella testa, che gli diceva esattamente dove e come colpire il nemico, sussurrandogli alla mente quelli che erano i loro peggiori timori e Ares li sfruttò per creare un mondo nuovo per ognuno di essi, ove Phobos e Deimos, rispettivamente “Paura” e “Terrore”, regnavano sovrani.
    In molti sparirono dalla landa sabbiosa per riapparirvi poco dopo, privi di sensi, e nonostante nuove e intense ferite continuassero a scalfire una dopo l’altra il corpo di Ares, egli sembrava inarrestabile proprio come un generale alla guida del suo esercito. La sua pelle sembrava rattopparsi da sé con il passare del tempo, come se un silente angelo custode stesse vegliando su di lui da sopra la sua spalla. Ares non sapeva che questo “angelo” si chiamasse Sam, ma si stava assicurando di sfruttare quel vantaggio fino all’ultimo secondo.
    Alle sue spalle, le splendide e ramificate ali di un grifone scolpite nel ghiaccio si stavano poco a poco allargando in sua difesa, scudo e protettrice mandata da Athena: Thyelas.
    Lanciando un’occhiata di sbieco dietro di sé, alla sua sinistra, Ares poté distinguere anche la figura sottile e pallidissima di Jonah, il quale sembrava star adunando il suo potere per formare qualcosa, un’onda che cresceva e si innalzava man mano nell’oscurità, pronta ad abbattersi sugli ignari combattenti impegnati a scatenare le loro pulsioni più ancestrali su quel terreno di battaglia.
    Che Jonah desiderasse colpire in realtà l’Unico, questo non poteva saperlo.
    Ares abbassò lo sguardo su uno dei crateri che Athena aveva creato nella sabbia e non esitò a staccare un lungo e affilato pezzo di stalattite ghiacciata.
    « La prossima volta, guardami in faccia mentre cerchi di uccidermi, mmh » e senza la benché minima esitazione, sollevò la punta acuminata pronta a trafiggere il biondo.
    Eppure un dolore lancinante in corrispondenza delle gambe gli strappò un grido di dolore così intenso, così straziante, da stordire probabilmente le orecchie del povero Jonah. I tendini d’Achille squarciati in profondità, dal quale adesso sangue fuoriusciva copioso, cedettero sotto il suo peso e Ares fu ancora una volta costretto in ginocchio, la sua arma di fortuna sbalzata via dalla mano destra dall’acqua che aveva preso a infrangersi sulla spiaggia in quel caos di elementi e fenomeni atmosferici.
    Cercò di rialzarsi, di ritrovare la forza nelle gambe, e sembrava quasi sul punto di farcela quando Thyelas perì la seconda volta e l’urlo di Athena risuonò nell’aria, trasportata dalla tempesta.
    Frammenti di ghiaccio perforarono Ares ovunque, graffiando e lacerando la pelle fino a raggiungere i muscoli e i preziosi organi al di sotto.
    Ma lo scherzo del destino più insidioso, la beffa più tagliente, fu proprio che il suo corpo posto in quel modo servì come perfetto scudo per evitare al suo precedente giustiziere gran parte delle ferite più gravi.
     
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    gFr4inM


    L'uomo cadde per terra, privo di sensi, e per un breve istante, dopo che il pugnale di Poison venne lanciato a lacerargli un fianco e il proiettile della pistola di Sibylla sfiorò prima la gamba di Nero per poi finire nella spalla dell'Unico, tutto tornò in equilibrio. Ci fu silenzio, ci furono vinti e vittoriosi. Nel punto più profondo di quel silenzio, di quella calma dolorosa, una donna incappucciata di rosso era rimasta accovacciata nel buio, la nuca e il volto nascosti da un'ombra che la forza del vento, dell'acqua, delle scaglie di ghiaccio non era riuscita a cancellare. La videro sollevarsi, sembrò venire da molto lontano, forse da dietro la barriera, forse nacque da quella stessa luce verde che ancora brillava lungo i confini della spiaggia, forse era sempre stata lì in mezzo e nessuno l'aveva notata. S'avvicinò al corpo ancora privo di sensi del suo Dio e, afferrando il pugnale ancora conficcato nel fianco dell'altro, lo strappò via dalle sua carni. Con la lama ancora sporca di sangue, la donna premette la punta del pugnale nel palmo della propria mano e lasciò che alcune gocce di sangue colassero sulla spalla dell'uomo, almeno finché questo non riaprì gli occhi. Fu quasi etereo, quel momento: l'Unico la guardò per qualche istante, le dita delle mani affondarono con forza nella terra sotto di lui e, sebbene le ferite non sparirono dal suo corpo, smisero di sanguinare all'improvviso. Quando fu in grado di rialzarsi, la donna svenne prendendo il posto del suo leader e, per la prima volta, tutti gli altri furono in grado di scorgere la pelle chiarissima del suo collo e del viso, lunghi capelli argentei si liberarono dell'ombra del mantello per distendersi ai lati del suo viso, mischiandosi con la sabbia sotto la sua figura. Rialzatosi, l'Unico la sfiorò per qualche istante e premette una delle mani sul suo torace, poi altri due adepti corsero ad occuparsi di lei, trascinandola via dal centro della spiaggia senza che nessuno potesse provare a fermarli: sparirono di nuovo nel buio in direzione del confine con il bosco.
    Era di nuovo in piedi, lui, e osservava quello che aveva intorno, coloro i quali avevano provato a fermarlo e chi aveva deciso di unirsi a lui per paura di perdere la propria vita. Tutto aveva funzionato esattamente come programmato. Quando abbassò lo sguardo su Naavke, che aveva provato a fermarlo, chinò il capo da un lato e, dopo qualche breve istante, si accovacciò nella sua direzione allungando un braccio per posare la mano sulla gamba ferita: con un dito scavò in profondità nella ferita per qualche secondo, rialzandosi solo quando il grugnito di dolore si trasformò in un urlo. Si rialzò, sorrise poi amaramente muovendosi di nuovo fra gli spettatori del suo spettacolo, le sue cavie, i suoi adepti, battendo le mani in un applauso cadenzato, ritmico, mai troppo accelerato, neanche troppo lento. «I miei complimenti, davvero.» si pronunciò, il fiato ancora corto mentre il respiro tornava a regolarizzarsi avvertendo lentamente la stanchezza lasciare il suo corpo, ad ogni passo il piede affondava nella sabbia, nella sua terra, e le batterie si ricaricavano. «Avete davvero dato del vostro meglio, siamo ancora tutti qui.» continuò, voltandosi poi verso Athena che aveva perso il suo grifone e sorridendole compiaciuto. «O quasi tutti.» aggiunse sollevando il mento nella sua direzione prima di riprendere a camminare in mezzo a tutti quegli sguardi, chi ce l'aveva fatta a restare in piedi, chi invece giaceva al suolo senza forze. «E qualcuno c'è per metà.» disse, fermandosi dinanzi ad Ares. Di fianco, due occhi luminescenti l'osservavano con disprezzo, erano incastrati in un volto così angelico che pensò stonassero. Si avvicinò quindi a Sam e, posando il palmo della mano destra sul suo viso, ombrò momentaneamente la sua vista. Passò poi oltre, tornando verso il punto in cui era caduto per terra e si fermò nuovamente, voltandosi nella direzione del suo pubblico, lì dove era avvenuta la lotta, per sollevare entrambe le braccia nella direzione di quelle figure: le dita ben stirate, i palmi delle mani completamente aperti verso il mare alle spalle di chi lo stava osservando. «Non vi biasimo, dopotutto. Non potevate saperlo che il figlio della Terra è praticamente indistruttibile.» disse ancora, scuotendo piano il capo da un lato all'altro. «Sono il frutto della vostra curiosità, di quella dei vostri genitori, dei vostri nonni. Se non fosse per voi e la vostra sete di potere, io non sarei neanche qui. Quindi, grazie spiegò con il tono di voce divertito, lo sguardo accarezzò ognuno di loro per poi fermarsi appena più a lungo sulla sagoma di Nikolaj che, ora, provava a rimettersi in piedi. «Ma ora c'è qualcosa di importante che dobbiamo fare insieme. Qualcosa di magnifico, di inimmaginabile! Qualcosa che sia più speciale di un figlio nato dalla Terra stessa.» spiegò, esaltandosi mentre richiudeva le dita contro i palmi delle mani e stringeva, le nocche divennero bianche, due lune innalzate nel cielo della notte, sarebbero sparite con l'alba. «Per fare sì che accada, però, avrete l'onore di fare qualcosa per me, rendervi partecipi sacrificando qualcosa a cui tenete...» aggiunse, il sorriso sparì dal viso per lasciare ad una finta espressione triste di prendere il suo posto. «Lo so, lo so, non sarà facile, ma è necessario affinché l'impossibile divenga possibile!» continuò, guardando ancora sui volti dei suoi spettatori. «Ho bisogno che mi portiate quelle particolarità. E' necessario, non c'è altro modo.» continuò annuendo piano con il capo. «Sarà breve, lo prometto.» rassicurò ancora, tornando a sorridere soddisfatto qualche istante dopo quando, riaperte le mani, tutti quelli che aveva intorno finirono per terra privi di sensi.

    Il silenzio che calò fu spettrale, quasi soffocante, sarebbe stato possibile uscirne?



    #recap azioni & info utili:
    • La donna (un'adepta) si avvicina all'Unico e gli ridona forza, affinché lui possa risollevarsi.
    • L'unico si rialza, è ancora ferito, ma il contatto con la Terra ora lo tiene in vita.
    • In questo momento, di nuovo, sarà per voi quasi impossibile muovervi o ribellarvi a lui.
    • Quando vi chiederà di portargli le particolarità, i vostri PG sapranno con certezza cosa intende: ogni PG dovrà togliere la particolarità a qualcuno a loro caro. (In basso trovate la lista e la vittima per ogni PG)
    • Quando cadono per terra, i PG si ritroveranno in uno stato di trance poiché dovranno privare della particolarità un PG/PnG, facendoli ammalare.


    #indicazioni:
    -- Lo stato di trance nel quale cadono i PG in questo turno, è lo stesso in cui erano i PG della scorsa quest: ciò significa che il luogo, il tempo, il modo in cui vengono sottratti i poteri, tutto è di vostra liberissima scelta. Potete anche decidere quale sia lo stato fisico. Proprio come nella scorsa quest, si tratta di una specie di visione, in cui però tutto ciò che accade è reale. Good to know: le vittime della privazione dei poteri, vivranno contemporaneamente la visione! Questo significa che la visione sarà reale anche per loro e sarà importante per i player nel momento in cui torneranno a muovere i PG ongame ora privati delle loro particolarità.
    -- Lo stato psicologico dei vostri personaggi sarà totalmente vostro da descrivere, vi invitiamo a ricordare che, anche durante lo stato di Trance, i PG sono consapevoli di quello che qualche secondo prima è accaduto. Se hanno riportato ferite in battaglia, potrete scrivere che le ferite sono sparite, o che ci sono ma è scomparso il dolore, o che dolore e ferite ci sono ancora. E' tutto a vostra discrezione. E potete anche decidere il vestiario dei vostri pg, se lo desiderate.
    -- Per i PG che si trovano già in spiaggia, la visione è valida anche per loro, anche se si trovano nello stesso luogo.
    -- Nel momento in cui private dei poteri l'altro PG, il vostro sarà perfettamente consapevole di quello che sta facendo, ciò significa che potrebbe provare a combattere contro sé stesso per evitarlo o essere sopraffatto dai sensi di colpa. Lo stesso vale per il PG vittima della privazione dei poteri: dovesse capire cosa realmente sta accendo, potrebbe cercare di ribellarsi, sarà vostra discrezione quindi trovare un modo affinché l'azione venga portata a termine con successo. Good to know: i PG potranno ribellarsi come e quanto vogliono, i poteri DEVONO essere necessariamente sottratti, siete sotto l'influenza dell'Unico che, col suo potere, purtroppo vi costringe a farlo. I PG vittima non avranno altra scelta.
    -- Quando il potere sarà stato sottratto, lo stato di trance tornerà e vi risveglierete sulla spiaggia. Avrete la sensazione di aver sognato, ma sarete certi che quello che avete visto è effettivamente accaduto: sarete quindi in un leggero stato confusionale.
    -- Non siete d'accordo che uno dei vostri PG venga privato dei propri poteri? Bene, non è un problema! Contattate una dello staff e provvederemo subito a cambiare la vittima. Good to know: La perdita dei poteri, come annunciato già precedentemente (scorsa quest e così via) causa una graduale perdita delle forze vitali in generali che, alla fine, sfocia in coma. Questo non significa che il vostro PG nel giro di tre o quattro mesi sarà morto, ovviamente non lo permetteremmo! Ma potreste giocarvi un'eventuale indebolimento delle forze, almeno fino alla prossima Quest. La progressione della malattia è lenta, in circa sei mesi la fase di indebolimento è graduale, e per altri sei mesi (quindi un totale di un anno, in tempo per la quest) la condizione peggiora ancora di più e l'indebolimento diventa cronico, sino ad una pesante astenia, che condurrà nelle ultime fasi al coma. E' come se gradualmente le persone perdessero la loro linfa vitale assieme ai loro poteri, che invece non si presentano sin dalle prime manifestazioni della malattia.
    -- Comprendiamo che questo è un cambio radicale nella vita dei pg colpiti, quindi se durante la discussione tra voi emerge che le player interessate vogliono contribuire alla descrizione di questo momento, sentitevi libere di farlo dopo aver raggiunto un accordo!
    -- Se avete bisogno di più informazioni riguardo la vecchia quest, specialmente per le nuove utenti ma anche per rinfrescare la memoria alle più veterane, vi preghiamo di leggere necessariamente i masterpost della quest precedente.

    Vilhelm: Naavke
    Athena: Ares
    Ares: Athena
    Sam: Fae
    Sibylla: Sibylla
    Lars: Maeve
    Sirius: Bella
    Naavke: Coco
    Niko: Delilah
    Jonah: Annike
    Poison: Milo


    -- Vi invitiamo ad iscrivervi alla discussione per non perdere nessun post.
    !Importante
    -- Per descrivere il momento di trance con gli altri PG/PnG è corretto che vi accordiate con le player dei personaggi a cui toglierete i poteri.

    #turni: (ATTENZIONE: per necessità di gioco, è molto probabile che questi cambieranno radicalmente di volta in volta)
    A questo giro non ci sono turni programmati! Avrebbe tutti la possibilità di postare entro 10 giorni a partire dalla mezzanotte del 29.07.2023!
    -- Chi non avrà postato entro la fine del turno generale, lo salterà automaticamente.


    Qualsiasi dubbio o domanda riguardante la Quest potete porgerla in questo topic, dove troverete anche i link alle quest precedenti. - Qui invece il link al Besaid Journal con gli ultimi articoli riguardanti il "virus" e qui il link alla Pre Quest, nel caso in cui qualcuno se la sia persa.
     
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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: - Descrizione o discussione estesa di immagini disturbanti (gore), violente o contenuti sensibili (ferite, percosse, pestaggi e simili); --- Descrizione o discussione estesa di morte di un personaggio o del personaggio principale;
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.
    Le azioni descritte non sono ad ogni modo condonate e sono diretta responsabilità creativa di chi ha realizzato tali contenuti.


    Rotolò per terra, all'interno di quel cratere, scivolando appena più in basso per potersi rialzare piano, prima sulle ginocchia, poi a mani nude nella terra, risalì fino in superficie, la nuca sollevata e lo sguardo in direzione del punto nel quale l'uomo era precipitato. Fu etereo anche quel momento all'interno del quale il silenzio sembrò regnare, un marionettista che muove i fili invisibili all'interno del suo spettacolo da teatro per bambini. Vide il cappuccio rosso di una figura avvicinarsi da lontano e chinarsi nei pressi del corpo privo di sensi dell'altro e, in un solo attimo, tutto sembrò tornare al punto di partenza tranne lei, tranne gli altri che, per metà ancora senza forze e distesi per terra o in ginocchio nella sabbia, si chiedevano quale fosse la scorciatoia e, soprattutto, a chi sarebbe stato permesso di prenderla. Inspirando piano, Sibylla si rialzò, dolente, la testa ancora calda e pulsante, a passarci il palmo della mano sopra le restò di nuovo sangue fresco sulla pelle, lo pulì via strofinandosi le dita contro il tessuto scuro dei pantaloni che aveva addosso. Si avvicinò al corpo di Sirius di soppiatto, restando china e col peso sulle ginocchia piegate per restare ad un'altezza media mentre si spostava. «Stai bene?» chiese sottovoce, il capo rivolto verso di lui ma lo sguardo che si alternava tra Sirius e la scena da rito mistico che sembrava star prendendo vita a qualche metro di distanza da loro. Avrebbe voluto dirgli altro, assicurarsi che stesse bene, eppure le fu impossibile deconcentrarsi da ciò che, ora, sembrava star accadendo. Il proiettile lo aveva colpito, lo poteva notare ora che si era rimesso in piedi sottraendo energia ad una delle sue adepte. Poteva comprenderlo, le veniva automatico, così come cominciava nuovamente a capire che mai, in nessun caso, Sibylla stessa sarebbe venuta fuori vittoriosa da quell'incontro. E le parole dell'altro non fecero altro che confermare ogni sua teoria, aiutavano i meccanismi di comprensione che nella mente di Sibylla erano stati sempre più sviluppati, la spingevano in fretta a raggiungere la fonte del problema, la soluzione, la conclusione. Le fu chiaro ad ogni parola, ogni passo, persino al gesto della mano sul viso di Samantha. Ne sarebbero usciti vivi, forse, ma non avrebbero dovuto sperare forse mai in più di quello. La Terra lo sosteneva, una madre o un padre che dona forza al proprio figlio, quasi nello stesso modo in cui la città era venuta in loro aiuto poco prima. Eppure, tutto quel potere sembrava esser sparito di nuovo, tranne il suo, quello che alla figura dell'Unico apparteneva, gli s'infilava forse sotto pelle, tra le dita dei piedi scalzi. E lì quell'illusione che ogni teoria fosse stupida, ecco che l'illusione venne via per lasciar spazio alla realtà dei fatti, ma non ci sarebbe stato tempo in quel momento per pensare al come, nonostante Sibylla non fosse solo Sibylla, ma anche un'ente cresciuto ed allenato per esser parte di quel momento stesso. Non seppe quanto potesse esser divenuto chiaro per gli altri con chi esattamente avessero a che fare, eppure lei riuscì a capirlo, giusto in tempo prima di perdersi e perdere di nuovo.
    Quando le palpebre le si serrano sulle iridi verdognole e il corpo perse nuovamente le forze, Sibylla si accasciò per terra cadendo di fianco a Sirius. Si direbbe che stava giungendo la fine di una notte spietata, giacché il sole stava cominciando ad illuminare l'orizzonte giungendo forse da un posto lontano del mondo, magari tanto poco pacifico come quello.

    «Per annientare una paura la devi trasformare in forza.» la voce giunse da dietro le sue spalle. Sibylla, capo chino e sguardo che scivolava sui palmi delle proprie mani aperte dinanzi a sé, osservava la fede al dito. Brillava nonostante non ci fosse troppa luce lì. Ma dov'era? Quando sollevò lo sguardo riconobbe il tetto altissimo della chiesa vicino casa dove sua madre era solita portarla la domenica mattina. Travi di legno si susseguivano e alternavano ad archi in cemento di un giallo scolorito dal tempo, lampadari di finte candele pendevano per metà illuminando ben poco della navata. Con le mani spalancate verso il soffitto e il mento sollevato, Sibylla chiuse e riaprì le palpebre per cercare di capire quando fosse, di certo non dove. Non poteva esser altro che un sogno, che fine avevano fatto tutti gli altri? Tutti quelli che, come lei, erano rimasti intrappolati entro i confini della spiaggia? «Per annientare una paura la devi trasformare in forza.» la voce dietro di lei parlò di nuovo, questa volta più vicina, tremendamente familiare. Piano, allora, Sibylla abbassò nuovamente il capo lasciando che il proprio sguardo scivolasse dal soffitto verso l'altare in fondo alla navata, intercettando a qualche metro da lei una grande vasca bianca posta sotto la piccola cupola di legno che si ergeva in direzione del grande crocifisso affisso alla parete frontale. Un grande orologio appeso ad una trave laterale segnava l'ora sbagliata, le lancette dei secondi si muovevano in ritardo, ad occhio nudo impossibile notarlo, eppure Sibylla lo aveva saputo subito. L'ingranaggio era guasto, quel tic tac non era ritmico. Dopodiché, interdetta, riuscì finalmente a voltarsi per scorgere il volto di sua madre a qualche passo da lei, la sua figura non era minuta così come lo era stata gli ultimi giorni, al contrario, sembrava giovanissima, al massimo trent'anni, avanzava nella sua direzione con le mani incrociate dietro la schiena. I lunghi capelli castani erano sciolti e le ricadevano lungo le spalle, un paio di ciocche si erano ribellate per finirle sul petto e solleticare la pancia, il busto avvolto in uno dei suoi abiti a fiori che aveva tanto amato, uno di quelli fatti per presentarsi al suo Signore la domenica mattina, uno di quelli che non odoravano del peccato di qualche giorno prima, quando fermava la macchina al lato di una piccola casa sulla costa e le assicurava che sarebbe tornata presto, prestissimo, le dita magre strette attorno al crocifisso che pendeva al collo. «Mamma?» la chiamò Sibylla con tono di voce deciso, razionalizzando quanto quel momento fosse del tutto illogico, surreale, eppure quando il polpastrello del pollice si strofinò contro il metallo della fede, Sibylla potè avvertirne la durezza e il calore che dalla pelle gli si trasmetteva automaticamente. Sua madre, però, continuava ad avanzare verso di lei e, seppur Sibylla in un primo momento avesse pensato la guardasse, vedendola avvicinarsi dovette rendersi conto di non essere al centro dell'attenzione della donna che, invece, la raggiunse per oltrepassarla senza batter ciglio. Seguì quei movimenti, Sibylla, voltandosi col busto e la nuca per osservare l'epicentro delle attenzioni della donna che l'aveva messa al mondo, ritrovandosi così dinanzi alla figura minuta di una bambina. «Mamma?» la chiamò lei, i capelli castani all'altezza delle spalle e sulla nuca un fiocco bianco, un vestito rosa confetto che si apriva in una gonnellina ad ombrello, ai piedi niente scarpe, Sibylla poteva vedere le dita della bambina che si incurvavano impuntandosi verso il pavimento, quasi volesse evitare che le piante dei piedi aderissero alle staffe marmoree che stavano calpestando. Quando la bambina sollevò lo sguardo su di lei, Sibylla trattenne istintivamente il respiro, le sopracciglia corrucciate dalla confusione che, d'un tratto, sembrò sparire del tutto. Il significato di quella visione continuava a sfuggirle, tutto il resto sembrava tremendamente chiaro: «Chi è?» chiese la bambina, ora l'espressione del volto sembrava specchiarsi di fronte a qualcuno che era vicino metri, eppure distante anni da lei. Interdetta, per qualche secondo Sibylla restò immobile osservando come sua madre raggiungesse la piccola Sibylla per prenderla per mano e condurla in direzione della vasca bianca ferma in mezzo alle file di banche di legno, in prossimità dell'altare. Si fermò dopo qualche passo, voltandosi verso la figlia adulta e sorridendole le fece segno con la mano di seguirla, e Sibylla obbedì come mai a nessun altro avrebbe obbedito. L'odore dolciastro di sua madre sembrava lo stesso di qualche anno prima, di quando tornava a casa dopo le lezioni e lei aveva appena finito di prepararsi per uscire e fare le sue compere. Raggiunte le due figure e ancora incapace di proferir parola, Sibylla osservò sua madre aiutare l'altra Sibylla a scavalcare la parete della vasca e immergere i piedi e le gambe all'interno dell'acqua cristallina. La fece stendere dentro l'acqua, fuori solo testa e collo, il vestito rosa sembrò scolorire contro il bianco del fondo della vasca, danzava ad ogni movimento della superficie dell'acqua così come il resto del corpo della piccola Sibylla. «Mamma, che succede?» chiese allora la grande quando sua madre si inginocchiò di fianco la vasca e immerse un braccio all'interno dell'acqua per smuoverne appena la superficie. La donna si voltò di nuovo verso di lei, sorridendo, e con l'altra mano afferrò il crocifisso appeso al collo per stringerlo di nuovo fra le dita e nasconderlo alla vista di Sibylla. «Sibylla, tesoro, per annientare una paura la devi trasformare in forza.» si pronunciò di nuovo senza aggiungere nulla a ciò che era stato già detto. Ricordava quelle parole, ricordava quel momento, in maniera differente, eppure le sembrava di averlo vissuto in un sogno, un incubo che l'aveva tenuta sveglia di notte quando il potere era stato difficile da comprimere, quando non aveva ancora saputo quale fosse la via, quando gli uomini in giacca e cravatta non erano ancora venuti a bussare alla loro porta. Lo aveva vissuto in una vita parallela, quella dentro la quale aveva rinchiuso tutte le paure, perché avere paura non avrebbe potuto essere un'opzione, e glielo aveva insegnato sua madre, che invece di avere paura del giudizio di Dio, aveva capito che bisognava imparare a redimersi, da lei aveva ereditato le mezzelune sulla pelle come un rito di passaggio da madre a figlia. E lì le vide, quando seduta per terra, la stoffa del vestito di sua madre si arricciò da un lato e le scoprì le gambe, una distesa di pelle bianchissima puntellata di cicatrici rosa. Ancora in piedi, Sibylla scosse piano il capo per disfarsi del filo di un pensiero che sembrava avvolgersi attorno alla nuca come un serpente sottilissimo, ce l'aveva attorcigliato al collo e saliva piano fin su, superando le orecchie ed immergendosi nella chioma di capelli castani che le ricadevano fino alle spalle. La mano di sua madre tornò in superficie mentre la tirava fuori dall'acqua per allungarla in direzione di sua figlia adulta, le dita stirate e il palmo rivolto verso il soffitto e nella direzione dell'altra. Continuava a sorriderle mentre attendeva che Sibylla l'afferrasse. Si voltò a guardare la miniatura di sé stessa ancora distesa nella vasca, ora quasi completamente immersa nell'acqua fino al mento, i capelli le ondeggiavano intorno mentre anche il suo sguardo era rivolto verso la propria versione adulta che, ancora, se ne stava in piedi alla ricerca di una scappatoia. Ma Sibylla non avrebbe potuto muoversi in nessun'altra direzione e, mentre provava a stare ferma con tutte le proprie forze, fu costretta da una forza maggiore ad afferrare la mano di sua madre per lasciarsela stringere dalle sue dita, ricordandola così ferrea come in quel momento, eppure più dolce, più affettuosa di così, più sfocata. «No.» disse, il tono di voce le venne fuori pacato ed incerto mentre si lasciava trasportare dalla forza delle braccia di sua madre verso il viso della versione bambina di sè stessa. «No, no, no continuò piano la Sibylla adulta, eppure il corpo non sembrava volersi fermare. Si chinò con la schiena in direzione dell'acqua mentre s'inginocchiava per terra di fianco al bordo della vasca, sua madre seduta per terra dall'altro lato ora stringeva con veemenza le proprie dita attorno al dorso della mano di Sibylla. «Non ci sarà più paura, fidati di me, piccola mia.» incalzò sua madre annuendo con la testa per incoraggiarla, e Sibylla le avrebbe anche creduto se non l'avesse sentita parlare, se la sua mano non fosse intrappolata in quella dell'altra, perché quello sguardo lo conosceva e ne aveva cancellate migliaia di paure, miliardi di incubi, di colpe.
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    «Lo so che non è reale, se ci fermiamo qui non è reale, smettila!» sbottò a denti stretti provando a tirarsi indietro senza riuscirci. Le venne automatico come accadeva spesso, come si era accordo dell'orologio non funzionante appeso dietro le sue spalle. Veniva automatico perché il destino aveva voluto che fosse così e ora, lo sapeva, rischiava di perdersi e perdere la propria mente. Spostò lo sguardo sul volto della bambina ritrovando dentro quelle iridi le paure da cancellare e un leggero scuotimento del capo, le labbra serrate e curvate verso il basso, se solo le avesse schiuse avrebbe urlato, Sibylla lo sapeva, lo vedeva nella linea delle sopracciglia che da rette si erano curvate per imbrigliare dagli occhi in giù una tristezza pesantissima, evidente, terrificante. Provò a trattenere la mano e tirarla via dalla presa, senza riuscirci, e quando la punta delle dita affondarono nell'acqua, oltre la superficie, per scontrarsi contro la pelle liscissima del collo della piccola Sibylla, il cuore della grande prese a battere all'impazzata, un terremoto dentro al torace che la fece tremare fino alla punta dei piedi e fino ai polsi, le dita restarono ferme ed immobili dentro l'acqua mentre, lente, si chiudevano attorno al collo della piccola. Si voltò di scatto verso il volto della donna che le era seduta di fronte, dall'altro lato della vasca, implorandola a voce e con lo sguardo di smetterla. «Non farlo, mamma, ti prego ci provò ancora, Sibylla, ora il tono della voce sembrava cantilenare, combatteva contro l'affanno che le mozzava il respiro e le inumidiva gli occhi, eppure sue madre non smise di sorridere neanche ora che aveva serrato le labbra, le sopracciglia corrucciate, il viso amalgamato da un'espressione che sembrava un misto fra dispiacere e dovere, fra affetto e oppressione. «Non sto facendo niente, tesoro. Non sto facendo proprio niente.» si pronunciò appena prima di chinare il capo e puntare il mento nella direzione della bambina distesa fra di loro, ora le mani erano tornate a stringere il ciondolo della collana a forma di croce, lo tenevano strettissimo fra i polpastrelli mentre le dita si tingevano di giallo per via della pressione. Dell'acqua sulle braccia non vi era più alcuna traccia, come se non le avesse mai immerse all'interno della vasca. Sibylla si accorse quindi di star stringendo con forza, le dita erano attorcigliate al collo della miniatura di sé stessa, ora tutto il corpo giaceva sotto la superficie dell'acqua chiarissima, solo le mani restavano attaccate ai bordi della vasca e tiravano con tutta la forza affinché potesse risollevarsi con il busto e tornare a galla, recuperare ossigeno. Ma le mani della bambina non potevano nulla contro quelle esperte di Sibylla, i muscoli allenati delle braccia erano in tensione e si vedevano persino da sotto lo strato della maglietta nera a maniche lunghe che indossava, ora completamente fradicia. Gli occhi della piccola Sibylla erano ancora spalancati quando, dopo essersi dimenata con braccia e gambe per tornare all'aria, i movimenti divennero lenti, frazionari, cadenzati, finché l'unica cosa a muoversi per inerzia fu solo l'acqua all'interno della vasca. Tirò via le mani istintivamente appena si rese conto che non vi fosse più alcuna forza a spingerla e, cercando di lottare contro le lacrime che, lente, scivolano giù per il viso, Sibylla cercò di afferrare nuovamente il corpo della bambina per tirarlo fuori dall'acqua e stringerselo contro. Nel punto in cui teneva la fede, il dito sembrava esser graffiato, sanguinava. Ricordò di come Rem le aveva chiuso le mani intorno al collo e l'aveva spinta contro il muro. Ricordò del grilletto che si preme sotto la forza delle sue dita, il proiettile che parte, la pistola scatta. «Mi dispiace...» sussurrò più che altro a sé stessa con le labbra fra i capelli bagnati della piccola sé stessa, sentendosi stupida e al contempo impotente, ingannata, appena prima di voltarsi in direzione di sua madre per poi non trovarla più lì, proprio come il corpo gelido della versione bambina dei sé stessa che svanì lasciandosi dietro solo acqua, la stessa che d'improvviso sembrò riempirle i polmoni fin su alla gola. Si portò le mani al collo e strinse appena, un momento ancora inginocchiata lì per terra, al centro della navata della chiesa, il momento dopo schiacciata da una massa d'acqua che voleva soffocarla dentro una vasca dalle pareti bianche. Ora era lei ad aggrapparsi ai bordi della vasca per tirarsi su, ma l'acqua era pesante, soffocante, e Sibylla non riusciva più a tornare a galla.

    Al centro della navata, ai piedi dell'altare, dentro una vasca di marmo bianchissimo, il corpo di Sibylla giaceva sotto la superficie dell'acqua. Un grande orologio appeso ad una trave laterale segnava l'ora sbagliata, le lancette dei secondi si muovevano in ritardo, ad occhio nudo impossibile notarlo, eppure Sibylla lo aveva saputo subito. Non lo avrebbe più saputo dopo.
     
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    The Fourteenth of the Hill.

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    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.





    Athena Astra Drakos
    ❝39 y.o. , paladin of Justice, chained bird.
    I am no mother. I am no bride. I am king.
    Per Aspera Ad Astrasheet

    I'd say so much to you
    And I would tell the truth
    'Cause I can hardly breathe

    I'm there in the water
    Still looking for you
    I'm there in the water
    Can't you see, can't you see?




    Come un grilletto premutole nella testa, qualcosa scattò dentro Athena.
    Piombò nuovamente in sabbiosi e caldi campi di battaglia, trascinata con violenza oltre lo scranno ove si era seduta per anni. I colpi improvvisi che le furono inferti da corpi senza volto, le virate inaspettate dello scontro che si stagliava su una scacchiera sconosciuta, pedine di cui non conosceva l'intagliatore e ferite miracolosamente rimarginate l'avevano insediata in una nuova pericolosa posizione.
    L'addestramento di un tempo si risvegliò brusco, innescando in lei un istinto a sopravvivere e proteggere con efficienza.
    Non ho ricevuto rapporto, troppe incognite. La fulminò la sua mente che, febbrile ed ossessionata, cercava di braccare fulminea ogni dettaglio ottenebrato solo dal dolore.
    Così abbracciò quel potere che aderì a lei come una seconda pelle, di cui respirò lo sfrigolio croccante e che le perforò il cuore.
    Come se l'avesse brandito da sempre, divenne sua arma per ricamare la scacchiera a proprio piacimento.
    Ridefinisci il campo di battaglia.
    E crateri si aprirono su quella spiaggia maledetta.
    Proteggi l'Unità. Assalto tattico. Colpisci solo dove necessario.
    Chirurgica, eliminava onde di nemici e supportava i suoi alleati.
    Sam, Sibylla, Lars, persino Vilhelm furono in qualche modo schermati e, in parte, la battaglia parve volgere a loro vantaggio.
    La corrente cambiò poco dopo.
    Thyelas si frantumò come postumo indesiderato d'un violento colpo alle spalle.
    Il corpo di Athena si riempì di sangue e sabbia, mitigato solo dall'influenza risanatrice d'un agelo lontano che non riuscì ad individuare fra i crateri.
    Senza fiato mentre cercava di rimettersi in piedi, la giudice sentì la notte ed il gelo nel suo cuore sciogliersi, le lingue di tenebra smettere di lambirne i polsi e le braccia.
    Spalancò gli occhi quando vide Ares dilaniato da profonde ferite, inerte sulla sabbia, il cui grido le aveva penetrato le ossa poco prima.
    Aveva protetto Jonah mentre un'Ombra cornuta come un'antica divinità di Morte vi si era avvicinata con la stessa velocità d'un respiro.
    La sofferenza di Ares l'aveva raggiunta e superata prima che la sua bomba di ghiaccio e tenebra si detonasse così forte da spingere Athena indietro, in un tempo in cui le ferite del suo amante non erano state che la sua orrenda normalità.
    Astra scosse il capo, implorandosi di svegliarsi.
    Abbassò appena gli angoli delle labbra mentre negava secca in segno d'incredulità e rifiuto a quella realtà, nuda, dinanzi a sé. Incespicò nella sabbia, i cui grani sottili le entrarono negli occhi ed in bocca.
    Li sentì sotto i denti nel momento stesso in cui il suo sguardo glauco si colmò di terrore.
    Una letale consapevolezza la calciò con forza nello stomaco, stringendoglielo vigorosamente mentre il suo cuore accelerava come se avesse compreso ancor prima di lei.
    « Non osare arrenderti, non osare dirmi addio, ATHENA! »
    Era sul punto d'accingersi a raggiungere Ares per tirarlo con sé verso uno dei crateri quando, di nuovo, si ritrovò impotente nei pressi dell'Unico.
    Risorto come un messia infernale, la creatura impose il suo discorso sul martoriato campo di battaglia che si inchinò a lui.
    Athena bruciò mentre egli parlava di completare la sua opera, di quanto fossero stati tutti dei folli a pensare di poterlo abbattere.
    Nemici ed alleati, opponenti o meno, tutti si prepararono all'inevitabile.
    La giudice comprese che quello non era stato che un prologo.
    Un libro forgiato dal fato era stato aperto e, in quel momento, l'Unico avrebbe iniziato a leggere senza tregua, assorbendone ogni parola.
    Piombò nell'incoscienza con orrore e densa consapevolezza, ritrovandosi in uno spazio diverso che l'indusse a guardarsi attorno come una lepre in trappola.
    Strinse un pugno così forte da sentire le unghie perforarne la carne, frustrata da quei giochi, dalla consapevolezza che non vi fosse alcuna via di fuga.
    Così si incamminò in quel sogno sapendo benissimo dove andare.
    Tutto era sospeso, immobile, avvolto da un denso e piacevole silenzio.
    Ascoltò lo sciabordio di onde invaderla, le pagine di un libro sfogliarsi.
    Ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα, πολύτροπον, ὃς μάλα πολλὰ πλάγχθη, ἐπεὶ Τροίης ἱερὸν πτολίεθρον ἔπερσεν
    L'uomo ricco d'astuzie raccontami, o Musa, che a lungo errò dopo ch'ebbe distrutto la rocca sacra di Troia"
    pensò, accarezzata nell'anima da qualcosa oltre la sua carne, oltre se stessa.
    Respirò il mare dell'Attica, ne scorse lo scintillio oltre la bella casa sulla spiaggia di suo padre.
    Sollievo immediato le divampò nel petto come se abbracciata da una madre che non aveva mai avuto.
    Le mancava così terribilmente che quasi crollò in ginocchio, cullata dalla sua terra.
    Scorse uno specchio e lì si vide, ragazzina di forse tredici o quattordici anni.
    Di fronte al suo corpo esile come un giunco, a pochi metri, vi ritrovò Ares, giovanissimo come lei che ne perforava gli occhi per invitarla a seguirlo. I capelli bruni e ricci gli incorniciavano il viso, mossi da uno zefiro gentile e salato.
    Era già sulla sabbia, oltre una porta-finestra aperta sul blu della battigia.
    Athena gli sorrise mentre la sua attenzione fu catturata da un dettaglio. Lo vedeva con la coda dell'occhio, sempre presente.
    Un filo rosso soffice e teso.
    Fu accarezzata dalla brezza marina mentre si avvicinava, spinta da una volontà a lei familiare ed estranea, i lunghi capelli neri che le svolazzavano attorno come sinuosi serpenti di ossidiana.
    «So perché siamo qui» ammise Athena con la sua voce adulta in quel corpo di ragazza, guardandosi le mani sottili in quella distesa d'oro e turchese.
    Quando abbassò gli occhi per scorgere deliberatamente il filo, esso era sparito. Eppure sentiva qualcosa annodarsi dentro di lei, un qualcosa di teso ed allentato, legato a lei, legato ad Ares.
    Ascoltò le loro risate di ragazzi librarsi nel vento di quel ricordo cristallizzato dentro di sé.
    L'acqua del mare, fredda e limpida, le carezzò le caviglie mentre Ares vi si avvicinava pronto ad immergersi, abbronzato e libero, ridendo mentre le parlava di questioni che Athena non riuscì a ricordare. Si persero in abissi ovattati mentre il filo le stringeva il cuore ed Ares nuotava spensierato.
    "molti dolori patí in cuore sul mare, lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi.
    Ma non li salvò, benché tanto volesse"

    Le iridi glaciali di Athena corsero al proprio petto, fasciato ora in un abito ultraterreno.
    Capì di non essere più nella sua Grecia.
    Era tornata nel suo corpo di donna e, libera in quelle vesti fatte d'ombra e ghiaccio, si mosse in una distesa notturna fatta d'acqua inaccessibile increspata qui e lì ed un'incredibile, infinita volta celeste sopra di sé.
    Sentì il proprio corpo fatto di perla e diamante e gli occhi grigio-azzurri che cantavano d'un ghiaccio celestiale.
    Bella e terribile, era un titano in una coperta sterminata punteggiata di stelle.
    «Ares..» lo chiamò, echeggiando vellutata in quella distesa sconfinata senza poterne distinguere la figura dapprincipio.
    Poi, in quel mare oscuro e confortevole ove stava camminando, leggera come una piuma, un fuoco strappò il buio.
    Ares bruciava fra scintille scintille caldissime, a suo agio in quelle fiamme primordiali libere ed irruente. I suoi occhi erano tizzoni dal chiarore infinito e furia in cui vi danzava la morte.
    «Non riesco a vedere vie d'uscita» spiegò, trafitta da un lutto che ancora non era neanche avvenuto.
    In quel momento realizzò veramente che avrebbe dovuto condannarlo.
    La sua mano, in qualche modo, avrebbe dovuto spingerlo oltre un baratro dalle cui ombre non esisteva cura.
    Athena si portò una mano ad una guancia che scoprì, con sorpresa, essere umida di lacrime brillanti.
    Cominciò a rivivere la disperazione di aver perso Telathe, morta fra le sue braccia.
    Stava succedendo di nuovo con Ares e, ancora, sarebbe stata lei a falciarne l'anima.
    «Perchè proprio tu? Perchè sei venuto?» domandò con sofferenza mentre si azzardava ad avvicinarsi al fuoco. Gli prese la mano fatta di braci ed il proprio tocco gelido urtò quell'essenza pura, inarrestabile.
    Il filo tirò forte e, finalmente, Athena lo vide.
    Le era legato ad un braccio perlaceo e nudo, le serpeggiava addosso come se fosse lei la matassa da cui era stato teso.
    Si legava ad Ares e la conduceva sempre verso di lui.
    Spaventata e colma di furia, Athena strinse le sue dita alle proprie e si lasciò lambire dalle fiamme.
    «Vattene! Ti prego.. vattene!» l'incitò lei che, adirata dalla scelta che era stata costretta a compiere, cercò di spingerlo violentemente fuori dal proprio universo.
    «FUORI DA QUI!» gli gridò disperata.
    Quando riaprì gli occhi era stretta fra le braccia di Ares. Nudi l'una contro l'altro, i due amanti erano intrecciati in un'unione che impedì ad Athena di recuperare i respiri persi dopo quell'onda di rabbia disperata.
    Sai anche che non posso andarmene pensò dentro di sé, attorno a sé.
    La rabbia mutò, annegata violentemente nell'impronta di un denso desiderio. Si annidava fra i due corpi che bruciavano, dentro quell'intimità calda, travolgente ove regnavano solo loro, dèi di quel momento catturato fra i loro respiri che si rincorrevano.
    Non sapeva dove fossero o quando, non sapeva se fosse un ricordo od un sogno.
    Non le importò quando sentì la pelle di Ares ardere contro la propria, la sua libertà valicare i propri confini per regalarle un po' di quella forza che lei non aveva mai avuto.
    Lo sentì ansimare il suo nome ed Athena vide, fra i propri seni, il filo rosso che usciva oltre le sue ossa e carne, oltre i suoi respiri e si insinuava nel petto di Ares su di lei, primo punto di un ricamo non aveva mai visto.
    Le mie mani sono macchiate del sangue di così tanta gente, ma il tuo… Il tuo è quello che non vorrei mai
    calda cupidigia e morte strinsero il cuore di Athena a quella consapevolezza mentre i due si amavano in quell'illimitata solitudine, in quella distesa di tenebre soltanto loro.
    Non si stavano esplorando o scoprendo, stavano bruciando con tenerezza e voluttà come se fosse l'ultima volta.
    Così Astra afferrò un braccio di Ares e lo tirò contro di sé in un bacio struggente di comprensione ed addio, in quei palpiti dove lo sentiva attorno a sé, nella sua carne e nel suo cuore, benedetta da quell'unione su cui non aveva più rimpianti.
    Si lasciò avvolgere da quell'atto di brama che mutò le sue fondamenta.
    Divenne amore, rinuncia, consapevolezza e morte.
    E mentre artigliava Ares contro di sé, Athena separò i loro corpi il necessario per guardarlo negli occhi.
    «Fallo, va tutto bene» lo rassicurò affannata prima di inspirare profondamente il suo odore di vento e sangue, riscoprendosi grande e bellissima, indisttruttibile come acciaio.
    Separata dal suo amante, si riscoprì grande e libera.
    Athena vide Ares dimenarsi e le sue mani si chiusero, colossali, attorno al suo corpo.
    Le lunghe dita di Astra divennero una gabbia che si stava chiudendo su di lui, inesorabile.
    Il filo si tese, facendo schiudere le labbra di quella dea titanica mentre il suo amante, ingabbiato nella stretta della sua mano, lottava per liberarsi.
    Athena lo guardò con triste comprensione ma non fermò la sua stretta sino a quando non sentì qualcosa spezzarsi.
    Pianse e lasciò andare Ares solo quando comprese che era finita.
    Un dolore lancinante le attanagliò il petto, pressando ed opprimendo dove il filo, comprese, era stato strattonato con forza.
    Si voltò, avvolta adesso in una vestaglia di seta che sventolava mossa da una brezza marina invisibile e capì.
    Era giunto il suo momento.
    I lunghi capelli ondosi le lambirono i gomiti e le spalle quando, sciolti e lucenti, oscillarono soffici al suo movimento silente e consapevole.
    «Ti amo» disse soltanto all'uomo dinanzi a sé, senza più lacrime da versare poichè sapeva ch'egli non le avrebbe accettate.
    Ares non era mai stato la sua famiglia, non era mai stato il suo passato di dolore e morte.
    Ares era stato la libertà che lei non si era mai concessa, fuoco e violenza, vita e passione, sogno ed estasi.
    Ares era fiamma e se qualcuno avesse dovuto condannarla, non sarebbe potuto che essere lo scenario migliore, ardere con lui.
    Così, attese.
    La carezza di Ares le lambì gli zigomi solcati di lacrime, le guance, il collo elegante sino al torace che si alzava ed abbassava arreso ad ogni respiro.
    Il suo amante infilò una mano nel suo petto come se fosse stata una tasca, come se lei stessa fosse stata intessuta dalla mano ineffabile dal Destino.
    Punto dopo punto, il suo corpo divenne ricamo lucente e complesso, celestiale ed eterno.
    Senza fiato, Athena vide il filo rosso muoversi quando Ares le estrasse fra i seni una matassa pulsante, annodata come se fosse stata intessuta e poi scucita più e più volte.
    Gli sostava nel palmo ampio, soffice ed inaccessibile mentre pulsava come un cuore vivo.
    Athena la guardò attonita e vide il filo incastrato nel petto di Ares tornare alla matassa, tentacolo liberatore in un nugolo rosso e stupefacente.
    Annuì una volta, si avvicinò al suo corpo e gli accarezzò i capelli bruni.
    Sentì il suo potere dissiparsi in lingue di fuoco e cenere ma non esitò, non separò i propri occhi dai suoi.
    Sarebbe andato tutto bene.
    « Ti amo anche io »
    Athena si svegliò come riemersa da un oceano che aveva tentato d'annegarla. Scattò seduta mentre s'imponeva di respirare come per ricordare al suo corpo d'essere ancora viva.
    Stringeva la mano di Ares, ancora calda, immersa nel suo stesso sangue, ma inerte nella sua stretta d'acciaio.
    Così l'Unico lesse il loro Capitolo.
     
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    ARES MALEROS
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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: [descrizione di ferita\scene di sangue e soft nsfw].
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.


    Per alcuni istanti, una manciata di secondi passati supino su quella spiaggia irrorata del suo stesso sangue, il terribile mercenario si era ritrovato a cercare con lo sguardo la pallida luce lunare al di là della cupola che li teneva prigionieri.
    Quella stessa luna, quella fonte di luce che ogni sera si affacciava al cielo notturno, era l’unica silente amica che l’avesse sempre accompagnato: ogni missione, ogni incarico, ogni spedizione, lei era stata pallida testimone di tutti i suoi peccati e aveva illuminato con la sua radiosa luce tutto il sangue che egli avesse mai versato.
    Che adesso fosse lì, a riflettersi nella pozza della propria cremisi linfa vitale raccolta sulla sabbia dorata, era soltanto *giusto*.
    Le voci tutte intorno a lui gli arrivavano soffocate all’orecchio, come se non riuscissero a penetrare abbastanza i suoi timpani per essere registrate dal cervello. Ben presto persino le sue palpebre iniziarono a sfarfallare, la vista ad appannarsi, ed Ares si ritrovò a lottare con tutto sé stesso per rimanere cosciente, invano.
    Quando capì di essere sul punto di perdere i sensi, ciò che fece fu cercare di girarsi su un fianco, gemendo e grugnendo per il dolore agli arti inferiori, e allungare una mano sulla sabbia nel tentativo di stabilizzarsi.
    Atena…
    Dov’era Athena…
    La mano si appiattì contro la sabbia dorata e gli occhi si chiusero mentre la testa si accasciava lateralmente.
    Non sentiva poi così tanto freddo in quell’abbraccio sanguigno, o forse era la morte che incombeva su di lei ed era pronta ad accoglierlo tra dita gelate.

    La spiaggia sulla quale si risvegliò era molto diversa rispetto a quella che aveva lasciato, così famigliare da fargli stringere il cuore all’interno del petto e provocargli le lacrime agli occhi, lui che era sempre così poco incline alla commozione.
    La Grecia, l’Attica, Atene…
    Quelle spiagge calde, quel mare cristallino, persino la stessa aria salata che vi si respirava, era sempre stata la sua casa.
    Non importava quanti posti potesse visitare e in quali decidesse di stabilirsi sul momento, quella città era e sarebbe sempre rimasto l’unico luogo dove si sarebbe sempre sentito accolto, come un bambino che veniva ricondotto al seno materno.
    Ares si mise seduto su quelle sabbie dorate e scoprì che le ferite che gli costellavano il corpo erano svanite e che il sangue aveva smesso — almeno momentaneamente — di scorrere.
    Si mise in piedi e cominciò a camminare, godendosi la sensazione di quei granelli dorati che gli solleticavano le piante dei piedi.
    In corrispondenza della riva, Ares si ritrovò davanti una visione, o meglio, un ricordo: lui e Atena, due adolescenti abbronzati intenti a godersi i caldi raggi del sole, erano stesi su di un telo. Il giovane Ares aveva la testa posata sulle gambe di Athena, gli occhi chiusi e un’espressione imbronciata stampata in volto, tipica di chi non era riuscito ad ottenere quello che vuole, mentre Athena aveva un libro tra le mani e, con un sorriso paziente, stava leggendo ad alta voce.
    « L'uomo ricco d'astuzie raccontami, o Musa, che a lungo
    errò dopo ch'ebbe distrutto la rocca sacra di Troia… »
    .
    L’Ares adulto scivolò più vicino a quelle due figure, l’udito attirato da quella voce melodiosa che risuonava non soltanto nell’aria tutta intorno a loro, ma anche nei suoi ricordi, come se stesse parlando dritto nella sua mente.
    Athena continuò a leggere l’incipit dell’Odissea, una delle sue opere preferite, ancora per un po’ prima di sollevare lo sguardo. I suoi occhi glauchi, celestissimi, non si posarono tuttavia sull’adolescente appoggiato sul suo grembo, ma su di sé.
    « So perché siamo qui » mormorò la piccola Athena dinanzi a sé, la voce intrisa di tristezza.
    « Tu sai sempre tutto » sbuffò Ares, scuotendo appena la testa con finto fare esasperato, ma dopo qualche istante si ritrovò ad accennare un sorriso nella sua direzione, un sorriso intriso di malinconia e consapevolezza « Quindi non c’è bisogno che lo sappia anche io, no? ».
    La giovane Athena alzò gli occhi al cielo e chiuse il libro con un sonoro tonfo, lasciandosi sfuggire il sospiro tipico di chi fosse rassegnato all’idea di dover essere la parte matura della situazione. Il giovane Ares era sparito dalle sue gambe ed ella si alzò in piedi, porgendogli poi la mano. Intorno a quest’ultima, precisamente al mignolo, vi era avvolto un filo rosso che si sporgeva nella sua direzione.
    « Prendilo » gli disse l’Athena del sogno e ad Ares venne da ridere ancora una volta.
    « Prima Ulisse, adesso Teseo, vuoi proprio metterti in mostra, vero? » ma la sua mano si allungò comunque per stringere il filo ed Ares seguì il profilo della ragazzina.
    Narrami, o Musa…

    Seguì la bambina fino alla riva del mare e, man mano che vi si addentravano, Ares scoprì che non era l’acqua a circondarlo, ma lingue di fiamme rosso cremisi. Lo avvolgevano in spire rossastre, scoppiettando qua e là tutt’intorno a lui, ma senza bruciarlo e, anzi, come fondendosi alla sua pelle, alla sua stessa essenza.
    Il corpo di Ares era come abituato al calore delle fiamme, come se fossero una parte di lui. Il Caos che aveva imparato a servire in così giovane età, del tutto distinto dalla visione più pacata e tranquilla che aveva avuto poco prima, lo avvolgeva nel suo calore ed Ares sorrise, sentendosi nuovamente potente e indomito.
    Libero.
    Una figura apparve dinanzi a lui proprio in quel momento, che arrancava tra le fiamme per raggiungerlo, il viso rigato di lacrime. Non era più una bambina, ma una donna. Athena.
    « Perché proprio tu? Perché sei venuto? » gli chiese con voce intrisa di rabbia, rancore, forse addirittura furia. Le sue braccia si allungarono verso il proprio petto ed ella lo spinse con abbastanza forza da farlo barcollare, ma Ares riuscì a ritrovare immediatamente l’equilibrio e la strinse a sé con forza, ingabbiandola con le braccia mentre ella si dibatteva e cercava in tutti i modi di respingerlo « FUORI DA QUI! ».
    « Hai detto di sapere perché siamo qui Athena, sai anche che non posso andarmene » rispose con un pizzico di durezza, come se dentro di sé si sentisse furioso per quella mancanza di scelta. Si sentiva libero tra quelle fiamme, ma quella libertà era soltanto un’illusione poiché quel mare cremisi in cui si trovava era l’abisso di perdizione nel quale sarebbe scomparso poco dopo.
    « Sei stata tu a guidarmi fin qui… » asserì, ripensando a quella bambina e al suo sottile filo rosso « Perché lo sai, dentro di te, che non c’è altro modo per uscire se non fare ciò per cui siamo stati chiamati. E lo odio, odio questa cazzo di situazione, odio l’idea che sia tu. ».
    Perché Ares avrebbe sacrificato tutto, persino il mondo intero, tranne lei.
    In un impeto di furore, l’uomo cinse il viso della donna amata tra le mani e la baciò con irruenza e disperazione, cercando di sfogare in quel contatto di labbra, in quell’intreccio di fiamme e acque gelide, tutto ciò che provava, quei sentimenti che si era sforzato così a lungo di nascondere.

    Quel bacio mutò in qualcos’altro ed i due amanti si ritrovarono ben presto in un nudo intreccio di corpi, intenti ad amarsi con una disperazione e al tempo stesso una tenerezza tali da commuovere persino il cuore più duro.
    Erano nudi non soltanto l’uno dinanzi all’altro, ma soprattutto dinanzi alla morte che, paziente, aspettava di accoglierli tra le braccia nel momento in cui avrebbero finalmente realizzato l’inevitabile.
    La condanna di due amanti, non c’era tragedia più grecheggiante di quella.
    Il filo rosso che all’inizio della visione aveva avvolto il dito della mano destra della ragazzina Athena, adesso avvolgeva per intero il corpo della donna adulta. Proprio come prima lui era fatto di fiamme, lei adesso era composta da un’intessitura di fili molto simile a quella con cui aveva creato il suo fedele grifone.
    E Ares si aggrappò a quei fili come se volesse al tempo stesso strapparli e mantenerli intatti, due forze opposte che si dibattevano all’interno del suo petto.
    Doveva condannarla, ma voleva soltanto salvarla.
    « Non voglio farlo, Athena, non voglio! Deve esserci una via d’uscita, deve esserci qualcosa. Ho ucciso tante persone nella mia vita, le mie mani sono macchiate del sangue di così tanta gente, ma il tuo… Il tuo è quello che non vorrei mai » bisbigliò all’orecchio dell’amante, mentre i loro corpi intrecciati erano ancora fusi l’uno con l’altro. Eppure Ares era disperato, arrabbiato, proprio come quel bambino che non voleva studiare letteratura, ma che era costretto a sentire Athena narrare delle imprese del giovane Ulisse…
    Ed Athena si fece grande, immensa e potente, sopra di lui, stringendolo in un abbraccio che sapeva di protezione e di morte al tempo stesso, rifugio e condanna. Ares avvertì le proprie forze affievolirsi, le fiamme che ardevano dentro di sé invisibili spegnersi, e se all’iniziò provò a dibattersi, a combattere, a gridare, perché non riusciva proprio ad arrendersi all’idea che dovesse finire tutto così, nella perdita, alla fine si placò.
    Qualcosa dentro di sé si spezzo ed Ares si sentì piccolo, minuscolo, impotente. Era ancora adulto o era forse tornato il bambino della visione?
    Le sue guance erano umide quando Athena pronunciò due parole che mai si erano detti, ma che probabilmente si erano sempre annidate nei loro cuori.
    « Ti amo anche io » rispose, avvicinandosi lentamente a lei.
    La sua mano si allungò verso il suo viso, dedicandole una carezza mentre con il pollice asciugava alcune lacrime, e poi scese fino al petto.
    La pelle dell’altra era morbida e flessibile, proprio come lana, e Ares ci infilò dentro la mano per tirare fuori quel gomitolo rosso e pulsante che era il suo potere e al tempo stesso la sua linfa vitale. Gli bastò uno sguardo e una leggera pressione con le dita perché quest’ultimo prendesse fuoco.
    Poco dopo, Ares abbassò la mano e ceneri si sparsero sul pavimento ai loro piedi.
     
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    Let's step carefully into the dark
    Once we're in, I'll remember my way around
    Who will I be tonight?
    Who will I become tonight?

    Sarebbe stato difficile compiere il percorso a ritroso, quello che l'aveva trascinato via dalla spiaggia per spostarlo altrove, in uno spazio che non riuscì ad identificare immediatamente ma che ebbe l'impressione di conoscere da tempo. C'era della musica nell'aria, delicatissima e proveniente da chissà quale parte della stanza che stava occupando in quel momento. Ebbe l'impressione di essere tornato a casa, anche se ai suoi occhi casa sua si mostrava in modo diverso da come la ricordava, contaminata da scelte che, per inclinazioni e gusti personali, non avrebbe adottato. Perfino i suoi vestiti erano cambiati, ora decisamente più curati, quasi eleganti. Non sentiva l'abbaio dei suoi cani e gran parte del suo salotto era stato occupato da imponenti librerie, mentre il pavimento e l'aria erano invasi da numerosi fogli, lettere aperte ma dimenticate, e ricordi impressi sulla carta. Seduto su una poltrona a pochi metri dal camino acceso, Vilhelm si portò istintivamente una mano sull'addome, là dove ricordava di aver ricevuto una pugnalata da Naavke. Il sangue era sparito ma sentiva il dolore ancora presente ed acuto sotto la pelle: di quell'incontro non rimaneva che una cicatrice. Perché si trovava lì? La confusione e l'assenza di direzione sembravano essere diventate la cifra di quella strana serata, e forse della sua vita, almeno nell'ultimo periodo. Nel profondo, tuttavia, Vilhelm era a conoscenza della risposta: era lì per rispondere ad un ordine.
    "Abbandonati ad essa. Immergiti nel ruscello." Vilhelm si era sempre sentito come una solitaria barca nel mezzo del mare: si era abituato alla fitta nebbia che lo circondava, all'assenza di una misera fiammella a bordo che potesse accompagnarlo in quel viaggio di ritorno a casa. Poi, ad un certo punto, era stato bagnato dalla poderosa luce di un faro e ne era rimasto abbagliato fino a fare del raggiungimento della terraferma il suo unico obiettivo, ignorando il pericolo degli scogli. L'impatto, tuttavia, era stato inevitabile e ora la corrente l'aveva riconsegnato alla riva tramortito e insicuro, sottraendolo all'unico ambiente che aveva conosciuto, quello dell'acqua, costringendolo ad un'evoluzione in creatura anfibia. Cosa aveva fatto di loro quella città? In fondo, per tutto quello che gli era successo Vilhelm non avrebbe mai potuto incolpare Naavke perché lo capiva. Ora la vicinanza con Naavke non lo spaventava più: quella terribile notte gli aveva donato chiarezza sul suo destino, e sulle azioni che avrebbe dovuto adottare, senza più sentire la necessità di fuggire. Eliminata la distanza tra lui e Naavke, che era in piedi vicino al camino mentre buttava tra le fiamme scoppiettanti e vive alcuni documenti, Vilhelm prese qualche secondo per osservarlo con attenzione. Ebbe l'impressione che Naavke non avrebbe opposto resistenza al compito che Vilhelm era stato chiamato a portare a termine, e l'assenza di anche solo un briciolo di risentimento lo rese stranamente più triste. "Hai provato ad uccidermi una volta, ora è arrivato il mio turno. Non ho mai cercato vendetta, per quanto ho desiderato di ucciderti con le mie mani. Tutto sommato... avrei preferito non arrivare a vivere fino a questo assurdo giorno." Le parole di Vilhelm, seppur gravi e ruvide, non vennero accompagnate da un tono tracotante o vittorioso. Tra di loro, ne era convinto, non ci sarebbe mai stata nessuna sensazione del genere. Al contrario, continuando ad accarezzare con lo sguardo il profilo di Naavke, Vilhelm sembrava voler fare lo stesso anche con la voce che era morbida, macchiata da una stanchissima forma di rassegnazione e sconfitta. Credeva che condannare Naavke, privarlo della sua particolarità, della sua scintilla, avrebbe inevitabilmente segnato anche lui.
    "In verità, speravo di dimenticarti, con il tempo. Avrei voluto lo stesso per te. Volevo che dimenticassi tutto e che decidessi di andartene per sempre, lasciandoti tutto alle spalle. Perché rimanere? Perché tornare ogni volta? La città... è stata lei a portarci a questo. La follia di cui parli non è lontana, è qui, è sempre stata tra noi. Ha vissuto accanto a te." Parlò fissando le fiamme mentre fra le braccia teneva un grosso quaderno in cui erano raccolti degli appunti scritti in modo molto elegante. Quelle pagine contenevano intuizioni e suggestioni maturate nei loro viaggi, l'origine di un rituale che non avevano mai portato a termine. "E forse l'hai nutrita tu stesso." Concluse a bassa voce, spostando lo sguardo sulla mano sinistra di Naavke dove, al di là dei guanti che gli coprivano le dita, avrebbe probabilmente trovato la catena che lo legava ad esso. Conosceva il nome di chi aveva preso posto accanto a Naavke e, pur non potendo avere nessuna conferma, credeva che proprio in quell'unione fossero sbocciati con violenza i progetti creati quasi per gioco in passato. Non poteva nasconderlo: provava una singolare forma di gelosia. "Diventerai sempre più debole. Le tue difese sono ancora abbastanza alte? Ti farai sopraffare?" Domandò e chiuse il quaderno, abbandonando le testimonianze di sogni passati e la risposta di Naavke alle fiamme.
    Un odore di terriccio umido raggiunse l'olfatto di Vilhelm. Non era più buio pesto, ma non era sicuro della presenza di luce. Un cupo crepuscolo li circondava mentre si muovevano fra piccole casupole ricoperte di marmo, statue piangenti, e sentieri silenziosi contornati da alberi alti come pennacchi. Alzando lo sguardo una notte stellata e piena di strisce luminose avrebbe allietato lo sguardo, nonostante quei bagliori non fossero sufficienti per illuminare la loro strada. Nonostante tutto, Vilhelm e Naavke sembravano conoscere bene il percorso che stavano compiendo. Allo stesso modo, le scie luminose in cielo, come frecce scoccate verso un bersaglio, si ricongiungevano verso la loro meta oltre l'orizzonte, senza che si potesse determinare il luogo preciso del loro arrivo. Camminarono a lungo, ma Vilhelm non avrebbe potuto descrivere con certezza quanto tempo impiegarono a raggiungere il punto d'arrivo, o da quanto tempo fossero seduti su una panchina di fronte a due lapidi. "Una strana forma di chiusura." Osservò a bassa voce senza muovere lo sguardo dalle lapidi, vicine e piantate nel terreno. Non si concentrò sull'epitaffio ma continuò a fissare per un po' i nomi sulle lapidi: Lisbeth e Kjetil, la madre e il padre di Naavke. Aveva la sensazione di essersi occupato lui stesso, aiutando Naavke, a calare quei corpi nei loro giacigli, concedendo a Naavke di compiere il suo ruolo come figlio e a loro di stare di nuovo insieme, per sempre. "Credevo di aver portato te nella mia testa, ma forse sono io nella tua." Abbassò lo sguardo su sé stesso, sugli abiti raffinati che lo vestivano, solo per tornare a guardare Naavke, cercando di scrutarne l'espressione. Molte domande che gli affollavano la mente non avrebbero avuto risposte, tuttavia non poteva dubitare dell'affetto che lo avrebbe sempre legato, in modo quasi paradossale, a Naavke. "O forse è inutile continuare a parlare di differenze. Tu ed io... i nostri confini hanno iniziato a diventare sempre meno chiari." Parlò mentre allungava una mano in direzione di Naavke, sentendo una chiamata che lo spronava a spostarsi di nuovo da quel luogo dove erano arrivati insieme. "Per questo potrebbe non essere possibile sopravvivere ad una separazione... non un'altra."
    Severa, bellissima e ferma nel tempo: davanti a loro si stagliava una facciata di una piccola chiesa finemente decorata in ogni suo angolo e ogni sua altezza. Dal portale d'ingresso alla punta più alta nulla era stato lasciato al caso, mentre nelle nicchie trovavano riposo delle statue distrutte dal dolore. La porta socchiusa venne spostata per permettere il loro ingresso e, accolti da uno spazio stranamente molto più vasto, i due continuarono a camminare per un po'. La chiesa sembrava non avere fine eppure in lontananza era possibile vedere un paesaggio bluastro, un cielo chiaro e delle dolci montagne, mentre l'acqua alle loro pendici raggiungeva l'interno di quegli spazi, bagnando il pavimento disseminato di piccole luci provenienti da candele. "Un teschio..." Osservò Vilhelm con pacatezza, riconoscendo sul pavimento un mosaico raffinatissimo e composto da tessere minuscole. Sembravano essere arrivati alla loro destinazione, infine. Solo a quel punto lasciò che Naavke prendesse familiarità con l'enorme parete monumentale che raccoglieva una sontuosa bara in marmo, circondata da statue e due cervi che sembravano essere stati generati dal cervello di certi artisti del Rinascimento italiano. Vilhelm rimase ai piedi delle poche scale che portavano fino alla bara, tornando ad avvicinarsi a Naavke solo per rivolgergli i palmi aperti. Attese che l'altro ripetesse i suoi gesti fino ad allungare le mani verso di lui e, con attenzione, come se fosse stato un amante intento a spogliarlo di ogni sua difesa, Vilhelm gli sfilò i guanti. Lo accarezzò con tenerezza, paziente, saggiando ogni millimetro della pelle che veniva scoperta. Quante altre persone aveva toccato in quel modo? Quanti erano stati cambiati dal tocco di Naavke? Vilhelm si sarebbe portato il palmo dell'altro sulla guancia ma non portò a termine il gesto, pur avvertendo la carezza dell'amato sulla pelle: sapeva che avrebbe sempre rifiutato le offerte di tutte le altre mani che gli avrebbero chiesto di venire per loro.
    "Quando sei pronto..." Si rivolse a Naavke con calma, la voce sfiorata da una morbidezza antica. Le dita strinsero un'ultima volta la mano di Naavke e solo quando avvertì l'altro allontanarsi per primo, allora iniziò ad allargare con lentezza la presa, pronto a sentire il calore dell'altro scivolargli via dalle mani. "Ti raggiungerò presto." La promessa si spense in un sussurro, e Vilhelm cercò di celare la sofferenza, nonostante sarebbe stato impossibile nascondere all'uomo che l'aveva conosciuto meglio di qualsiasi altra persona il tremore delle labbra e l'accigliarsi dell'espressione. Faticò a guardarlo mentre scendeva i primi scalini verso il sepolcro e il loro contatto si faceva sempre più difficile da mantenere, fino a quando la mano che aveva contenuto quella di Naavke non si trovò di nuovo lungo il suo fianco. Ora era solo. Separati, a quel punto non rimaneva che portare a termine ciò che era stato chiamato a fare, rispondendo agli ordini di un padrone a cui avrebbe volentieri negato la sua obbedienza. Sulla mano che stringeva i guanti di Naavke apparve un raggruppamento di luce che compì una serie di spasmi pulsanti. Quella luce non bruciò la pelle di Vilhelm eppure quello spettacolo tanto meraviglioso ne rabbuiò l'espressione. Dopo pochi secondi la stella danzante si alzò in cielo fino a seguire la corsa delle altre, sparendo al di là della vista e al di là dell'orizzonte.
    Dove potrei andare, altrimenti? Quando uno spasmo del corpo lo riportò alla realtà, alla sabbia umida e al terribile dispiegarsi di quella notte, Vilhelm faticò ad identificare quale fra le tante emozioni lo stesse pilotando in quel momento. Aveva l'impressione che fossero tornate tutte all'improvviso dopo averlo abbandonato per un tempo che non avrebbe potuto quantificare. Il dolore fattosi sempre più acuto e che continuava a fuoriuscire attraverso il sangue dalla ferita sul suo addome sembrava essere la sensazione in grado di fare più rumore nella sua testa. Si era espanso su tutto sé stesso, tormentandolo fino a mischiarsi con un'altra crudele consapevolezza: aveva appena condannato Naavke. Tuttavia, Vilhelm credeva di essere in grado di scorgere una luce in lontananza, deboli lampi estivi, il richiamo pallido di una via d'uscita nell'oscurità. In quel momento vedeva sé stesso sulla riva, con in mano una lampada e sembrava attendere l'arrivo di qualcuno.
     
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    Intorpiditi muscoli stanchi lentamente si affaticavano in posizioni meno dolorose sulla sabbia umida, sguardo ancora combattivo con speranza s’aggrappava ai tentativi altrui di infliggere al nemico comune ancora un altro colpo, ancora un’altra ferita, per fortuna ancora un’altra persona disposta a tutto pur di metter fine a tale sfacelo; il cielo, tuttavia, non sembrava della stessa opinione ed inesorabile si frammentava sopra loro, uno scenario apocalittico che colorava quella notte della più comprensibile delle paure. L’ignoto aveva sempre messo in guardia qualsiasi animale, chi più e chi meno, eppure Jonah ancora si sorprendeva di rapidi battiti e tremolanti arti – in quel momento accompagnanti rosse gocce trascinate dal suo corpo in una pozza, fortunatamente, non troppo grande. E tale miracolo era, in realtà, stato reso possibile dall’inaspettato sacrificio di un uomo che mai aveva avuto il coraggio di considerare amico, ma che ora si era (volontariamente o meno) fatto suo scudo da decine di dardi di ghiaccio; non aveva seguito la vicenda in diretta, ma, una volta notata la posizione di Ares, lo ringraziò mentalmente, domandandosi quanto avrebbe dovuto patire per ricevere la sua grazia dopo aver quasi permesso al proprio coltello d’incontrare il suo collo. In quel momento, pensare ad un futuro in cui avrebbe potuto ricominciare a vivere (tranquillamente o meno) nella cittadina con tutti coloro che su quella spiaggia combattevano una guerra fratricida per soddisfare le discutibili idee d’un folle omicida… gli sembrava una fantasia irrealizzabile. Eppure, era soddisfatto: aveva dato del suo meglio, non essendo un guerriero, e, seppur la violenza dolesse in petto più dei proiettili stessi, la volontà di chi aveva avuto il coraggio di far sentire la propria voce, nonostante lo schieramento, lo aveva sorpreso e rinvigorito anche nelle sue condizioni. Confortato dalla speranza, aveva quasi ceduto alla spossatezza come l'Unico, caduto non poco lontano da sé, finché una sua adepta, manto rosso come il sangue versato per un sacrificio inammissibile, non distrusse quanto faticosamente costruito insieme – e fu a tale scenario che i suoi occhi tornarono a mostrarsi grandi e vitrei, che il cuore riprese a marciare e la paura a divorarlo dall’interno. Quale sano di mente avrebbe mai sacrificato se stesso per quel pazzo, per i suoi discorsi privi di senso, e perché, perché diamine la terra, che fino a poco prima aveva cercato di rallentarne il passo, ora lo rinvigoriva, quasi avesse sottomesso Besaid stessa al proprio potere? «Sono il frutto della vostra curiosità, di quella dei vostri genitori, dei vostri nonni. Se non fosse per voi e la vostra sete di potere, io non sarei neanche qui» in una marea di hubris, le sole parole raccolte dalla mente logica del biologo furono queste, un turbine di preoccupazioni sommerse da altre alla sola idea che qualcuno della città stessa fosse responsabile della creazione di quel… beh, dio certamente non era, forse mostro, forse il loro moderno Prometeo. Chiunque avesse avuto tale “sete di potere”, li aveva condannati ad una fine certa, una della quale non avrebbe mai saputo nulla se quel maledetto giorno non fosse rimasto a Bergen, se non avesse abbandonato la propria famiglia per lo sconosciuto che tanto temeva, se fosse rimasto con Anniken – se solo fosse rimasto con lei. Sputò in terra con rabbia il sangue raccoltosi in bocca e, per quanto possibile, si tirò su, rinvigorito momentaneamente al ricordo della sua ragione, del suo essere padre e di suo padre; si chiese se a sua volta si fosse ritrovato coinvolto in un inaspettato evento sovrannaturale, se non lo avesse mai incontrato per questo e se ora la storia si stesse ripetendo. Qualunque fosse la risposta, non importava: riuscì a metter su solo un ginocchio e su questo si poggiò, l’irato sguardo concentrato solamente sull’argentea chioma e le preoccupanti parole in attesa di qualcosa, qualsiasi cosa che si sarebbe potuta rivelare utile per uscire da quella situazione, non per fuggire bensì per tornare a casa. Non sperava altro, non voleva altro, in quel momento più che mai, in cui la paura gli attanagliava lo stomaco malconcio ed il respiro annaspava all’idea d’esser torturato ulteriormente da un essere indistruttibile, il suo cuore s’aggrappava con tenacia al desiderio di vedere l’unica persona per cui avrebbe mai dato la vita – e ciò bastò a provargli d’essere molto più forte di quanto avesse mai ammesso a se stesso. Si concesse di pensarlo solo per qualche secondo prima che l’Unico muovesse le mani, prima che la visuale gli si appannasse, prima che le forze svanissero e lo facessero sprofondare nel suo peggior incubo.

    Le antiche assi di legno, scricchiolanti sotto gli scarponi stranamente puliti, offrivano a malapena sostegno al peso leggero di Jonah, figuriamoci il supporto di cui disperatamente necessitò alla realizzazione, una volta aperti gli occhi, di chi fosse la figura in piedi davanti a sé, un po’ lontana ancora eppure inconfondibile; la bassa statura poco copriva della luce polverosa illuminante la stanza nella quale si trovavano, finestre bianche ed un mondo sconosciuto al di fuori, ma dentro pile di libri conosciuti s’addossavano tra loro e gli scaffali. Impolverate poltrone dimenticate a favore del pavimento, ora lui ben ricordava le detestate schegge nelle gambe d’estate, il fruscio delicato delle pagine tra le dita, la quiete rumorosa d’avventure nascoste in parole e figure d’inchiostro, sensazioni che s’imprimevano prepotenti sul dolore lancinante al fianco ed alla morbida sabbia sotto la pelle, ovattati al confronto. Nulla, tuttavia, poté esser tanto forte da mettere a tacere il gelido terrore nelle sue ossa quando tale scenario, così idilliaco per chi vi aveva legato, dimenticato e ricordato centinaia di pomeriggi in passato, rivelò il raccapricciante orrore della sua verità: lo sentiva, chiaro, distinto, il compito al quale era stato destinato stampato nelle vene da una forza più grande della sua vita stessa. Eppure, l’avrebbe gettata via volentieri pur di evitarsi – pur di evitarle tale tragedia: il falso dio lo aveva condotto lì per un motivo, ripetuto nei suoi discorsi e nelle sue intenzioni più volte, ovvero usufruire della sua particolarità per rimuovere quella altrui. E forse, forse lo avrebbe anche fatto, nonostante l’opposizione ad ogni suo principio, se fosse significato tornare a casa, a quel punto, forse ne sarebbe anche stato capace – ma, per un crudele scherzo del destino, fu la sua casa a giunger da lui per prima, rivelando la piccola Anniken come vittima dell’inderogabile sacrificio.

    «Papà!» un solo attimo era trascorso dal suo arrivo nella dimensione onirica quando mise a fuoco la piccola figura (alta per la sua età) e la sentì avvicinarsi, echi di scarpe da ginnastica contro il legno lentamente arrestatisi allo strano scenario: suo padre inginocchiato in una stanza a lei sconosciuta, una alla volta calde gocce riganti le sue guance in un’espressione che non aveva ancora imparato a decifrare, non avendola mai vista prima. Il viscerale terrore di Jonah era incomprensibile per Anniken, come per lui lo era la sua presenza in quella visione, tant’è che, appena ebbe abbastanza coraggio per parlare senza che il tremolio del suo corpo potesse fermarlo, fuoriuscì piano da tutte le paure che lo stavano affossando ed aprì la bocca in un mezzo sorriso per dire «Lille fugl*, cosa… cosa ci fai qui?». Grandi occhi sorpresi, la piccola si mise una mano aperta sulla bocca, quasi si fosse fatta sfuggire un segreto, e trattenne a stento quella meravigliosa risata, gioia delle sue giornate da 6 anni oramai, prima di rispondere con fare timido, braccia in maniche colorate ora portate dietro la schiena. «Nieeeente…» provò a mentire, espressione divertita impossibile da celare nelle travi d’un soffitto inesistente, tant’è che la maschera facilmente cadde dall’entusiasmo, «Mamma ed io siamo venute da te, sorpresa!!». Non sapeva come dirle che quel grandissimo sorriso, splendente come il sole anche con qualche dente mancante, era un miracolo ed al contempo la peggiore delle notizie, perciò, piuttosto, proseguì con «Cosa intendi dire, Kinna*? Non siete a Bergen..?», sua ultima speranza. La piccola scosse il capo, recidendone i fili. «A lille fugl mancava pappa hauk*…» borbottò timidamente, guanciotte rosse sotto uno sguardo che continuamente saltava dal pavimento al suo babbo, inconsapevoli di quanto dolore gli procurassero, «così abbiamo preso la macchina e, e siamo venute qui… Abbiamo preso una nuova casa – no, un nuovo nido» una risatina la interruppe per la battuta condivisa, la timidezza scomparsa, «è per papà, con tanta luce e un giardino e una stanza per me… Ah, ma è un segreto!! Pappa hauk non deve saperlo!!» La piccola gli fece un occhiolino ed il fantasma d’un sorriso sulle labbra dell’uomo, nato alla visione di quello dell’altra, morì: Liss l’aveva portata a Besaid senza avvertirlo, ignorando completamente ogni sua raccomandazione, tutte le motivazioni che le aveva dato sul perché non fosse ancora pronto a vedere sua figlia abbandonate a favore di cosa? D’una casa nuova..? Per quanto gli dispiacesse averla fatta attendere, ora lei era lì nel peggior momento possibile, e la consapevolezza del suo compito improvvisamente ricadde come un’ancora di piombo sulle sue fragili spalle; nonostante le inquisizioni della bambina sul suo stato d’animo, lui non ebbe il coraggio d’alzare lo sguardo dalle assi di legno, come se in esse vi fosse scritta la soluzione all’incubo che stava vivendo. Avrebbe dovuto strappare la neonata particolarità a sua figlia per volontà dell’Unico – sapeva di non avere altra scelta, di non poterlo sfidare, di non aver neppure una briciola del potere necessario per potervi anche solo pensare – condannandola così al destino condiviso da tutte le altre vittime, da lui tristemente osservate da vicino. Stava per sentenziare sua figlia ad un letto d’ospedale, a perdersi la sua vita, a non esser più libera, ed era tutta colpa sua. Vuoto si fece strada nel suo petto e minacciò d'inghiottirlo al solo pensiero d'essere artefice di tale orrore, una realtà che non sarebbe mai riuscito a riconoscer come tale, un avvenimento per il quale non si sarebbe mai potuto perdonare.


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    «Lille fugl, d-da quanto sei qui?» si arrancò sugli specchi, incapace di parlare senza tremare, senza piangere, anche solo di avvicinare una mano in sua direzione per paura di spezzarle le ali prima del previsto, come se altri cinque secondi in più con lei gli avrebbero concesso il beneficio d’una idea, anche una sola remota possibilità di salvezza. «Hai… Hai forse notato qualcosa di strano? Come dei… poteri magici?» Alla piccola si illuminarono gli occhi, al settimo cielo qualcuno gliel’avesse chiesto, quindi annuì e cercò d’avvicinarsi a suo padre, movimento che invece lo fece irrigidire – ma lei voleva solo dimostrare quanto imparato e dovette arrendersi alla sua volontà, come sempre, anche solo per non farla preoccupare ulteriormente. «Bibidi bobidi… bu!» dita pasciute s’avvicinarono lentamente al grande braccio e, con la lentezza d’un momento magico, sfiorarono una fresca cicatrice con la delicatezza insegnatale per rivolgersi alla natura: seguendone il movimento, la pelle sottostante quasi inghiottì la ferita, il tocco istruttore di cellule nuove perché rapidamente si sostituissero alle precedenti. Jonah provò una dolorosa fitta d’orgoglio e paura che non seppe spiegarsi, semplicemente rivolse un grande sorriso triste a sua figlia, per la prima volta incapace di elaborare anche un singolo pensiero: Anniken era dolce, premurosa, gentile, quella particolarità era perfetta per lei ed era certo, da come il corpo aveva reagito, fosse un meccanismo molto simile al proprio. Oh, quanto avrebbe voluto fosse diverso, non aver mai sviluppato quella capacità, addirittura non essere suo padre così da non invischiarla in simili casini – si sarebbe cancellato dalla sua esistenza se l’avesse salvata: ma ciò era irrealizzabile e nulla, indipendentemente da quanto esitasse, da quanto si scervellasse, da quanto mettesse a tacere quelle squarcianti urla interiori, avrebbe potuto concretizzarlo. Perciò, semplicemente, si lasciò andare, istintivamente stringendo il gracile corpo di sua figlia al proprio – altrettanto fragile, troppo per poterla proteggerla – e la stretta era abbastanza forte da impedirle di scappare, seppur fosse esattamente quanto desiderasse per lei: che fuggisse, che per una singola volta fosse codarda come suo padre e si desse alla macchia, fuggisse da quella città prima che qualcosa potesse accaderle. Le avrebbe fatto lui da scudo, innalzandosi dal basso come il misero mollusco che era contro un possente superpredatore – non aveva speranze, ma comunque, finché il respiro gliel’avrebbe permesso, le sue gambe avrebbero ritrovato il modo di rimanere in piedi, la sua mente avrebbe elaborato una soluzione, il suo cuore avrebbe perseverato.

    D’altronde era stata proprio lei la scintilla del suo coraggio, e lo era sempre stata, sin dalla prima volta in cui i loro occhi s’erano incontrati – i suoi appena nati, i propri rinati da non molto, finalmente certi, per la prima cazzo di volta riempiti da una certezza, la stessa che tutt’ora portava fermamente nel proprio animo e che sperava di star infondendo alla più bella delle creature che avesse mai potuto ammirare. L’amore, anzi, un’emozione anche superiore, quasi di riverenza nei confronti della vita di cui era magicamente responsabile, alla quale aveva consciamente permesso d’esistere e camminare e migliorare il mondo circostante – questa devozione fatta d’abbracci ed insegnamenti, pomeriggi estivi passati ad annaffiare le piante e serate invernali a leggere davanti al caminetto, Jonah non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma lo riempiva più di qualsiasi altra sfaccettatura naturale. Ed ora, invece, era costretto a piegarsi in ginocchio e pregare un altro dio, votare se stesso all’odio ed al dolore ed all’egoistico credo d’un pazzoide la cui sete di potere – non quella altrui, la sua – avrebbe aperto ferite in tutta la cittadina, in tutte quelle persone che avevano sperato e pregato di poter, invece, continuare ad essere uniche, esercitare il loro diritto di nascita di esistere come sé. Non avrebbe potuto desiderare di più per Anniken, che lei potesse crescere rigogliosa e meravigliosa come la pianta che sapeva essere, il più piccolo dei germogli dal più grande potenziale – lo sapeva, ne aveva appena avuto prova ancora una volta – ed invece avrebbe impugnato lui stesso le cesoie. Non riusciva a far pace in alcun modo con l’idea stessa del volto della bambina, confuso ma comunque pieno di fiducia per l’adulto, che dal basso osservava inesorabilmente il proprio futuro estinguersi senza la minima idea di cosa potesse significare; seppur i loro occhi si fossero incontrati, i propri cielo sempre più cupi ed i suoi cerulei sempre più preoccupati, lui comunque non riusciva ad accettare il da farsi. Fu allora che le piccole mani tornarono affettuose, stavolta prendendo le più grandi nelle proprie, e gli sguardi s’incrociarono nuovamente – seppur gli inquisitivi fossero del padre, ora – e «Io… Lille fugle non capisce cosa succede e ha un po’ paura» sussurrò, determinazione ereditata da sua madre, «ma… va bene così. Ti do sempre una mano con il giardino e ora è bellissimo! Se posso aiutare pappa hauk, allora va bene.»

    Il cuore gli sprofondò nel petto, ma Jonah sorrise: eccolo, il coraggio di Liss, quello che lo aveva convinto ad andare avanti, metter un piede dopo l’altro nonostante a malapena ricordasse come farlo, quello che da sei anni ormai lo aveva convinto persino a correre, che gli aveva ricordato la leggerezza del volo prima di poterla sperimentare nuovamente sulla pelle. «Sei diventata così grande» riuscì a ricambiare quel silenzioso scambio con voce rotta solo dopo un momento di silenzio, mano callosa accanto al dolce sorriso imbarazzato, così grande a confronto, un tocco sempre delicato perché la natura va protetta, perché Anniken va protetta. E l’avrebbe fatto, vi avrebbe messo anima e corpo – aveva sempre detto che per lei avrebbe dato la vita e così sarebbe stato, la sua più importante della propria. Le baciò la fronte sigillando la promessa, indelebile nel proprio animo, di fare il possibile per salvarla, per impedirle di esser solo un’altra tra le vittime; sarebbe diventato medico, inventore, mago, dio in prima persona se avesse significato spogliarsi delle vesti di carnefice, complice della terribile tragedia d’aver messo a repentaglio una vita, d’aver strappato al mondo un’altra risata, d’aver spento la più luminosa delle stelle. Ma solo momentaneamente. «Ti amo, lille fugl, ricordalo sempre, okay?» si raccomandò, un ultimo sguardo tra gli occhi affettuosi d’entrambi a sottolineare l’importanza di tale verità, più forte di qualsiasi altra, e seppur anche le piccole guance finirono per imperlarsi di lacrime, la paura dell’incerto capace d’insidiarsi anche negli animi più forti, la bambina annuì e si tuffò tra le braccia della persona a cui più teneva al mondo, unico che avrebbe saputo consolarla. «Andrà tutto bene, piccola mia,» la stretta doleva al fianco del padre, ma incurante continuò determinato nell’enunciare il proprio voto, non ad un dio che ripudiava, ma alla vita stessa, unica alla quale si sarebbe potuto mai rivolgere, «papà ti porterà a casa. Te lo prometto». In tale commozione, in una stanza antica che lentamente si sgretolò attorno a loro al compimento del sacrificio, l’ironia della sorte fu l’ultima pagina su cui il guardo cadde negli ultimi istanti della stretta ingannevolmente dolce: una raffigurazione della Bibbia, una che a malapena ricordava d’aver sfogliato decenni prima, poneva Adamo ed Isacco intenti nel medesimo atto, doloroso inchiostro su carta bianca ripercorso secoli dopo su carne vera con un finale, sfortunatamente, più tragico.

    Al suo risveglio da tale incubo, il corpo di Jonah volle solamente vomitare: e lo fece, ma non furono fluidi a lasciar le sue labbra, bensì un urlo straziante, più forte di qualsiasi altro avesse mai lanciato, un istintivo ringhio ode di rabbia echeggiante nel suo animo vuoto. Inesorabilmente, si spense dopo poco, ma dietro sé lasciò digrignati denti e odio in bocca.

    *Lille fugle = uccellino; pappa hauk = papà falco. Sono i soprannomi che si sono dati a vicenda la prima volta che sono andati a fare birdwatching insieme. Kinna, invece, è un gioco di parole tra il nome della bambina, Anniken, al contrario, e la parola "guance", soprannome con cui Jonah l'ha sempre chiamata perché appena nata aveva delle bellissime guanciotte <3 Non sapendo il norvegese, sono basati su traduttori online, quindi spero siano corretti lmao
     
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    🥀

    Nikolaj Mordersonn aveva mentito nel dire a Naavke di non contemplare la morte. Ci pensava costantemente da quando aveva diciotto anni anzi, da prima. Da quando aveva ricordo. L'essere nato come era nato lui l'aveva messo di fronte ad essa numerose volte, vuoi per i rischii legato alla condizione che univa lui e il gemello siamese, vuoi per l'infelicità in cui quest'ultima lo buttava ogni giorno. E a pensarci bene, per tutta la vita aveva cercato un modo di tentare la morte assumendo qualsiasi tipo di droga, correndo qualsiasi tipo di rischio, andandoci abbastanza vicino e allettandola per poi però avere paura di quell'incontro e mollare la presa all'ultimo minuto.
    E ancora a un passo da essa si trovava in quel momento, disteso in un piccolo cratere che qualcuno aveva scavato nel terreno. Buttato, un involucro sanguinante e quasi privo d'aria. Come era successo? Chi l'aveva svuotato? Dopo aver visto, dopo che gli fu raccontata una versione della vita che non prevedeva lui ma bensì la sua identica copia, aveva faticato a ritrovare sé stesso. Era andato estinto o era ancora sulla spiaggia? Quell'attacco lo sorprese nella potenza della sua intimità e, se c'era una cosa a cui il Mordersonn teneva era proprio quella, la porzione più profonda di lui che così tante volte invece gli veniva negata da uno status e una posizione non scelte, bensì ereditate. E per uno che viveva il privato come lo viveva lui, rivendicando nell'intimo una libertà distruttrice, tra le pareti vuote di una casa troppo grande per un solo uomo, l'assalto di Lars sapeva di vera e propria invasione. Ma il richiamo dell'Unico lo spinse a cercare un obbiettivo su cui rifarsi, su cui riversare l'odio accumulato dalla ferita subita e la paura di fallire. La mente di Nikolaj si schiantò con forza contro Sirius, un prete a cui mai avrebbe confessato i propri peccati. Una volte finito, con l'uomo ai suoi piedi Nikolaj aspettò che il senso di colpa arrivasse a spezzarlo ma non accadde, e credette di aver avuto finalmente la meglio. Ma si sbagliava di grosso. Non lo vide arrivare ma lo sentì come peso sulle spalle, sul collo come bruciore immediato. Un singulto, gli spasmi per prendere aria e sfuggire al dolore non fecero che amplificarlo. Ho intenzione di divorarla. Quella frase schizzò dal passato per atterrare nel presente, fra le tempie appiccicose come il sangue che fuoriusciva dalla pelle lacerata copiosamente. Non gli serviva vederlo in faccia, sapeva esattamente a chi appartenevano quei denti, l'impronta nauseabonda che gli infuocava i tessuti. Provò a reagire, allungò un braccio a sferzare l'aria, furibondo, mentre l'altra mano tastava il collo nel tentativo primordiale di fermare il sangue o, quantomeno, di rallentare la sua discesa lungo la pelle, sulla tunica. Nonostante il dolore lancinante, nella furia cieca Nikolaj riusciva a dare ascolto a un solo un pensiero: aggrapparsi alla figura che si allontanava, fermarla, dilaniarla. E mentre agitava il braccio libero gridando rabbioso contro Naavke, Lars, contro l'Unico che l'aveva condotto lì, contro il gemello che nella morte era più presente che mai, contro la terra, il cielo, la sabbia che si alzava in nuvolette effetto lacrimogeni, contro tutti e contro niente, fu allora che la sentì. Uno, due, tre. Ci sei? Si voltò bruscamente, il braccio teso in avanti a creare spazio, un lunga barriera di carne culminante in una mano aperta, palmo verso di lei, eretta a proteggersi il petto e il cuore. Delilah? Immaginò di dirlo senza riuscirci, le labbra cucite in una linea tutta sospetto, esangue e sottilissima. Il secondo errore, probabilmente quello più grande, che si portava dietro dal mondo vero lontano dalla spiaggia, quando esisteva un Nikolaj che aveva in qualche modo a cuore una Delilah. Come era potuto accadere? Lui che aveva passato una vita intera a eliminare ogni punto debole si bloccava alla vista di un paio di occhi azzurri. Tentennò . È che vedeva stelle in quegli specchi chiari; se privi di nubi si scorgeva anche la Torre Eiffel capovolta. Cercò di ragionare ma la mente non lo consentì. Riusciva solo a pensare di voler estinguere il freddo che dallo squarcio pulsante nel collo si diffondeva nelle ossa, allagandolo tutto dall'interno. Se c'era qualcuno che poteva scaldarlo era Delilah. Delilah che doveva portare via, salvare, nascondere prima che gli occhi dell'Unico le si posassero contro. E in quel momento di estrema fragilità, Nikolaj tremò come sotto una scossa magnitudo 7.8. Apparentemente, il senso di colpa affliggeva anche a lui.
    Annuì impercettibilmente, il braccio teso si abbassò lasciando che lei riempisse la distanza che da sempre lo proteggeva. E sbagliò per l'ennesima volta, rendendosi conto dell'errore solo troppo tardi, quando le dita affusolate di lei divennero morsa d'acciaio. Il grattacielo Mordersonn si piegò, fu costretto a terra, le ginocchia a fondo nella sabbia mentre l'unica persona che contava qualcosa per lui, a parte Sofie, gli toglieva l'aria dai polmoni. Tradito. Si aggrappò con le mani all'avambraccio di Delilah cercando di graffiarlo, di allentare la presa che lo stava soffocando. Non ci riuscì, e mentre le proprie dita smettevano di lottare e le pupille roteavano all'indietro nel cranio, Nikolaj scorse il cielo trapunto di stelle squarciato da una miriade di capelli biondissimi. O era il sole che sorgendo avrebbe oscurato gli astri negli occhi di Delilah? Spinto nella buca da un piede creduto amico, Nikolaj non si rese conto dell'inganno. E mentre il mondo intorno a lui crollava, con mezza faccia che affondava nella sabbia Nikolaj maledisse il giorno in cui l'aveva incontrata.
    Mai più, si disse. Mai più si sarebbe fidato.



    «Sarà breve, lo prometto.»

    Un rumore sommesso, come uno squittio. Qualcuno aveva paura.
    Sbarrò le palpebre, occhi grigio azzurro spalancati come bocche in cerca d'aria dopo una profonda apnea. Quello che videro però, che ottennero in cambio fu così inaspettato da stordire. Bianco accecante. Non c'era più la sabbia, e anche il dolore si era attenuato, ora solo un pulsare sordo tra capo e collo, lontano, come se non fosse più suo. Aggrottò le sopracciglia. Era morto? Se così fosse stato, non sarebbe di certo andato in un paradiso fatto di nuvole argentee come quelle. Attese qualche secondo per lasciar fare alle pupille il proprio lavoro di adattamento al cambio dall'oscurità della spiaggia a quella luce sfavillante. Gli sembrò di avvertire l'aprirsi e il chiudersi frenetico del diaframma che cercava di dare alla retina un'immagine capovolta ma che avesse un senso, che significasse qualcosa. Sentiva il fiato tornare indietro, la guancia fino a poco prima seppellita nella sabbia ora spingeva su una superficie più solida e al profumo di disinfettante. Attese fino a che il bianco non cominciò a sporcarsi di grigio e il contorno di alcuni oggetti si manifestò. Possibile che fossero le pareti della stanza, quelle? Ancora quel rumore sommesso, come uno squittio. Qualcuno aveva paura. Quel rumore gli batteva fra le tempie insieme all'urgenza di agire, fare quella cosa che lui voleva, confondendolo. Roterò gli occhi verso l'alto per cercare di localizzare la fonte di quel suono, scontrandosi con una figura in metallo a lui terribilmente famigliare. L'aveva già vista, ci si era sdraiato sopra anni e anni fa. Un brivido lo scosse. Lui su quel lettino medico aveva compiuto il primo grande scempio della sua vita. Due piedi nudi e bianchi penzolavano dal bordo, e allo squittio si mossero impercettibilmente. Si sollevò sulle braccia con cautela, scoprendosi intrappolato in un camice da paziente nella scatola che lo rinchiudeva nello stesso incubo dai diciotto anni. Era al Modersonn, a casa, lì dove molti anni prima aveva detto sì e costretto il proprio gemello a separarsi da lui. Non aveva più messo piede lì dentro nel mondo reale, era destinato a farvi visita solo nei brutti sogni. Due dita toccarono il collo trovando la pelle intatta. Del sangue nessuna traccia, solo quel lento battito come se il cuore concentrasse tutte le sue risorse lì dove era stato morso. L'ennesimo squittio, questa volta una voce di donna che conosceva bene lo costrinse a sollevare lo sguardo e avvicinarsi alla brandina chirurgica, i passi lenti produssero il rumore di scarponi nonostante fosse a piedi nudi e gli sembrava di affondare nella superficie solida della sala operatoria. La vide prima lui. Gli occhi di lei erano chiusi, la fronte leggermente increspata all'altezza delle sopracciglia, sembrava stesse sognando qualcosa che la confondeva. Anche lei indossava un camice, e Nikolaj capì subito che, proprio come tanti anni prima con Jakob, sarebbe toccato a lui o a lei essere il paziente e morire. I capelli erano sparsi intorno alla testa come stecche bionde nella raggiera di una ruota di bicicletta, e fremettero un po' all'ennesimo lamento che fuoriuscì dalle labbra socchiuse della ragazza. Era lei a squittire. Era lei ad avere paura. Come se l'avesse percepito, Delilah sgranò gli occhi puntandoli nei suoi come fiaccole azzurre. ≪Sono qui.≫ Si ritrovò a dire Nikolaj con un tono che provava a tranquillizzare ma che, era evidente, fremeva di sentimenti contrastanti. Colmò la distanza che lo sperava da lei senza la fretta di chi vuole salvare qualcuno. Ormai le gambe sfioravano il lettino ma Nikolaj non si mosse, non la baciò, non le sfilò i numerosi aghi che collegavano le sue vene ai tanti macchinari. Non fece un bel niente, limitandosi a scrutarla in cerca di qualcosa, forse delle stelle. O di una torre Eiffel capovolta. Ma non c'era niente.
    Intanto, sentiva il braccio esile di Delilah stringersi sul suo collo come se fossero di nuovo sulla spiaggia e lo stesse soffocando in quel momento, e più stringeva più la rabbia dell'uomo saliva a galla. Allungò finalmente una mano, dall'incavo del gomito i polpastrelli passarono su un ago senza fare attenzione e seguendo la linea violacea di una vena più marcata delle altre scesero fino ad arrivare quasi al palmo della mano. Ricordava quel lettino come fosse stato lì il giorno prima, il freddo che dai piedi saliva fino alle cosce nude, l'odore nauseabondo del disinfettante nelle narici secche, l'ondeggiare leggero delle zampe di ferro che sotto il peso di quei corpi informi si muovevano come fossero su una barca a vela. Le cinghie che avevano legato loro e tanti altri pazienti. Ne strinse una intorno al polso di Delilah, tradendola come lei aveva fatto con lui. ≪Tu.≫ Sibilò, i muscoli temporali così serrati che le parole uscivano fuori a stento. ≪Tu mi hai tradito. Perché?≫ Era una domanda a cui non serviva davvero una risposta, il semplice tentativo di una mente confusa, irata e profondamente ferita di dare senso a una realtà che la ragione aveva sempre tenuto in considerazione e che il cuore aveva spinto invece a silenziare. Nikolaj non donava niente di sé a nessuno. Mai. Colpirlo, giocare a quel modo con lui significava solo una cosa: non c'era modo di tornare indietro. Del Nikolaj che conosceva Delilah non c'era quasi più niente in superficie, l'odio e il dolore tremavano dietro al vitreo e minacciavano esplosione distruttrice. Che fai? No! La ignorò. Della spiaggia rimanevano gli ordini dell'Unico e qualche granello di sabbia fra i capelli che cadde su Delilah non appena l'uomo prese a chinarsi su di lei. ≪Di me hai visto molto più di chiunque altro, ero a un passo dal darti tutto e tu hai deciso di non volerlo. Perché?Perché hai una bruttezza dentro che è impossibile da amare. Una voce, la sua? Gli insinuò quel pensiero dentro. Il dolore di quel tradimento sembrava pulsare ora lì dove Naavke gli aveva strappato la carne, pulsava sotto la pelle intatta come se combattesse per riaprirsi e solo Nikolaj, finché legato all'ultimo briciolo di umanità e d'amore rimasta, poteva evitare che imbrattasse tutto. A un soffio dal suo viso, Niko continuava a scrutarle negli occhi alla ricerca delle stelle senza riuscire più a vederle. ≪PERCHÉ?!Dovevi essere la stella che tiene a bada la mia notte! Non lo disse, ma urlò disperato alzando una mano come se volesse colpirla, invece la poggiò sulla sua guancia stringendo la pelle sotto i polpastrelli per tenerla ferma mentre obbediva all'incarico che l'Unico aveva dato loro. Nel cratere sulla spiaggia, la voce dell'uomo gli era giunta incredibilmente forte e chiara per uno che stava a una passo dalla morte. L'Unico era nella sua testa, e non aveva intenzione di lasciarlo andare. Mentre così faceva, mentre Nikolaj la prosciugava del suo potere, al contempo la stava spogliando di parti del suo essere create per difendersi da una realtà troppo difficile da affrontare. E lo sapeva, sapeva esattamente cosa stava facendo. Delilah allora, come per contrastarlo, prese a mutare sotto di lui. Se la vide scorrere davanti in ogni sua forma e sfaccettatura, l'essenza complicata, irritante e affascinante di Delilah. Nikolaj ora stringeva il viso di Melodie che inveiva contro di lui e usava la mano libera per graffiargli la faccia, il collo, le spalle urlando lasciami, stronzo; usò allora anche le dita dell'altra mano per afferrare il collo che ora era di Judith. Dove sono i miei bambini? I miei bambini, i miei adorati bambini... Serrò le labbra, il fiato corto per lo sforzo di tenerla ferma e completare il rito senza lasciarsi sopraffare da quel vertiginoso cambio che avveniva letteralmente sotto la sua presa. E di nuovo Melodie che scalciava, Judith che piangeva, capelli castani, biondi, rossi, uomini e donne mai visti prima che Nikolaj continuava a soffocare perché no, non era come aveva detto lei sulla spiaggia: lui poteva farlo. All'improvviso tutto si calmò, e Nikolaj si ritrovò fra le mani Fae. La spinta nello stomaco che sentì gli ricordò tutte le volte che insieme si erano ubriacati e sentiti male dopo, sui marciapiedi della città o a casa sua, che dal grigio standard delle pareti si riempiva di colori al passaggio dell'amica arcobaleno. «Sono lì con te, Nikolaj. Non mi vedi?≫ Non poteva averlo detto, era stata la mentre a ripescare, fra tante, proprio quella frase dalla memoria intorpidita dell'uomo. La presa delle sue dita fremette senza mollare del tutto. ≪Non ero io...≫ Disse la Fae che stava morendo sotto di lui. Scosse forte la testa sul perno della colonna vertebrale, strizzando gli occhi come a scacciare quelle parole, quell'immagine, la consapevolezza e il dubbio che si insinuavano in lui producendo un minuscolo bagliore di luce nelle tenebre di cui era fatto. ≪Sono io, ora. Sonoiosonoiosonoio.≫ La voce era cambiata di nuovo e, sollevando le palpebre, Nikolaj fissò un cielo ricolmo di stelle. ≪Delilah?≫ Fu come se la vedesse davvero per la prima volta, rendendosi conto di quanto lontana fosse dalla donna che sulla spiaggia l'aveva strangolato. E in quel momento qualcosa cliccò dentro di lui, ma era troppo tardi. Provò a mollare la presa, riuscendovi solamente per qualche secondo prima che l'impulso di completare il lavoro non lo spinse a spingere di nuovo le proprie impronte digitali sulle sue guance. ≪Ci. sto. provando.≫ Sputò una parola alla volta, i muscoli delle braccia tremavano per lo sforzo di combattersi. Sentiva il potere di lei riempirlo fino all'orlo, e le lacrime iniziarono a scivolare fra le ciglia chiare dell'uomo e sulle guance di Delilah, mischiandosi forse a quelle di lei in una poltiglia di dolore, perdita e colpa. Qualcos'altro iniziò a colargli lungo il collo, sul camice suo e quello di lei. Sangue. Da pulsazione distante, il morso sul collo tornò ad aprirsi come una bocca famelica e urlante, le fauci di Naavke, e una bomba di dolore gli esplose fra le meningi facendolo vacillare sulle proprie gambe. La realtà stava tornando in superficie e con essa tutto il resto. ≪Non posso Del, non riesco a fermarmi! ≫ Un singhiozzo sonoro, il panico si impadronì di lui quando le mani, cariche della vera essenza di Delilah, presero a tremare talmente forte da fargli credere si sarebbero spezzate insieme alla ragazza. Sotto di lui, Delilah si scisse ancora un paio di volte, come una lampadina che prima di spegnersi del tutto lampeggia ancora per qualche secondo e tutti la contemplano. Strizzò di nuovo gli occhi, Nikolaj, serrandoli così forte da farsi male mentre un urlo lasciava la gola in fiamme. L'eco di quel suono straziante sarebbe rimbalzato sulle dune e nei crateri della spiaggia, da dove l'uomo, solo e in fin di vita, non si era mai davvero mosso.
    E fra le pareti di una camera di legno, nella tenda/tana con la foto della torre Eiffel capovolta sul soffitto, dove a chilometri di distanza una stella di nome Delilah cominciava già a raffreddarsi e a perdere la propria luce.

    Raga perdono non ho riletto e fa schifo però DOVEVO postare. Besos


    Edited by scarecrow! - 6/8/2023, 20:41
     
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37 replies since 25/5/2023, 20:33   1730 views
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